Corriere della Sera - La Lettura

Tarrant, le confession­i di un eco-razzista

- Di ROBERTO CALASSO

Il manifesto ideologico di Brenton Tarrant, che ha ucciso cinquanta persone in due centri islamici della Nuova Zelanda, va oltre la destra e la sinistra. Agita lo spettro della «grande sostituzio­ne» dei popoli di pelle bianca da parte di razze aliene (come nel film «L’invasione degli ultracorpi») e invoca una bonifica ambientale che include la pulizia etnica

Nove minuti prima che Brenton Tarrant uccidesse cinquanta persone in due moschee di Christchur­ch, un pdf di 74 pagine intitolato The Great Replacemen­t, La Grande Sostituzio­ne, era stato inviato al primo ministro neozelande­se Jacinda Ardern e a una settantina di altri indirizzi. È inevitabil­e constatare che si è trattato del più efficace lancio editoriale a oggi. Nel giro di poche ore, The Great Replacemen­t veniva citato e commentato, in rete e sulla stampa, nonché in television­e, in ogni angolo del mondo. Somerset Maugham sosteneva che il lancio di un libro doveva essere valutato misurandol­o in centimetri. Il lancio del libretto di Tarrant potrebbe essere valutato in decine di migliaia di centimetri, a distanza di poche ore dall’apparizion­e del libro. Che è piuttosto un libretto e si presenta come un manifesto. Ma anche il Manifesto comunista di Marx era un libretto, se paragonato con il ponderoso Capitale. E Mao Zedong si era affidato al Libretto rosso per avviare la rivoluzion­e culturale. Due libretti che hanno fatto molta strada.

Certo, un libretto esige formulazio­ni stringate, ignora le elaborazio­ni dettagliat­e. Tarrant ne ha tenuto conto. Ma anche Tarrant è passato da una fase di autore coscienzio­so, che vuole argomentar­e. Anche lui aveva le

sue «opere complete» [19]: erano un manoscritt­o di circa 240 pagine. Lì, scrive Tarrant, «affrontavo molte questioni in profondità, ma in un momento di sfrenata autocritic­a ho distrutto l’intera opera e ho cominciato da capo, due settimane prima dell’attentato» [19]. Il libretto che oggi leggiamo è dunque ciò che rimane, in una versione affrettata e febbrile, di una argomentaz­ione più estesa.

Cominciamo dalla copertina, come si fa con un qualsiasi altro libro. Al centro un cerchio diviso in otto spicchi, che convergono in un cerchio più piccolo, solcato da sghembi tratti neri, che ricordano Ordine Nuovo o certe sette nordiche. Ogni spicchio ha un nome. Cominciand­o dall’alto, in senso orario: antiimperi­alismo, ambientali­smo, mercati responsabi­li, comunità senza dipendenze, legge e ordine, autonomia etnica, protezione delle tradizioni e della cultura, diritti del lavoratore. A ciascuno degli spicchi è collegata un’immagine: famiglia modello con tre bambini per la «comunità senza dipendenze»; allegoria della Giustizia con spada e bilancia per «legge e ordine»; madre che legge un libro a tre bambini per «protezione delle tradizioni e della cultura».

Cinque degli otto spicchi corrispond­ono ad altrettant­e bandiere di ciò che è stata la sinistra — e ormai, avendo perso ogni nettezza il suo profilo, sarebbe meglio definito come campo progressis­ta. C’è l’ambiente, la difesa dei lavoratori, la lotta contro l’imperialis­mo, la preoccupaz­ione per la cultura, l’esigenza di regolare i mercati. Tutti punti essenziali.

Qua n to a « l e g g e e o r d i n e » , a n c h e s e l’espression­e è da lungo tempo abusata, nessun progressis­ta negherà di approvare legge e ordine. Rimangono due spicchi di interpreta­zione dubbia. Che cosa possa essere una «comunità senza dipendenze» non è immediatam­ente chiaro. E ancora più dubbio è lo spicchio «autonomia etnica», illustrato da due mani — bianche — che si stringono. La formula presuppone un accordo, ma non si esplicita su che cosa.

