Corriere della Sera - La Lettura
Le tre donne che liberarono l’Iraq
L’intervista La scrittrice Inaam Kachachi parteciperà al Festival della lingua e della cultura araba di Milano. E racconterà la storia di tre pioniere. Ma a «la Lettura» dice che di loro ci sarebbe bisogno anche oggi. Perché Bagdad «sta precipitando all’i
Tre donne, tre pioniere arabe della prima metà del secolo scorso. Ma lo sarebbero di nuovo, oggi, in Iraq. Perché la storia può retrocedere, regredire quasi di colpo dalla modernità al Medio Evo, azzerare decenni di progresso e di vittor i e s oci a l i . S i c hi a mavano Mas ’o uda al-’Amaratiliyya, Salima Murad e Afifa Iskandar; e in comune avevano un talento speciale per la musica, coraggio, ingegno, voci straordinarie e sangue iracheno.
La s c r i t t r i ce , e l oro connazionale, Inaam Kachachi, emigrata 40 anni fa da Bagdad a Parigi, le ha scelte come esempi del ruolo femminile nelle rivoluzioni all’interno di una società caparbiamente conservatrice, e racconterà le loro storie venerdì prossimo nell’aula magna dell’Università Cattolica di Milano, al Festival intitolato Shahrazad fuori dal palazzo. La donna nello spazio pubblico e il suo apporto alla lingua e alla cultura araba, e organizzato dal professor Wale Farouq. Ma anche la storia personale di Inaam Kachachi, scrittrice e giornalista, appartiene al filone delle donne rivoluzionarie che non si arrendono davanti a guerre, occupazioni, dittature, misoginia e fanno sentire la loro voce, con un microfono o un romanzo.
A 27 anni, Inaam Kachachi ha lasciato un Iraq sull’orlo della guerra con l’Iran, per laurearsi in giornalismo alla Sorbona di Parigi. Dopo vent’anni è diventata francese. Anagraficamente. Ha diretto le riviste «al-Jil» e «al-Duwaliyya» e l’edizione in arabo di «Marie Claire». I suoi libri, scritti nella sua lingua materna, hanno conquistato lettori in tutto il mondo e vinto premi, come il «Lagardère», in Francia, per la letteratura araba, nel 2016.
Il primo a essere pubblicato anche in Italia è stato un saggio, nel 2003, Parole di donne irachene (Baldini e Castoldi). L’ultimo in ordine di tempo, un romanzo, Dispersi (Francesco Brioschi editore), è la storia di una diaspora familiare nell’Iraq contemporaneo, ma soprattutto di una donna, Wardiya, la protagonista, che con la sua professione di ginecologa prova a cambiare il destino delle donne in una provincia del sud del Paese. Non può, però, né vuole trattenere i suoi figli dall’emigrare in Canada, ad Haiti o negli Emirati, e diventa l’unica depositaria dei ricordi di famiglia e di un passato che è anche quello del suo Paese.
«È difficile, come irachena, scrivere un romanzo senza parlare di politica — spiega Inaam Kachachi —. A quasi cento anni dalla rivoluzione, anche se in realtà fu una sollevazione, contro i militari inglesi, mi piace ricordare tre cantanti del mio Paese che, per prime, ruppero il tabù e fecero sentire le loro canzoni fin nelle zone rurali».
Era proibito?
«No, non era vietato dalla legge, ma era decisamente inusuale. Mas’ouda era nata all’inizio del Novecento ad ’Amara, nella campagna meridionale dell’Iraq. Cantava ai matrimoni, alle feste di paese e aveva una voce bellissima. A un certo punto cominciò a indossare abiti maschili, cambiò la sua voce e anche il suo nome, nel maschile Mas’oud; osò dichiar a r s i omosessuale, a cca s a ndosi co n un’altra donna. I suoi dischi, in vinile, erano molto popolari a Bagdad. Con la sua forza di carattere era riuscita a imporsi, ma finì tragicamente, uccisa per una storia di gelosia da un’altra donna».
E Salima Murad?
«Ebrea, era adorata negli anni Trenta e Quaranta, al punto da riuscire a influenzare ministri e deputati. Cantava in un cabaret, che a quel tempo non era un posto dove si ballava la danza del ventre e corre-
vano fiumi di alcol. Erano locali frequentati da persone colte ed eleganti, erano autentici cenacoli artistici, e Salima divenne la regina del parab ». «Parab», che cosa significa?
