Corriere della Sera - La Lettura
L’OFFENSIVA (NON SOLO) CULTURALE DELL’ISLAM
Sabbia. Sole. Silenzio. L’esotismo orientalista ci ha a lungo imbambolati con una visone del Levante statica e arcaica. Non è mai stata realistica. Fino alla Prima guerra mondiale l’Impero ottomano è stato una potenza di rilievo, sostituito con instabili e precari confini che hanno fatto del Medio Oriente una delle polveriere del mondo dai tempi della guerra fredda. Ma lo sfruttamento di immense riserve di petrolio e di gas, specie nella Penisola Arabica, ha reso degli Stati patrimoniali grosse pedine economiche e poi finanziarie. In altri Paesi europei gli investimenti delle monarchie del Golfo sono ingenti e da tempo (basti pensare al comparto dell’Islamic finance, in Italia praticamente inesistente).
L’aspetto culturale, e un passato coloniale meno pesante, rendono simpatici e appetibili i brand italiani della moda, dello sport (Ferrari e calcio) e più di recente del turismo di lusso. L’interesse della nuova Arabia Saudita nel settore artistico sembra qualcosa di più di un capriccio. Com’è noto, non soltanto alle donne è stato finalmente concesso il permesso di guidare, ma anche di andare allo stadio (in settori a loro riservati) e sono state riaperte dopo decenni le sale cinematografiche. Per tacere dell’acquisto del leonardesco Salvatori Mundi da parte degli Emirati Arabi Uniti, tra l’altro visitati di recente da Papa Francesco.
Le ragioni per considerare questi fatti rivelatori di inedite tendenze non mancano. Si aggiunga che una politica estera italiana protesa fisicamente verso l’altra sponda del Mediterraneo, dopo Andreotti è rimasta pura retorica. I molti e validi studenti di arabo, turco e persiano nostrani non sono contattati dal ministero degli Esteri, da grandi aziende e neppure dall’Eni (come avviene altrove), probabilmente perché gli arabi che contano parlano inglese o francese. Si dimentica così un celebre detto di Maometto: «Chi conosce la lingua di un popolo, previene i guai della loro astuzia». Acume e scaltrezza che latitano sia nell’affaire Arabia Saudita/Teatro alla Scala, sia nelle aperture verso la Cina che resuscita la Via della Seta. Trump ci ha definiti francamente un avversario, ed era ora, ma la preparazione della nostra classe dirigente verso nuove sfide lascia a desiderare. Persino un corso di Business Arabic proposto alle seconde generazioni di immigrati, perfetti mediatori fra made in Italy e imminente Expo di Dubai, non ha incontrato interesse. Vendersi male e al primo che capita non è mai un buon affare.