Corriere della Sera - La Lettura
1969-1979 Il filo rosso (sangue) che spaccò l’Italia
Cinquant’anni fa nasceva Potere operaio, quarant’anni fa Prima linea mise a segno alcuni delitti che hanno determinato un punto di svolta del terrorismo. In mezzo c’è il Settantasette, movimento estemporaneo e nebuloso
Itanti fili rossi e neri che si dipanano lungo il decennio 1969-1979 — dunque cinquanta e quarant’anni fa — hanno parecchi nodi. Alcuni dei quali più significativi e importanti: dalla bomba di piazza Fontana alle altre stragi fasciste, dalla nascita delle Brigate rosse al delitto Moro, fino agli omicidi che chiudono quell’arco di tempo: Guido Rossa, Emilio Alessandrini, poliziotti, carabinieri e altre vittime trucidate a Roma, Torino, Milano e altre città. Fatti di sangue, attentati, morti e feriti che mescolarono violenza e politica, scuotendo il Paese come nessun altro in Occidente.
Tuttavia ci furono anche eventi meno traumatici, ma ugualmente rilevanti che hanno segnato una stagione in cui i disordini, il ricorso alle armi, le strategie sovversive e rivoluzionarie furono costantemente all’ordine del giorno. Un «elemento del dibattito», come si diceva allora, non solo teorico, ma destinato a trasformarsi in pratiche concrete e accettate. Da parte di minoranze, certo, che però contavano e condizionavano; frammenti di una realtà diffusa con la quale divenne inevitabile misurarsi, per assecondarla o contrastarla. Soprattutto nei movimenti extraparlamentari, i gruppi dell’estrema sinistra che in quel periodo coinvolsero decine di migliaia di persone: sigle per tutti i gusti, tendenze e sottotendenze; legali, clandestine, a metà tra lecito e illecito.
A voler considerare gli anniversari a cifra tonda, cinquant’anni fa, nel 1969, nasceva Potere operaio; e quarant’anni fa, nel 1979, la banda armata chiamata Prima linea mise a segno alcuni delitti che hanno determinato un punto di svolta nella storia del terrorismo. In mezzo c’è il Settantasette, movimento estemporaneo e nebuloso nel quale si sono disperse le ceneri di Lotta continua, un altro dei gruppi che in quel decennio nacquero e morirono per dare vita a nuove forme di presenza pubblica o nascosta, fatta di assemblee, manifestazioni, volantini, giornali e spari.
Sono tre tappe ripercorse in altrettanti libri pubblicati in serie da DeriveAppro- di, una casa editrice che dell’approfondimento di quei mondi ormai antichi, ma non ancora del tutto esplorati, ha fatto la propria cifra. Quasi un marchio di fabbrica. Fornendo ogni volta letture e interpretazioni originali e interessanti. Tre nodi di uno stesso filo, in questo caso rosso, che attraversa quel tratto ingarbugliato di storia d’Italia.
«Potere operaio era un gruppo fortemente minoritario, il cui ruolo all’interno del movimento e delle lotte non era certamente proporzionato alla forza numerica o d’organizzazione», scrive Marco Scavino nella prefazione al primo volume del suo Potere operaio. La storia. La teoria. Una ricerca fatta proprio per capire le ragioni di una consistenza, all’interno della matassa insurrezionale, che andò ben oltre la quantità dei militanti. Forse anche per la qualità di teorie che affondavano le radici nei dibattiti e nelle esperienze degli anni Sessanta, strettamente legate ai temi della fabbrica e dell’operaismo. Elaborazioni intellettuali che dal ’69 in poi si sono intrecciate con pratiche evocative della guerriglia e dell’uso delle armi, sempre connesse al luogo eletto a simbolo del lavoro sfruttato. Finché qualcuno non decise di passare all’azione. Non a caso Scavino (il quale avverte il lettore di essere stato un giovane militante del gruppo, particolare che «sul piano del giudizio storico costituisce un fattore di condizionamento del quale spero di essere riuscito a tenere adeguatamente conto») ricorda che il primo ferimento di un capo fabbrica in Italia fu consumato a Roma, nel 1973, da Potere operaio. Per mano di un futuro brigatista rosso che poi prese parte al sequestro Moro; e non fu l’unico a transitare, dopo lo scioglimento dell’organizzazione, da Potop alle Br.
