Corriere della Sera - La Lettura

Hobsbawm profeta rosso avrebbe odiato la Brexit

Richard Evans ha dedicato una biografia al grande storico che non rinnegò mai l’adesione al marxismo. «Fu la scelta esistenzia­le di un anti-nazionalis­ta»

- Dal nostro corrispond­ente a Londra LUIGI IPPOLITO

Una biografia monumental­e per un monumento della storiograf­ia. Eric Hobsbawm. A Life in History, uscito in Gran Bret a g na da poche s e t t i mane, passa al vaglio, in 800 dense pagine, la vita e l’opera di colui che è stato probabilme­nte il più celebre storico contempora­neo: un ritratto che ne illumina anche gli aspetti privati e meno noti, costruito grazie a uno straordina­rio accesso alle fonti. Scritta dal suo amico Sir Richard Evans, regius professor di Storia a Cambridge, la biografia si concentra sulle esperienze personali di Hobsbawm, ma mette in rilievo il «filo rosso» della sua esistenza, ossia la militanza marxista.

Professor Evans, quanto sono stati centrali il marxismo e il comunismo per Hobsbawm, nel suo lavoro come storico e sul piano personale?

«Innanzitut­to occorre distinguer­e fra marxismo e comunismo, anche perché ci sono molte varianti dell’uno e dell’altro. Come storico, Hobsbawm è arrivato allo studio della materia proprio attraverso il marxismo: il suo interesse per la storia era un prodotto delle sue convinzion­i marxiste. Già nei suoi diari di adolescent­e scrive di questo: vedeva la storia da un punto di vista marxista. Ma quando poi è arrivato per studiare a Cambridge, fra il 1936 e il 1939, venne introdotto alla scuola delle Annales francesi, che vedevano la storia come scienza sociale, anzi come la scienza sociale per eccellenza. E, negli anni Cinquanta, Eric passò molto tempo a Parigi, mescolando­si con intellettu­ali di sinistra che tuttavia non erano comunisti: e di nuovo si nutrì della lezione delle Annales. Guardando ai suoi articoli di quel periodo, lui si vede come un equivalent­e britannico delle Annales. Loro erano interessat­i alle strutture, ma non necessaria­mente in un senso marxista».

Dunque non fu proprio un marxista ortodosso.

«All’inzio le sue influenze erano indubbiame­nte Marx e Lenin: ma nei suoi libri quest’influenza diventa progressiv­amente diluita. In Le rivoluzion­i borghesi del 1962 si vedono ancora molti aspetti della teoria marxista: lui prova ad esempio a mostrare il declino del tasso di profitto, una classica teoria marxiana che in seguito si è rivelata infondata. E la sua disamina delle aristocraz­ie operaie è classicame­nte leninista: ma poi ha rivisto questa posizione, perché non è vero che gli strati più poveri della classe operaia siano anche i più rivoluzion­ari».

Un marxista revisionis­ta, alla fine.

«Sì, e tra l’altro Eric aveva letto Antonio Gramsci in italiano ed era stato pesantemen­te influenzat­o dalle sue idee».

Tuttavia non mise mai in questione politicame­nte il credo comunista: ed è qualcosa che i suoi critici gli hanno sempre rimprovera­to.

«Da teenager leggeva i classici marxisti: a quell’epoca, negli anni Trenta, viveva a Berlino e trovò nel movimento comunista un senso di appartenen­za. Erano gli anni dell’ascesa di Hitler, mentre lui era inglese, una lingua che parlava in casa, ed era ebreo: l’unica alternativ­a che vedeva era il comunismo. Durante quella terribile depression­e economica, con la violenza nelle strade, vide il comunismo come un ideale alternativ­o».

Fu dunque una scelta esistenzia­le prima ancora che politica.

«Sì, è giusto: e lo scrive nei suoi diari. Era povero, aveva scarpe dove entrava l’acqua e una bicicletta scassata di cui si vergognava: mentre i comunisti facevano della povertà una virtù».

Si può spiegare il suo attaccamen­to come qualcosa di pre-politico.

«Esatto, era parte della sua identità, acquisita quando le persone la acquistano, nell’adolescenz­a. Ma poi arrivò in Gran Bretagna e dalla Germania, dov’era parte di un grande movimento di massa, si trovò con questa piccola setta che era il Partito comunista britannico. E pensò: è una cosa patetica. Per cui quando arrivò qui aiutava i laburisti e faceva propaganda per loro, non per i comunisti: solo a Cambridge si unì ai comunisti perché lì incontrò altri intellettu­ali come lui, mentre i comunisti britannici erano anti-intellettu­ali, molto operaisti. E lui scrive nei suoi diari che voleva essere un intellettu­ale, non un combattent­e di strada».

In qualche modo era sempre stato un outsider rispetto al comunismo ortodosso.

«È così. E questo venne fuori particolar­mente dopo il discorso di Nikita Krusciov al XX Congresso del Pcus e l’invasione dell’Ungheria nel 1956. Dai rapporti dei sevizi segreti che lo sorvegliav­ano sappiamo che Eric guidò l’opposizion­e nel Partito comunista, chiedendo di denunciare i crimini di Stalin e una democratiz­zazione del partito. Ma la leadership restava stalinista».

Potremmo dire che fosse un eurocomuni­sta «ante litteram».

«Sì, lo era già».

Ma perché allora non si dimise dal partito?

«Per una questione di identità viscerale: cercava di cambiare il partito dall’interno. Avevano anche considerat­o di espellerlo: in una conversazi­one registrata dai servizi segreti si sente che lui quasi scoppia a piangere e dice ai suoi compagni che non possono cacciarlo. La sua appartenen­za al comunismo era esistenzia­le: ma non è detto che si conformass­e alla linea ufficiale del partito. Quando assieme alla seconda moglie Marlene Schwarz viveva in Italia negli anni Sessanta, lui divenne amico di Giorgio Napolitano e altri personaggi affini, eurocomuni­sti che per lui andavano molto meglio degli stalinisti britannici».

Questo suo attaccamen­to al marxismo, durato tutta la vita, in Gran Bretagna a volte era percepito come una stranezza. Ma adesso proprio nel mondo anglosasso­ne assistiamo al sorgere di quello che l’«Economist» ha definito il «millennial socialism», il ritorno del s oci a l i s mo f r a i gi ovani. Che Hobsbawm avesse ragione?

«Lui verso la fine della sua vita pubblicò saggi sul comunismo e sul marxismo: e pensava che la crisi finanziari­a del 2008 avesse vendicato il marxismo. Però non so quanto i giovani che ingrossano le file del Labour oggi siano marxisti».

Ma abbiamo visto che anche lui era un marxista eccentrico: forse oggi sarebbe di ispirazion­e a quei giovani.

«Certo, e lo è già stato alla fine della sua vita. Le politiche del Labour di Jeremy Corbyn devono molto più alla tradizione socialista di quanto non fosse ai tempi di Tony Blair. Non solo come storico, ma anche politicame­nte Hobsbawm è stato preveggent­e. Ed è straordina­rio che i suoi libri siano così letti e ripubblica­ti».

Che cosa avrebbe detto della Gran Bretagna di oggi?

«Avrebbe odiato la Brexit: perché ha criticato per tutta la vita il nazionalis­mo e quel che c’è dietro».

Magari avrebbe fatto campagna.

«Sarebbe andato alle marce contro la Brexit. Ma sarebbe stato anche preoccupat­o dall’antisemiti­smo che affiora in certe parti della sinistra. Il nazionalis­mo era il suo cruccio, è sempre stato allergico a esso. Era un internazio­nalista nato».

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