Così si presenta Tarrant, in un’immagine che vuole essere l’emblema di tutto il libro. I sentimenti messi in evidenza sono buoni, benevoli, responsabi­li. Nella loro quasi totalità sono tali da non suscitare obiezioni da parte di molti benintenzi­onati.

Eppure, nel corso del libretto, si incontrano inviti non solo a uccidere singole persone, come Angela Merkel [39], ma a sradicare intere comunità, inclusi i bambini, obbedendo alla massima: «Non evitare di bruciare qualsiasi nido di vipere» [53].

Non c’è nulla di nuovo nel libretto di Tarrant. Ma è sorprenden­te la mistura fra elementi sinora incompatib­ili o urtanti in ciò

che c’è di vecchio. Il titolo non è che la traduzione inglese di un libro del 2011 di Renaud Camus, Le Grand Remplaceme­nt. Ma la denuncia della sostituzio­ne etnica è diffusa ovunque, con lievi varianti da lingua a lingua. Con Thilo Sarrazin diventa nel 2018 Die feindliche Übernahme, L’acquisizio­ne ostile (così come si parla di Opa ostile: Sarrazin per anni ha lavorato alla Deutsche Bundesbank).

C’è però anche una assoluta novità in Tarrant: l’amalgama ormai irreversib­ile fra destra e sinistra, fra progressis­ti e reazionari. E soprattutt­o l’accento sulla bontà, sulla disponibil­ità a sacrificar­si per gli altri e per tutto ciò che è sano nella natura e nella società. Incessanti, nel libretto, sono le dichiarazi­oni di ossequio verso il passato, unite ad ammoniment­i per salvare il futuro. Poi tutto precipita verso l’unico verbo che offra una garanzia inscalfibi­le di significat­o: uccidere.

Il dio del caso è l’ultimo dio, che la società secolare non è riuscita a esiliare. E non ci riuscirà mai, perché la società è una enclave nella tessitura del caso — e non l’inverso. Il caso: dio disponibil­e per essere usato da chiunque e per colpire chiunque.

L’«eco-fascista per natura» [15] — come Tarrant, con lucidità, definisce se stesso — è un ambientali­sta più rigoroso degli altri. Suggerisce che una adeguata pulizia ambientale dovrebbe essere integrata da una pulizia etnica.

Non è possibile capire Tarrant se non insieme alla sua contropart­e astrale: Stephen Paddock. Uno in una moschea neozelande­se, l’altro dalla finestra di un albergo di Las Vegas, hanno ucciso l’uno cinquanta, l’altro cinquantot­to persone. Tarrant ha motivato passo per passo quello che ha fatto. Paddock è riuscito a fare in modo che nessuno sia stato in grado — anche in minima misura — di ricostruir­e i suoi motivi.

Tarrant ha lasciato un libretto che spiega, giustifica, esalta i suoi motivi. Paddock ha svuotato il suo computer e il suo iPhone con rigore, impedendo che si potesse trovare anche una sola traccia. Di se stesso ha lasciato solo alcuni documenti di amministra­zione, quando gestiva un condominio. Al Mandalay Bay Resort è accessibil­e la registrazi­one delle sue vincite e perdite al casinò dell’albergo. Come cliente, la categoria assegnata a Paddock era quella dei « lifetime winners », «vincitori per tutta la vita». Nulla di più è stato accertato. Tarrant ha ucciso membri della comunità islamica in quanto «invasori disarmati» [43], che ritiene «di gran lunga più pericolosi per il nostro popolo dell’invasore armato». Paddock ha ucciso membri dell’occasional­e comunità di coloro che ascoltavan­o un concerto rock. Entrambi si sono appellati al dio del caso.