«È una parola araba quasi intraducibile. Nagib Mahfuz, premio Nobel per la Letteratura, ha provato a equipararla al
nirvana. Salima fu omaggiata dagli iracheni con il titolo di pashà, il nome turco per qualificare un gran dignitario». La terza, Afifa Iskandar, era la più popolare.
«Era anche la più giovane. Interpretava una musica più leggera, più facile, canzoni d’amore. Ballava, faceva l’occhiolino, recitava, era come una star hollywoodiana. Animava un salotto letterario e strinse un patto con il poeta palestinese Jabra Ibrahim: libero accesso al cabaret e al suo ristorante in cambio di lezioni d’inglese, il passepartout per l’alta società». Perché proprio loro tre?
«Perché erano star in un tempo in cui, in Iraq, era difficile diventare star. A Bagdad si potevano incidere dischi, ma nei villaggi non c’erano grammofoni, anzi, non c’era neppure l’elettricità».
Negli anni Venti, in Iraq, c’erano altre donne notevoli, come l’archeologa ed esploratrice inglese Gertrude Bell, madrina del nuovo Stato.
«Ufficialmente era la segretaria del governatore britannico, ma in realtà era così potente da essere soprannominata “la regina segreta dell’Iraq”. Scriveva tutti i giorni una lettera a suo padre, ed è grazie a questa corrispondenza che sappiamo qualcosa della società irachena d’inizio secolo. Difficile trovare fonti migliori o diverse per capire la situazione di quel tempo. Le donne della campagna incoraggiavano gli uomini a combattere gli inglesi, ma non sapevano leggere né scrivere». Ha voluto stabilire un parallelo tra il passato e il presente?
«Sì. Perché oggi, nel mio Paese, c ’è gente che impone un altro modo di vivere, gente che considera la voce femminile una vergogna da nascondere. La cultura artistica è diventata haram, peccato, perfino in atenei e istituti di belle arti».
Si riferisce all’Isis?
«L’Isis è soltanto una virgola della storia. I partiti islamisti in Iraq sono altrettanto fanatici e vogliono riportare il Paese al Medio Evo. Tutti gli sforzi delle donne irachene sono stati vanificati. Io non ho mai portato l’abaya, quel velo che copre soltanto parzialmente i capelli lasciando libera la frangia, ma mia madre sì. Noi figlie uscivamo, andavamo all’università o al lavoro con la testa scoperta e con abiti colorati. Ma le figlie della mia g e n e r a z i o n e o r a d e vo n o i n d o s s a r e l’hijab, che è peggiore dell’abaya». Chi ne è responsabile, per lei?
«L’invasione americana. Ha condotto al potere chi ha imposto questa marcia indietro. Le prime vittime sono state le donne. Con gli intellettuali, i professori universitari, i medici. E le minoranze. Né sotto il regime monarchico né sotto quello repubblicano i cristiani erano stati perseguitati come nell’Iraq post-americano. Gli Usa volevano instaurare la democrazia ma abbiamo perso la libertà, l’emancipazione delle donne. Gli intellettuali sono stati liquidati o se ne sono andati». Dunque era meglio il regime di Saddam Hussein?
«Non so se fosse meglio o peggio. Già se dobbiamo porci questa domanda vuol dire che siamo nella merda: gli iracheni devono scegliere fra la peste e il colera? Meritiamo davvero un simile flagello? È proprio questo a spingermi a scrivere romanzi: è il mio modo di respingere l’infelicità che è caduta sul mio popolo. In tanti vorremmo che l’Iraq tornasse sé stesso. Ma quell’Iraq è emigrato altrove». Tornerà a Bagdad un giorno?
«Sono già tornata qualche volta. Nessuno vuole morire lontano dal suo Paese natale. Sono stata strappata dalle mie radici. Dell’Iraq mi mancano il sole, il fiume, la letteratura, la poesia e la musica. Senza non sto bene nella mia pelle. E non è stato facile imparare a essere liberi». Che cosa intende dire?
«Ho iniziato a pubblicare dopo i 50 anni, per la paura radicata dentro di me. Sono partita, nel 1979, ma i miei genitori, le mie sorelle erano lì. Ostaggi. Ho imparato a poco a poco a scrivere liberamente, senza temere guai per loro. È stata la mia battaglia, e ancora non sono sicura di essere libera al cento per cento. Si è costretti a riflettere su ogni riga che si scrive. È come camminare fra gocce di pioggia».