Con la famosa «retata» del 7 aprile 1979, la magistratura accusò gran parte del gruppo dirigente di associazione sovversiva e banda armata, ipotizzando una regia comune con le Br successivamente smentita dai fatti e dai processi. E molta dell’esperienza illegale maturata sotto quella sigla si disperse nei mille rivoli che portarono acqua ad Autonomia operaia, responsabile di attentati sanguinosi nel Nordest e non solo.
Pure dentro Lotta continua l’accettazione della violenza come momento di evoluzione delle lotte da un lato, e di «difesa dell’agibilità politica dei cortei e dell’organizzazione» dall’altro, fu un dato difficilmente contestabile; basti pensare ciò che scrisse il giornale a commento dell’omicidio del commissario Calabresi, anche a voler prescindere dalle condanne subite da quattro dirigenti o semplici militanti per quel delitto. Secondo l’analisi di Alberto Pantaloni ne La dissoluzione di Lotta continua e il movimento del ’77, è proprio in quell’anno che il gruppo andò incontro a un lento ma inarrestabile disfacimento, nonostante lo scioglimento sancito con il congresso di Rimini del 1976. E il clima di guerriglia diffusa affermatosi nel 1977 — contrapposta e sovrapposta a quella delle forma- zioni clandestine, contro le quali il quotidiano «Lotta continua» espresse giudizi pesantissimi — accompagnò l’involuzione di quel magma rivoluzionario attraverso alcuni passaggi cruciali. Come il rogo del bar Angelo azzurro a Torino, appiccato in risposta all’omicidio del militante di Lc Walter Rossi ammazzato il giorno prima a Roma dai fascisti, in cui morì il giovane Roberto Crescenzio, studente-lavoratore che nulla aveva a che vedere con la politica e l’estremismo; o l’omicidio commesso dalle Br del vicedirettore de «La Stampa» Carlo Casalegno, padre di Andrea, un compagno di Lc che nei giorni successivi rilasciò una decisiva intervista al quotidiano sulla violenza e il terrorismo.
Quando nel gennaio 1979 un commando di Prima linea uccise a Milano il magistrato Emilio Alessandrini, che aveva indagato su piazza Fontana e le trame nere, ancora «Lotta continua» polemizzò con gli assassini. Che non erano i neofascisti che si potevano immaginare, bensì comunisti rivoluzionari. Molti dei quali provenienti proprio dalle file di Lc, come racconta Andrea Tanturli nel primo volume di Prima Linea. L’altra lotta
armata. Una storia del secondo gruppo più agguerrito e numeroso del terrorismo italiano che nello stesso 1979, dopo Alessandrini, continuò a ferire e uccidere con presunte «operazioni chirurgiche». Sintomi, nella ricostruzione di Tanturli, dello «straniamento conclamato fra lotta armata e società italiana», nonché del «fallimento del progetto originario» di Pl: coniugare le pratiche della guerra clandestina con la «vitalità dei movimenti sociali».
Ne verrà fuori una crisi di entrambi quegli elementi — con i rispettivi portati di morti ammazzati, sofferenze inflitte e sogni infranti — che accompagnerà la fine del decennio. Rimasto avvolto in un groviglio di fili pieni di nodi.
Derive Approdi, una casa editrice che dell’approfondimento di quei mondi ha fatto la propria cifra, pubblica ora tre volumi, che sono tre nodi dello stesso filo che attraversa quel tratto ingarbugliato della storia d’Italia
I disordini, il ricorso alle armi, le strategie sovversive e rivoluzionarie furono costantemente all’ordine del giorno