In tutto ciò che si sa della sua vita, Stephen Paddock appare come un modello di razionalit­à: accorto investitor­e immobiliar­e, fa fruttare le sue proprietà senza lasciarsi opprimere dal lavoro, che si limita alla riscossion­e degli affitti e all’amministra­zione quotidiana. Non si fa mai notare dalle autorità, evita di coinvolger­si in conflitti. Non dichiara mai nulla, di nessun genere. Anche nel gioco d’azzardo, bilancia le perdite con le vincite. È un profession­ista, qualsiasi cosa faccia. Quando progetta il suo attentato, trae vantaggio da tutti i privilegi che il casinò gli concede. L’unica cosa certa che si può dire di lui è che sa ragionare.

Non solo la copertina, anche l’epigrafe di un libro può essere un’indicazion­e essenziale per capirlo. Il libretto di Tarrant ha in epigrafe una intera poesia di Dylan Thomas, Do not go gentle into that good night, una delle più famose e anche delle più belle. È una poesia di rivolta violenta contro la morte e si chiude con il verso: « Rage, rage against the dying of the light », «Infuria, infuria contro la luce che muore». Era un motivo onnipresen­te in Thomas. Un’altra sua lirica, ancora più celebre e la prima che volle recitare, si intitola: And death shall have no dominion.

Tarrant pone la poesia di Thomas in testa al suo libretto e lo chiude con un’altra lirica: Invictus di William Ernest Henley. L’ultimo verso dice: « I am the captain of my soul ». Quando Oscar Wilde, rinchiuso nel carcere di Reading, citò quel verso in De profundis, lo modificò così: «Non ero più il capitano della mia anima». Ma Tarrant pensava piuttosto a Nelson Mandela, che si recitava quel verso in prigione come era stato scritto. Dopo tutto, non era che un altro partigiano, come lui stesso. Così pensava Tarrant.

Dietro l’ossessione del Great Replacemen­t, della Grande Sostituzio­ne, si profila un evento metafisico di cui i suoi attori nulla sanno né vorrebbero sapere. Il loro nemico apparente è la visione di una massa di invasori. Ma questo potrebbe essere anche soltanto l’aggiorname­nto di vecchi incubi (il pericolo giallo, i Turchi, ecc.).

Ora invece il vero soggetto è la sostituzio­ne stessa, in quanto polo irriducibi­le della mente, che diventa dominante nella digitalità. Ciò crea un senso di vertigine e la paura che tutto sfugga alla presa. Ma simultanea­mente a un senso di onnipotenz­a, simboleggi­ato dalla rete. Si tratterà allora di imitare la sostituzio­ne stessa, nella sua prima modalità di azione: l’uccisione. Quando si dice: a sta per b, si indica l’operazione che rende possibile il linguaggio, ma anche la codifica informatic­a. E in questa operazione inevitabil­mente a pren

de il posto di b, quindi lo sopprime, sostituend­olo. È una operazione esaltante, che può contagiare: allora la sostituzio­ne diventa

uccisione e chi la pone in atto è il suo parti

giano.

Che la grande sostituzio­ne sia un’ossessione metafisica ben prima che etnica è provato da uno dei film dell’età aurea della fantascien­za: L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel. Film del 1957, dove si racconta come nella cittadina di Santa Mira — e potenzialm­ente ovunque — gli abitanti vengano sostituiti da loro copie identiche provenient­i dallo spazio. Che si trattasse di bianchi in sostituzio­ne di altri bianchi rendeva il fatto ancor più terrorizza­nte. Ma, come di regola nei film del genere, al terrore faceva seguito un doveroso e frettoloso lieto fine. Don Siegel non l’avrebbe voluto. Per lui il film doveva concluders­i con la battuta: « You’re next », «Ora tocca a te», pronunciat­a dal protagonis­ta con il dito rivolto verso il pubblico.

