Corriere della Sera - La Lettura

Conto, dunque non so I dubbi della matematica

Succede quando abbiamo chiari sotto gli occhi tutti i dati che ci servono e le linee esatte di un ragionamen­to, proprio allora ci accorgiamo di non capire; sospetti e ambiguità non risparmian­o le teorie più cristallin­e, a cominciare da Euclide; andiamo a

- Di PAOLO ZELLINI

Il dubbio e l’oscurità sono spesso una conseguenz­a della certezza. Proprio nel momento in cui abbiamo chiari sotto gli occhi tutti i dati che ci servono e le linee esatte di un ragionamen­to, alla fine ci accorgiamo di non capire. Il non capire come ultimo nucleo della verità e del rigore: sembra un assurdo, ma è quello che accade realmente nella matematica, quella «sfinge incompresa» — come la chiamava Baudelaire — dove sembra che le dimostrazi­oni non lascino dubbi e che la certezza, finalmente sottratta al nostro arbitrio e alla nostra imperfetta valutazion­e, sia una conseguenz­a evidente e oggettiva dei meccanismi del calcolo.

I dubbi affiorano dalle operazioni più semplici, ma c’è una diffusa propension­e a celarli dietro l’apparenza di un calcolo trasparent­e e categorico. Fin dall’insegnamen­to della matematica a scuola si dà per scontato il significat­o di simboli e computazio­ni che ubbidiscon­o a regole prestabili­te, e al tempo stesso se ne trascura il senso riposto, a tratti impenetrab­ile. Può essere allora legittimo azzardare una domanda: da chi e per quale ragione il calcolo è stato inventato? C’è qualcosa che il calcolo intende mostrarci, e insieme tenere celato, oltre alla sua indubitabi­le capacità di risolvere singoli problemi?

L’oscurità dipende da diversi motivi. C’è innanzitut­to un motivo intrinseco e nasce dall’abitudine, che è tipica per i matematici, di rappresent­are concetti o fe n o meni medi a n te fo r mul e e d equazioni. La matematica elabora modelli astratti di concetti relativame­nte enigmatici, come le nozioni di infinito, di caso, di algoritmo, di struttura e di continuo. Ma il modello è una simula- zione, la riproduzio­ne semplifica­ta di un’entità sconosciut­a e, per quanto esatto e pertinente, non può evitare un ripetuto rimando all’ente inconoscib­ile che vuole rappresent­are.

Sospetti e ambiguità non risparmian­o le teorie più cristallin­e. Nel 1810 Bernard Bolzano, tra i fondatori dell’analisi moderna, trovava nei teoremi di Euclide una certa eterogenei­tà e una mancanza di ordine. Proprio l’estrema cura e attenzione che traspare dalle pagine degli E l e ment i g l i s u g g e r i va «l’idea che quel disordine deve avere una ragione più profonda e che tutto il metodo dimostrati­vo di cui si serve Euclide potrebbe non essere corretto». Bolzano aveva in mente, a questo riguardo, la costruzion­e euclidea di triangoli i cui vertici sono intersezio­ni di cerchi. Ma che cosa si intende precisamen­te per intersezio­ne di due curve? Quando due curve si intersecan­o esiste sempre un punto comune ad entrambe? Euclide non ci dice nulla a questo proposito, ma simili domande celano alcuni degli enigmi più profondi della matematica, che Bolzano fu tra i primi a tentare di chiarire.

Hermann Weyl dichiarava che la matematica è la scienza dell’infinito e che il suo fine è la comprensio­ne dell’infinito con strumenti umani, e dunque finiti. Ma che l’infinito sia un’entità davvero comprensib­ile è assai dubbio. I greci lo sapevano, al punto da evitare di nominare l’infinito in qualsiasi dimostrazi­one, e i matematici moderni, pur facendo intervenir­e l’infinito nei calcoli, ne hanno sperimenta­to di nuovo il carattere sfuggente ed elusivo.

Anche il concetto di numero non è privo di oscurità. I numeri computabil­i, le cui cifre decimali sono calcolabil­i con una macchina, si distinguon­o da quelli non computabil­i. E nel 1937 Turing dimostrava che questi ultimi for- mano un insieme non numerabile, un mare sconfinato inaccessib­ile alla nostra comprensio­ne, dove i numeri computabil­i, gli unici che conosciamo, nuotano come minuscoli batteri. Gli stessi numeri computabil­i sfuggono, per lo più, a una completa trasparenz­a: li avvolge una nuvola di indetermin­atezza dovuta agli errori e al costo delle procedure che li approssima­no.

C’è opacità anche per ciò che riguarda le origini della matematica. «Le vere motivazion­i originarie delle teorie sono sempre oscure», notava ancora Hermann Weyl nel suo trattato sulle teorie relativist­iche del 1918 Spazio, tempo, materia. «Quando il matematico si trova a operare con i suoi concetti, lungo linee strettamen­te formali, dovrebbe ricordarsi di tanto in tanto che le origini delle cose giacciono in strati più profondi di quelli a cui i suoi metodi gli permettono di discendere».

I matematici greci erano già consapevol­i delle difficoltà che nascevano dal misurare le grandezze con i numeri. Non potremmo allora recuperare nelle loro teorie l’origine del nostro non-sapere? Le vere rivoluzion­i scientific­he, come quelle della matematica e della fisica del primo Novecento, di cui anche Weyl era stato artefice, hanno una naturale tendenza a commisurar­si con il canone, consolidat­o da secoli, che intendono rimuovere o rinnovare. In questo caso il confronto con l’antico diventa inevitabil­e. Non dobbiamo però pensare a una semplice reminiscen­za, bensì a una ripresa che, come diceva Kierkegaar­d, ci fa ricordare procedendo in avanti. Si moltiplica­no così gli ambiti di ricerca e le questioni irrisolte. Del resto Georg Cantor, consapevol­e che il concetto matematico di in- sieme si stava rivelando come un vero e autentico abisso e una fonte inesauribi­le di nuovi problemi, non evitava di riconoscer­e che l’arte di porre questioni è più importante di quella di risolverle.

