Corriere della Sera - La Lettura
Caramamma ti amiamo all’unisono
Nati il 14 luglio 1988 nel periferico quartiere romano di Tor Bella Monaca e cresciuti sul litorale di Anzio, i fratelli gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo lo scorso anno sono stati la rivelazione del Festival del cinema di Berlino con la loro opera prima, La terra dell’abbastanza. Il film, vincitore di un Nastro d’argento, ha entusiasmato critica e pubblico con il suo asciutto racconto di una storia di amicizia e criminalità. Un esordio da maestri della scrittura e della tecnica cinematografiche, sorprendente anche perché la formazione dei giovani registi è tutt’altro che accademica: hanno frequentato l’Istituto alberghiero e, prima di girare il film, hanno lavorato come fattorini, camerieri, giardinieri (e hanno collaborato con Matteo Garrone alla sceneggiatura di Dogman). Hanno anche scritto poesie, ora raccolte in Mia madre è un’arma (La nave di Teseo), un volume che si apre con un testo intitolato Mamma, si chiude con Email a mio figlio, e costruisce un ponte temporale che proietta chi scrive oggi verso un futuro ancora vago.
Tra questi poli si sviluppa una trama vissuta e scritta insieme dai fratelli D’Innocenzo, che lavorano e scrivono come due parti di un’unica mente e di un unico sentire, come il nastro di Möbius, senza distinguere l’opera dell’uno da quella dell’altro. O, per dirla con le loro parole: «La mia voce sembra l’eco tuo che torna,/ invece è solo voce mia che parte,/ la tua è già schizzata in alto».
I ve r s i co l l o qui a l i di Mia madre è un’arma catturano la poesia della vita quotidiana, di gesti comuni, ma preziosi nella consapevolezza della loro fugacità. Gesti minimi e cari, velati di nostalgia nel momento stesso in cui si osservano, mentre diventano già ricordi di un passato irripetibile. Come una macchina da presa, le poesie dei fratelli D’Innocenzo registrano immagini, episodi perfino banali (cucinare, lavare i piatti) con tenerezza e leggera crudeltà, raccontano l’amore per i cani, danno voce al dolore («che mi ha stupito»), al tempo desolato che segue le relazioni finite, ai «segreti/ di una madre contrita/ aspettando un figlio di rientro in casa», a un amore filiale che si fa brusco per scacciare il pensiero della fragilità, all’inevitabilità della morte: «Per quello che posso vedere/ e per quello che posso volere/ direi che se va bene a tutti si/ va via». Lo sguardo degli autori è disincantato, sa che non bisogna prendersi troppo sul serio: «Io sono solo uno che ha trovato troppe agende vuote di istituti/ bancari del 1991,/ tra la spazzatura./ Ma c’è del buono anche in questo./ Davvero./ Persino la mediocrità ha/ passato, presente e futuro».
Mia madre è un’arma si conclude con l’unica poesia di cui conosciamo la paternità: a 25 anni, anzi «quasi 26», ancora figlio che rispetta e ama i genitori «senza che me l’abbiano imposto», l’autore («Sono Damiano, tuo papà») si rivolge a un figlio suo non ancora nato perché vuol essere «un buon padre./ Meglio di come s ono s t a to f i gl i o » . È comprensibile: «Non ho avuto un figlio come ispirazione per essere un buon figlio./ Però ho avuto un padre come ispirazione per essere un buon padre».
La necessità di questo testo forse racchiude lo spirito dell’intera raccolta: tentare di fermare il tempo anche anticipandolo, per essere sicuri di riuscire a dire le «cose importanti». Non sono molte: «Fidati di tuo padre», «non odiare mai tua madre», «non pensare mai che tuo padre è vecchio e che non può capire». Soprattutto, «io voglio che tu faccia quello che d e s i d e r i » , p r i mo e d e s t r e mo d o n o d’amore.