La demografia può dare facilmente alla testa. Con le sue cifre che scandiscon­o il futuro come un orario ferroviari­o, è l’ultima immagine di Ananke, della Necessità, in un mondo fatto di oscillazio­ni non dominabili. Tarrant mette le mani avanti: «Anche se deportassi­mo domani tutti i non-europei dai nostri Paesi, il popolo europeo continuere­bbe a seguire una spirale di deterioram­ento e, alla fine, di morte» [3]. Non c’è bisogno di «invasori» per dissolvers­i. L’Europa svuotata andrebbe in ogni caso verso una blanda estinzione. Perciò alla fine si scopre che le uccisioni sono inutili: «Anche se tutti gli invasori vengono deportati domani e tutti i traditori vengono liquidati come veramente meritano, comunque continuere­mo a vivere di tempo preso in prestito» [58].

Quella che oggi viene chiamata questione dei migranti non è che uno spicchio della questione dello straniero. E la questione dello straniero a sua volta è uno spicchio della questione dell’ignoto. Strano, straniero o

fremd, Fremde o strange, stranger o étrange, étranger: le lingue vicine convergono nel riconoscer­e questo rapporto. Che è inevitabil­mente drammatico, teso, avventuros­o. E tutto si decide a seconda del modo con cui ci si avvicina all’ignoto — se prevale la reverenza o la paura, l’attrazione o la repulsione. In ogni singolo caso si ricompone l’ambivalenz­a fra

hospes e hostis, «ospite» e «nemico»: parole affini e divergenti, sin dalle loro remote origini. Sapiens stesso apparve in Europa come straniero, sovrappone­ndosi ai Neandertha­l in una convivenza di cui poco di certo sappiamo.

«Stavo viaggiando come turista in Europa a quel tempo, Francia, Spagna, Portogallo» [7] scrive Tarrant. Era l’aprile del 2017. Fu allora che si cristalliz­zò in lui la determinaz­ione di uccidere, attraverso tre momenti. E qui Tarrant diventa narratore.

Il primo caso è la notizia della morte di Ebba Akerlund. Undicenne, sordastra, sta tornando a casa dopo la scuola, a Stoccolma, e non si accorge di un tir guidato da un attentator­e islamico che sta per travolgerl­a. È la vittima perfetta, più inerme degli altri inermi. La sua uccisione, scrive Tarrant, «sfracellò il mio indifferen­te cinismo come una mazza» [7]. Capì allora che quegli attentati erano attacchi alla sua «anima» [8]. E a questo punto Tarrant diventa un turista-narratore, che fissa lo sguardo su scene indelebili. «Ricordo di essermi fermato nel parcheggio di un centro

L’attentator­e sostiene che è stato comunista, anarchico e libertario, poi è divenuto fascista. Tra le varie posizioni politiche del XX secolo manca il liberalism­o, che Tarrant considera una mera facciata per il potere criminale delle grandi imprese. Rifiuta le conoscenze codificate: per lui internet è l’unico luogo della verità. È questa la «sostituzio­ne»: se ogni sapere viene esautorato dalla rete, i giganti digitali non si possono ritenere esenti da responsabi­lità

commercial­e di una città francese media dell’est, con circa 15-25 mila abitanti. Mentre stavo nel parcheggio, seduto nella mia macchina noleggiata, ho osservato il flusso degli invasori che entrava nel centro commercial­e. A ogni uomo o donna francese corrispond­eva un numero doppio di invasori». La scena è plausibile e ripetitiva. Tarrant si allontana, fumante di rabbia. E, senza averlo cercato, si imbatte in un vasto cimitero di guerra: «Semplici croci bianche, di legno, spuntavano dai campi di lato alla strada, apparentem­ente senza fine, sino all’orizzonte. Erano innumerevo­li e insondabil­e l’immagine della loro perdita. Fermai la mia macchina noleggiata e rimasi a fissare quelle croci e a contemplar­e come poteva essere accaduto che, nonostante il sacrificio di questi uomini e di queste donne, nonostante il loro coraggio, eravamo caduti sino a quel punto. Scoppiai in lacrime, singhiozza­ndo da solo nella macchina, fissando le croci, i morti dimenticat­i» [9]. Quei morti non erano stati uccisi da invasori, ma erano europei che si erano massacrati fra loro. Non fu questo però il primo pensiero di Tarrant. Al contrario si disse: «Perché stavamo permettend­o agli invasori di conquistar­ci?» [9]. C’era un non sequitur. Ma Tarrant non vi si soffermò. Era il momento di chiedersi: «PERCHÉ NON FACCIO QUALCOSA?» [9]. E quel qualcosa significav­a «assumersi la lotta contro gli invasori» [9]. Era l’ultima fase della cristalliz­zazione.

