Corriere della Sera - La Lettura
Omaggio a Malaparte ma senza Malaparte
L’intervista Palazzo Grassi a Venezia dedica un’antologica a Luc Tuymans, «La pelle», che è un tributo del pittore fiammingo allo scrittore italiano. Però... «Non penso che la sua sia grande letteratura. Tuttavia mi sento vicino a lui perché ha raccontato
Dove c’era il grande Demone di Damien Hirst (era il 2017 e quel colosso in resina avrebbe attirato a Venezia più di 360 mila visitatori in otto mesi per poi trovare casa al Palms Casino Resort di Las Vegas) oggi c’è un enorme mosaico realizzato nel 1986, a seguito di una visita al campo di lavoro (non «un campo di sterminio», precisa l’artista) di Schwarzheide, in Germania, un mosaico tutto giocato sui toni del verde, dell’azzurro, del bianco-giallastro, un modo per parlare «della morte e della sua spettacolarizzazione».
Palazzo Grassi torna, con la mostra che apre al pubblico oggi (domenica 24 marzo) e che sarà visitabile fino al 6 gennaio, a proporre un viaggio artistico assai fuori degli schemi: come era successo con Damien Hirst e prima di lui con Martial Raysse (2015) o con Rudolf Stingel (2013). Mettendo stavolta al centro un personaggio intrigante e difficile da incasellare: Luc Tuymans, pittore fiammingo (è nato a Mortsel, Belgio, nel 1958), autore tra l’altro della più grande natura morta della storia (tre metri e mezzo per cinque), ma anche curatore di chiara fama (ha firmato la mostra Sanguine alla Fondazione Prada di Milano). «Un artista dell’inadeguatezza», ama definirsi, raccontato stavolta «solo da pittore», attraverso un’ottantina di dipinti scelti da Tuymans insieme alla curatrice Caroline Bourgeois.
Come simbolo di questa sua ricerca Tuymans (che fisicamente può ricordare un Rem Koolhaas più in carne) ha voluto uno scrittore italiano controverso come Curzio Malaparte (1898-1957), a cui la mostra è idealmente dedicata, a cominciare dal titolo, La pelle, citazione di uno dei romanzi più noti di Malaparte, pubblicato nel 1949. Anche se poi, a «la Lettura», Luc Tuymans tiene subito a precisare, forse per spiazzare una volta ancora, com’e sua abitudine: «Non si tratta di un tributo a Malaparte e al suo romanzo. All’inizio ho usato il titolo solo perché si trattava di una parola italiana. Oltretutto,
La pelle non mi è piaciuto». Malaparte, però, lo conosceva?
«Avevo letto tutti i suoi libri. Tranne La
pelle, appunto, che ho iniziato a leggere dopo aver rivisto Le Mépris, il film di Jean-Luc Godard ( Il disprezzo, del 1963, con Brigitte Bardot, Michel Piccoli, Jack Palance, ndr) che era tratto da un romanzo di Moravia, ma che in buona parte era stato girato proprio a Villa Malaparte, a Capri. Di fatto a Palazzo Grassi c’è solo un vero rimando diretto a Malaparte: Le Mé
pris, un olio su tela del 2015, esposto al secondo piano, che rappresenta un caminetto di Villa Malaparte, uno degli esempi più celebri dell’architettura modernista italiana, un camino che è anche una finestra affacciata sul mare, un simbolo di come si possa essere “fuori” dal tempo e “al centro” di quello stesso tempo». Tutto qui?
«Penso che Malaparte sia un autore davvero megalomane, non penso che la sua sia una grande letteratura, ma sicuramente è un personaggio di culto, simbolo di un periodo storico molto difficile. Mi ricordo, ad esempio, una pagina di
Kaputt in cui scrive che se i tedeschi non avessero avuto le uniformi, sarebbero caduti in pezzi. La pelle, ed è questo che mi ha fatto sentire vicino a Malaparte, racconta lo scardinamento dell’ordine mondiale, agli esordi del superpotere americano, all’inizio della caduta dell’Europa. Anch’io ho deciso, ormai più di quarant’anni fa, di scardinare l’ordine, di non creare l’arte “per l’arte”, ma di farla derivare da una determinata realtà e da un periodo storico, magari a noi ancora molto vicino, anche nelle conseguenze, come la Seconda guerra mondiale. Ma ci sono anche altre cose di Malaparte che mi intrigano». Quali?