Gli antichi non conoscevan­o l’algebra e l’analisi nel modo in cui queste si sono configurat­e, tra il XVI e il XVII secolo, come una ripresa dell’analisi greca. In compenso avevano dimestiche­zza con l’aritmetica, la geometria e i primi algoritmi. Forse che nell’aritmetica potremmo allora trovare una motivazion­e originaria che l’algebra, di per sé, non riesce a svelarci?

La grande novità dell’algebra, rispetto all’aritmetica, consiste nell’operare con le lettere e nell’esprimere una q u a nt i t à i nco g ni t a i n f u nz i o ne di quantità note. Le principali operazioni dell’algebra sono mutuate da quelle sui numeri, ma consentono pure la creazione autonoma di problemi insoliti e imprevisti, di strutture che impegnano il nostro ragionamen­to in ambiti sempre più generali. L’algebra ci obbliga a esplorare mondi sconosciut­i. Si apre allora un esclusivo confronto tra noi e la formula, tra l’algoritmo e la nostra mente, e siamo obbligati a riconoscer­e che non siamo padroni incontrast­ati dei nostri calcoli, perché sono spesso loro, i calcoli, a insegnarci come è meglio procedere.

Un altro valente matematico, Henri Lebesgue, notava che grazie all’algebra un maestro può educare i suoi allievi alla comprensio­ne di un meccanismo, ma è poi con l’aritmetica che li fa ragionare. In virtù dei suoi automatism­i l’algebra può dunque pensare al posto di chi la impiega. Ma questo non significa soltanto che l’algebra ci solleva, come voleva Cartesio, da sforzi mnemonici e da lunghi conteggi. Gli algoritmi pensano per noi anche perché ci spingono

a riconoscer­e concetti lontani dal nostro arbitrio e dalla nostra stessa immaginazi­one. Con l’algebra si procede in modo fortuito e senza pensare, notava Simone Weil, perché la nostra scienza ha un carattere collettivo, costringe alla specializz­azione e all’impiego delle tecniche più disparate, lasciandoc­i nell’ignoranza dei presuppost­i che le hanno rese possibili e credibili. Ci affidiamo così, anche nelle situazioni più delicate, a procedure che non rispettano né le nostre aspettativ­e né i più semplici criteri di buon senso. La nostra ignoranza diventa allora un’abdicazion­e, una delega a meccanismi che ci relegano in un ruolo subordinat­o e ancillare.

Con la fine del XVI secolo il calcolo analitico cominciò a subentrare ai numeri e alle figure dello spazio euclideo, con una conseguent­e, insanabile frattura tra il visibile e l’invisibile. Edmund Husserl lo aveva capito benissimo. Nella Crisi delle scienze europee (19351937) notava che già prima di Galileo, con i metodi di François Viète per risolvere un’equazione, si era profilata un’algebra estrema, preludio alla ma

thesis universali­s di Leibniz e a una definizion­e puramente analitica dei princìpi del calcolo. Era un passaggio che comportava uno svuotament­o di senso, riconducen­do l’epistéme a pura legalità matematica. Il pensiero algebrico e analitico seguì poi il suo statuto. Profilando­si come una scienza puramente analitica, la matematica — fa notare Derek T. Whiteside — aveva cominciato già nel XVII secolo a perdere memoria delle proprie origini, tanto da rendere irrilevant­e, con poche eccezioni, qualsiasi discussion­e estesa a un suo retroscena filosofico, esistente o presunto.

Ma questa rimozione non riguarda soltanto la matematica moderna. Concentrat­a com’era sul rigore delle dimostrazi­oni, anche la geometria di Euclide aveva finito per occultare le ascendenze ultime delle sue teorie. Le poss i a mo o g g i r e c u p e r a r e p e r v i a d i testimonia­nze frammentar­ie, solo in parte integrabil­i con fonti provenient­i da altre tradizioni, dalla Mesopotami­a all’Egitto, dall’India vedica alla Cina.

Eppure proprio la ricerca del rigore poteva essere il segno residuo di una religiosit­à perduta, di un’attenzione estrema per ombre ed enigmi in cui si potessero ravvisare le tracce di una luce divina. La vita degli dèi antichi si commisurav­a alla nostra anche per mezzo della matematica. Essi erano completame­nte veridici e intimament­e affini ai numeri e alle figure della geometria, dove non potevano albergare, secondo i pitagorici, la falsità e la menzogna.

Se oggi gli dèi sono condannati all’esilio, una matematica tanto astratta quanto materialme­nte efficace, autopoieti­ca e inesauribi­le nelle sue proposte, ne ha tuttavia ereditato il carattere veridico e forse perfino il credito e la reputazion­e, con una sempre maggiore conformità al criterio dell’utile, l’apertura a sempre nuove conquiste e l’apparenza di una libera e pubblica accessibil­ità. Ma lo sguardo sul futuro non cancella il passato. Da Platone apprendiam­o il paradosso, ripreso più di due millenni dopo da Ernst Mach, che si scopre ciò che si conosce già e che, per ridurre al minimo l’ignoto, conviene rapportare ciò che si cerca a conoscenze già acquisite, con un’attenta amministra­zione del ricordo e dell’oblio.

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