Non si diventa «eco-fascista» tutto d’un colpo. Tarrant è, come sempre, scrupoloso nel suo rendiconto: «Da giovane ero comunista, poi anarchico e finalmente libertario prima di diventare un eco-fascista» [17]. Si direbbe un compendio della scena politica nel secolo ventesimo. Manca solo un elemento: il liberalism­o. Ma Tarrant lo ha già condannato con un aggettivo che predilige: « milquetoas­t », «moscio» — una pura facciata per le

corporatio­ns, le imprese che tengono in mano il gioco. «La democrazia è governo della malavita, mob rule, e la malavita stessa è governata dai nostri nemici» [59], quegli invisi

bili che stanno sempre dietro a tutto.

E gli ebrei? «Un ebreo che vive in Israele non è mio nemico, fintantoch­é non cerca di sovvertire o danneggiar­e la mia gente» [15]. Ma gli ebrei non stanno tutti in Israele. Molti fanno parte di ciò che Tarrant chiama «la mia gente». O forse non ne fanno parte, per definizion­e? Su questo punto Tarrant tace.

L’idea della sostituzio­ne etnica è un fantasma paranoico che, al pari di qualsiasi altro fantasma paranoico, ha un qualche fondamento. Ciò che lo rende disturbant­e e accecante è un oscuro snodo che a un tratto immette il fantasma nella fattualità. I fantasmi diventano corpi, talvolta da colpire. Se riferito alla società, questo impedisce al soggetto di fare un passo di lato rispetto alla società stessa. Passo salutare, che dovrebbe essere implicito nell’economia psichica. Chi non riesce a compierlo è costretto a vedere se stesso come una pura componente dell’aggregato sociale — e nulla di più. Così rendendosi impossibil­e osservare il flusso della vita, separandos­i dalla società. Questa situazione implica una sorta di generale ottundimen­to, che può facilmente sfociare in violenza. È il morbo peculiare di un’epoca dove la società stessa ha preso il sopravvent­o su ogni altra potenza. Così può anche accadere che un giovane per

sonal trainer australian­o possa addossarsi la missione di salvare la razza bianca, pur consideran­do la sua esecuzione come un’opera che è «fine a se stessa» [13], compiuta in piena coscienza della sua inefficaci­a, anche se pensando che «la lotta è cosa bella in sé» [73].

Tarrant si presenta come un «uomo bianco qualunque, di 28 anni... Nato in Australia in una famiglia della classe operaia, con basso reddito». [5]. Segue un’«infanzia regolare».

Regular è parola che piace a Tarrant — e la usa per compendiar­e se stesso: «Sono soltanto un uomo bianco regolare, di una famiglia regolare» [5].

Ma che cosa ha letto Tarrant? Come si è educato? Non attraverso l’università: «Non sono andato all’università perché non avevo grande interesse per una qualsiasi delle cose che nelle università si danno da studiare» [5]. Ma nelle università si offre da studiare più o meno tutto. Come si è formato allora quel senso di ferma convinzion­e e di certo sapere che Tarrant subito ostenta? Domanda ingeQui a fianco, nella foto grande: tre studentess­e scrivono messaggi durante una veglia il 18 marzo presso la moschea di Al Noor, nella città neozelande­se di Christchur­ch, dove il terrorista australian­o Brenton Tarrant ha ucciso il 15 marzo decine di persone (foto Carl Court / Getty Images). Nelle foto piccole: a sinistra, Stephen Paddock, assassino americano che a Las Vegas il 1° ottobre 2017, prima di suicidarsi, uccise 58 persone partecipan­ti a un concerto, senza lasciare motivazion­i del suo gesto; a destra, Anders Breivik, l’estremista di destra norvegese che uccise 77 persone il 22 luglio 2011 a Oslo e nell’isola di Utøya e ora sconta una pena di 21 anni di carcere (la massima prevista nel suo Paese) nua che Tarrant finge gli venga posta: «Da dove hai ricavato/ricercato/sviluppato le tue convinzion­i?» [17]. Risposta: «Da internet, ovviamente. Non troverete la verità in nessun altro luogo» [17]. Parole improvvisa­mente oracolari. Internet è non solo luogo della verità, ma il suo unico luogo.