«Il fatto che non sia completamente italiano, che sia stato un sostenitore di Mussolini, che poi sia fuggito, che abbia lavorato per i tedeschi sul fronte orientale, che sia diventato un ufficiale per le forze occupanti americane. Alla fine sono convinto di aver fatto bene a scegliere come titolo proprio La pelle: rende bene la mia idea di mettere in scena quello che c’è dietro le cose».
Nelle sue opere e nei suoi progetti da curatore si ritrova spesso la letteratura come ispirazione. Perché?
«Quando ho iniziato a lavorare come artista, sono stato cacciato da tutte le accademie d’arte e ho dovuto studiare arte da studente lavoratore, avendo molti più contatti con scrittori e poeti. Penso che per ogni artista sia fondamentale leggere per sviluppare l’immaginazione. Ma se mi chiedete se oggi ci sia un legame tra
letteratura e arte contemporanea, rispondo che no, non c’è. Tutta colpa dei social media, di internet, di Netflix e di quelle tecnologie iperspecializzate che di fatto impediscono ogni connessione». Una mutazione che però non riguarda solo l’arte contemporanea...
«Viviamo in un mondo in cui le persone diventano sempre più stupide e questo è dato proprio dal fatto che le persone non leggono e, quando lo fanno, leggono solo sinossi. Così si finisce per ridurre l’orizzonte della cultura. Per questo ci sono scrittori destinati a essere dimenticati, magari perché scrivono nella mia lingua, come Jan Jakob Slauerhoff, poeta e autore di un libro per me fondamentale come Het leven op aarde del 1934. Ma a rischio ci sono anche l’Etica di Spinoza e
Ästhetik des Vorscheins di Ernst Bloch, libri che ho letto quando avevo sedici-diciassette anni e che ormai sono parte del mio cervello». Come si costruisce il successo di una mostra come «Sanguine»?
«Con la miscela tra vecchi maestri e arte contemporanea, una miscela capace di stabilire un contatto con un pubblico più ampio, meno elitario e più interessante. Tutti conoscono Caravaggio, ma non tutti conoscono Michael Borremans, Pavel Büchler o Pierre Huyghe. Per Sanguine ho scelto opere che potevano comunicare anche senza parole. La cosa più importante, quando si mette in piedi una mostra, è non chiedere troppo al pubblico, ma neppure sottovalutarlo. Dargli, prima di tutto, la libertà di guardare».
La mostra di Palazzo Grassi si svolgerà in contemporanea con la Biennale: come giudica la Biennale?
«Conosco Ralph Rugoff molto bene perché ha scritto per me quando ho fatto un tour negli Stati Uniti, ha scritto uno dei testi. Conosco la sua sensibilità e sono sicurissimo che sarà una Biennale molto interessante perché in lui c’è una grande passione per l’arte. Più in generale penso che un evento come la Biennale possa essere un palcoscenico perfetto quando, ad esempio, l’arte diventa politica. Quando, alla Biennale del 2001, ho curato il Padiglione del Belgio ho voluto fare qualcosa di fortemente politico: una critica al colonialismo belga, all’interno in un edificio, come il Padiglione belga, costruito al tempo del colonialismo». Come vede il mestiere dell’artista?
«Se fossi un giovane artista, oggi sarei piuttosto spaventato, perché tutto è molto complicato. Quando ho iniziato io, la situazione era più semplice, c’era meno informazione, c’erano meno riviste d’arte, ma non c’era nemmeno il mercato dell’arte come lo conosciamo noi oggi, un mercato che negli anni Ottanta-Novanta ha travolto tutto e che ha contribuito all’attuale isolamento dell’artista. In questo senso ogni giovane artista, uomo o donna, oggi è in difficoltà perché deve fare ancora di più, dovendo tener conto, ad esempio, dei social media e di come potranno influire sul suo lavoro». Il suo legame con l’Italia?
«Avevo diciotto anni quando sono venuto in Italia per la prima volta. Ero un giovane studente e sono andato a vedere Giotto, ma ho visto solo quello di Assisi e non quello di Padova, magari lo farò grazie a questa mostra. Giotto per me è stato davvero fondamentale, più del Michelangelo della Pietà e delle Cappelle Medicee. Ma resto convinto che il mio compatriota Jan van Eyck sia il miglior pittore nell’atmosfera, non Leonardo da Vinci».