Corriere della Sera - La Lettura

Un pezzo di terra un po’ più di una casa

Luoghi/1 In linea con la tradizione novellisti­ca Paolo Teobaldi raccoglie storie, figure, soprannomi (parecchio evocativi, tra l’altro: Tamagnòtt, Figh-sécc, Carabòc’la...) per raccontare una minuta, viva porzione di Marche

- Di ERMANNO PACCAGNINI

C’è un significat­ivo cambio di prospettiv­a nel nuovo romanzo di Paolo Teobaldi, Arenaria. Se solitament­e nei suoi romanzi precedenti ( La discarica, La badante, Il mio matrimonio, Macadàm), al centro stavano problemi che nel procedere narrativo si incarnavan­o in figure specifiche, qui è un microcosmo a essere rivisitato da chi si esprime nelle vesti di un nonno che viene presentand­o affettuosa­mente quel mondo a cavallo tra Pesaro e Gabicce a una nipotina anglo-italiana ma dal nome francese, Julie, chiamata altrettant­o affettuosa­mente «francesina mia» e «mucciolina mia». Una nipotina alla quale, portandola «in groppa» o «seduta all’amazzone sulla canna della bici, o sul seggiolino», vorrebbe far «toccare con mano il vuoto lasciato da una casa e una casata che non ci sono più», cercando di spiegarle che «le cose non sono sempre state così come le vedi».

Luoghi e famiglie, dunque. E anche parole che le qualifican­o. Parole come i soprannomi, ad esempio, perché a un portalette­re può riuscire impossibil­e consegnare una cartolina di precetto a uno «sconosciut­o» Fenatacci Guerrino, che per tutti è solo Rino dei Pirón. E così è tra personaggi singoli e famiglie identifica­te non tanto dai cognomi quanto dai soprannomi (Pregadì, Pajèr, Tamagnòtt, Grancèla, Santolén, Pirón, Carvèll, Fighsécc, Sgambarlèd, Carabòc ’la), che si muove la memoria di questo pòr nònn. Sicché, se poi ci trovi un cognome come Lambardati o Bonetti o Pultrocchi, è solo perché il primo è un conte nonché il «padrone di tutti» e gli altri sono la sua longa manus in quanto fattori; col secondo, «invidioso e cattivo», che però un soprannome se lo guadagna ma infamante (Faccia-da-cazzo), e che, scontratos­i col nonno di Mulìga, «buono come il pane sfornato», finisce con «tre colpi di doppietta».

Nomi, cognomi e soprannomi segnati da un comune destino di estinzione. Si tratti d’un patrimonio dissipato al gioco, per el sòr cónt Lombardati. O d’una casa che muore lentamente: come La Veduta, una villa «progettata e costruita con tutti i crismi dai migliori architetti e paesaggist­i d’allora» che, come le «case, quando non sono più abitate, intristisc­ono, deperiscon­o, s’abbruttisc­ono e poi sbiadiscon­o e poi cominciano a fare la muffa negli angoli e poi arriva un ragno, uno di quelli che si cala dall’alto senza neanche bisogno della corda doppia». O del mare che si mangia «piano piano» i possedimen­ti di una famiglia, e la sua stessa casa. O dell’arenaria, che riducendos­i trascina nel nulla persone e case. Dall’estinzione può salvarti solo la memoria: d’un viso, un fatto, o un quadro, come per La Veduta le stampe colorate del Mingucci.

Il nonno cerca di radicare la memoria in nomi e parole, recuperand­o immagini, aneddoti, piccole storie che incontrano anche la grande storia che di lì passava con la Linea Gotica: e che lascia «quei venti chilometri d’arenaria fino all’inizio della pianura padana disseminat­i di mine interrate, di bombe d’aereo inesplose, tuffatesi di picchetto nella luzza morbida», in una delle quale incappa Tonino coi suoi buoi dei quali alfine rimangono «solo di cinciangol­i sanguinole­nti e bruciacchi­ati, difficili distinguer­li e ricomporli» e che, messi «in una cassettina piccola piccola che sembrava una scatola delle scarpe fa dire a qualcuno che nella disgrazia almeno avevano risparmiat­o sulla cassa da morto».

La memoria prende vita grazie al dipanarsi di parole in disuso che costituisc­ono il tessuto del romanzo, sul quale le tessere delle parole si dispongono a puzzle, venendo a ricostruir­e un mondo vivo, con figure che paiono uscire dalla tradizione novellisti­ca che ha segnato la nostra letteratur­a, come accade ad esempio con quella bicicletta che in inverno viaggia con le braci in uno scaldino fissato al manubrio.

Un andirivien­i memoriale tra storie sviluppate­si tra i due versanti dell’altura del San B arto lo, che tutti dicevano «monte, anche se il punto più alto non su pera im200slm»:d al versante rivolto a nord-est, detto anche di vernìo, battuto dai venti di maestro, bora, greco e levante; e quello a sud-ovest detto di caldese, esposto al sole e attraversa­to dalla storia. Versanti vicini ma lontani: opposti in tutto, persino nella caccia alle palombe o nella pesca, si tratti alla tratta o quella miracolosa con le saponette di dinamite (ma da dosare nella miccia a seconda che si tratti di baldigare o spigole).

Parole che si danno però non da vocabolari­o ma narrativam­ente, entro una narrazione che ha il tono da cantastori­e, nella quale l’arenaria non è più solo materia, ma metafora del tempo. E in un procedere per associazio­ne e divagazion­e, gestito con oralità insieme sciolta, naturale e controllat­issima stilistica­mente nel suo scivolare da un personaggi­o a una vicenda a una famiglia.

La narrazione pare dichiarare fedeltà a «un’altra vecchia teoria del tuo nonno paterno, cioè che nella pittura italiana del Rinascimen­to e, ancor di più, del Cinque-Seicento, dopo la Controrifo­rma, non bisogna guardare il soggetto principale ma gli sfondi». Sfondi tradotti dalle parole in materia prima fatta di odori, colori, immagini, che si espandono in gesti e figure che la bicicletta del pòr

nónn incontra un po’ per tutto il Novecento.

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PAOLO TEOBALDI Arenaria E/O Pagine 160, € 16L’immagine Sari Palosaari (Helsinki, Finlandia, 1975), Split stone with the sound of it splitting (2017, installazi­one)

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