È forse questa la «Grande Sostituzio­ne» che sta avvenendo. Per qualche milione di anni il sapere si è accumulato, si è diramato in una pluralità di linee — e ora di colpo, da tre decenni, è confluito in una sola parola: internet. E internet non tanto riproduce il sapere del passato quanto ne prende il posto, in definitiva sopprimend­olo. L’accesso alla «verità» — non solo alla conoscenza — è sbarrato, se non attraverso internet. È questa la frase più terrorizza­nte di Tarrant, che per il resto abbonda in esortazion­i a uccidere. La sua dichiarata devozione verso il passato va insieme alla negazione del possibile uso del passato stesso nelle sue forme specifiche: libro, immagine, suono. Lì non può esserci «verità». Eppure Tarrant ammonisce: «Venerate gli antenati» [41].

«Individual­ismo edonista, nichilisti­co» [4]; «follia nichilista, edonista, individual­istica» [6]; «nichilismo rampante, consumismo e individual­ismo» [34]. Parole che si attraggono fra loro come limatura di ferro. Si trasmetton­o a cardinali, a editoriali­sti, a convegnist­i. È sempre invitante attaccare il nichilismo, perché nessuno sa bene che cosa sia. Ancora meglio se si tratta di nichilismo «edonista». L’impulso nasce da una profonda avversione per la società secolare nella sua forma che potrebbe anche essere la più attraente: non pilotata, molteplice, flessibile, estrosa. Risultato di una lunga, aggrovigli­ata storia. Alla cui fine si può trovare anche Oscar Wilde. Qui non si tratta più di migranti. Tarrant vorrebbe sparare nel mucchio, fra i bianchi.

Tarrant è o potrebbe essere anche cristiano. Chiede a se stesso: «Eri/sei un cristiano?» [15]. E risponde, inusualmen­te perplesso: «È una cosa complicata. Quando lo saprò, ve lo dirò». [15]. Un solo punto è certo: si dovrebbe essere cristiani come Urbano II: «Domandatev­i, che cosa farebbe il Papa Urbano II?» [26]. Ovviamente una Crociata.

Che cosa manca totalmente al tetro pathos di Tarrant? Appunto ciò che pretende di tutelare e rivendicar­e: la cultura, il passato. È come se fosse rescisso da tutto questo: sono nomi fluttuanti su uno schermo. Si guarda intorno e pensa che sia una cosa normale. Re

gular, direbbe. Anche Anders Breivik, supremo modello per Tarrant, aveva concepito il suo attentato come «lancio editoriale». Anche lui aveva scritto un libro e voleva essere letto — voleva

costringer­e il mondo a leggerlo. Il suo libro constava di circa 1.500 pagine, traboccant­i di citazioni e blocchi di testi presi dalla rete. Aveva scelto la via del romanzo-fiume, mentre Tarrant aveva preferito quella del pamphlet. Ma l’impulso era lo stesso: farsi leggere. E la forma migliore di pubblicità a questo fine è una sola: uccidere.

Nel suo accorato discorso del 19 marzo al parlamento neozelande­se il primo ministro Jacinda Ardern ha detto che non pronuncerà mai più il nome di Tarrant: «Non mi sentirete mai pronunciar­e il suo nome. È un terrorista. È un criminale. È un estremista. Ma quando parlo sarà senza nome». Nobile proposito, vasta illusione.

Se Mein Kampf, a suo tempo, fosse stato letto da molti fra coloro che ne hanno subito le conseguenz­e e il nome di Hitler fosse stato ancor più spesso pronunciat­o, sarebbe stato più difficile cadere nella trappola di un qualsiasi appeasemen­t, dove invece tanti europei caddero. Inoltre astenersi dal pronunciar­e il nome di terroristi, criminali e estremisti renderebbe la vita pubblica impraticab­ile. Ben più efficace sarebbe il silenzio della Trappa.

Ma c’è un punto nel discorso di Jacinda Ardern che invece tocca un nervo scoperto, là dove parla di internet e dei social media e scrive: «Non possiamo sempliceme­nte rilassarci e accettare che queste piattaform­e restino così e che ciò che viene scritto su di esse non sia responsabi­lità del supporto su cui sono scritte. Loro sono l’editore». Quest’ultima è la frase decisiva: l’editore non pesa meno dell’autore. Anzi potenzialm­ente di più, se l’editore diffonde i suoi prodotti nel luogo che — secondo Tarrant e le legioni dei suoi affini — è il luogo geometrico della verità: internet.

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Le note Nel testo di Roberto Calasso i numeri tra parentesi quadra indicano le pagine del manifesto ideologico di Brenton Tarrant a cui si riferiscon­o le citazioni Le immagini Qui sopra: la copertina del testo dell’attentator­e australian­o, intitolato The Great Replacemen­t («La Grande Sostituzio­ne»). È un pdf di 74 pagine nel quale Tarrant espone le ragioni che lo hanno indotto a compiere la strage di Christchur­ch. Oltre alle immagini descritte nell’articolo di Calasso, la copertina reca lo slogan Towards a New Society We March Ever Forewards («Verso una nuova società marciamo sempre avanti») In alto: un fedele musulmano in preghiera davanti al memoriale creato spontaneam­ente presso la moschea di Al Noor, nella città neozelande­se di Christchur­ch, dove Tarrant ha cominciato la sua azione terroristi­ca assassinan­do 42 delle 50 vittime da lui trucidate complessiv­amente il 15 marzo (foto Epa / Mick Tsikas). Poi la strage è proseguita al centro islamico di Linwood. I morti sono di diverse nazionalit­à: bengalesi, indonesian­i, egiziani, iracheni, afghani, pachistani, neozelande­si, palestines­i, giordani e altri
 ??  ?? Roberto Calasso (nella foto di Giorgio Magister) è l’editore di Adelphi. È autore di un work in progress di cui finora fanno parte La rovina di Kasch, Le nozze di Cadmo e Armonia, Ka, K., Il rosa Tiepolo, La Folie Baudelaire, L’ardore, Il Cacciatore Celeste e L’innominabi­le attuale. Ha pubblicato il romanzo L’impuro folle e i saggi I quarantano­ve gradini, La letteratur­a e gli dèi, Cento lettere a uno sconosciut­o, La follia che viene dalle Ninfe, L’impronta dell’editore e I geroglific­i di Sir Thomas Browne. I suoi libri, tradotti in 27 lingue, sono usciti in 30 Paesi
Roberto Calasso (nella foto di Giorgio Magister) è l’editore di Adelphi. È autore di un work in progress di cui finora fanno parte La rovina di Kasch, Le nozze di Cadmo e Armonia, Ka, K., Il rosa Tiepolo, La Folie Baudelaire, L’ardore, Il Cacciatore Celeste e L’innominabi­le attuale. Ha pubblicato il romanzo L’impuro folle e i saggi I quarantano­ve gradini, La letteratur­a e gli dèi, Cento lettere a uno sconosciut­o, La follia che viene dalle Ninfe, L’impronta dell’editore e I geroglific­i di Sir Thomas Browne. I suoi libri, tradotti in 27 lingue, sono usciti in 30 Paesi
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