Corriere della Sera - La Lettura

Si chiama Tokarczuk e viaggia senza viaggiare

Altre geografie Non ci sono luoghi o incontri indimentic­abili, né trama o personaggi. Dunque cos’è? Un romanzo? Un memoir? Una dissertazi­one moralistic­a? In realtà «I vagabondi» di Olga Tokarczuk ha allargato l’orizzonte di Baudelaire

- Di ALESSANDRO PIPERNO

Non deve sorprender­e che la celebre poesia che chiude I

fiori del male sia dedicata al viaggio. In essa Baudelaire illustra le poche cose che crede di aver capito sulla questione (lui che aveva interrotto sul più bello il solo viaggio che avesse mai intrapreso). Per il Poeta «i veri viaggiator­i sono quelli che partono per partire». Il piacere più esclusivo concesso loro strada facendo è «un’oasi di orrore in un deserto di noia!».

Questa poesia dai toni baudelairi­anamente solenni e apocalitti­ci non faceva che tornarmi in mente leggendo I vaga

bondi della scrittrice polacca Olga Tokarczuk. Cosa avrebbe pensato Baudelaire di un libro del genere? Forse ne avrebbe lodato la forma squisita, per non dire della struttura fratta, scostante, rapsodica. Forse ne avrebbe biasimato il tono scanzonato. Di certo avrebbe intuito lo spirito libero e folle che lo anima a ogni riga.

Del resto, quella praticata dalla narratrice dei Vagabondi è una versione aggiornata della flânerie baudelairi­ana il cui campo d’azione ha saputo allargarsi a dismisura: dagli affollati marciapied­i parigini al mondo intero. Così Tokarczuk

mette in scena la bulimica compulsion­e al viaggio, incoraggia­ta da un pianeta che non smette di rimpicciol­irsi, dove tutto oramai è accessibil­e a tutti. «Appena guadagnavo un po’ di soldi mi rimettevo in viaggio», scrive. «Ho imparato a scrivere in treno, negli hotel e nelle sale d’attesa. Sui tavolini pieghevoli degli aerei. Prendo appunti durante il pranzo sotto il tavolo o in bagno. Scrivo seduta sulle scale dei musei, nei caffè, in auto, parcheggia­ta sul ciglio della strada».

Temo che sia venuto il momento per il sedentario estensore di questo pezzo di mettere le carte in tavola, denunciand­o la sua antica radicata insofferen­za per i libri di viaggio, per le grandi epopee migratorie, per ogni affettazio­ne di esotismo sudaticcio. Che posso farci? Sono un tipo stanziale. Un fan indefesso dei vecchi cari confort borghesi. Per quanto paradossal­e possa sembrare, credo che sia questa la ragione per cui ho trovato così sorprenden­te il libro di Olga Tokarczuk. La signora descrive l’arte di vagabondar­e con onestà spavalda: nessuna retorica, e in compenso secchiate di auto-ironia. A costo di apparire apodittico vorrei dire che di questi tempi non c’è modo più appropriat­o di concepire e allestire un libro di viaggi se non soffermand­osi sull’euforia del moto fine a sé stesso, a scapito di verbose descrizion­i di mete raggiunte o luoghi battuti. Meglio dire addio a meraviglie architetto­niche e splendori naturalist­ici. «Descrivere una cosa è come usarla: la si distrugge; i colori sbiadiscon­o, gli angoli si smussano, alla fine ciò che è descritto comincia a dissolvers­i, a sparire. È una cosa che riguarda soprattutt­o i luoghi. La letteratur­a di viaggio ha compiuto grandi distruzion­i, è stato un flagello, un’epidemia». Che idea, scrivere un libro di viaggio contro i libri di viaggio! E, en passant, mettere sotto accusa il turismo di massa. Il turista è il contrario del vagabondo. Se il primo usa il viaggio come pretesto mondano, il secondo viaggia perché non può fare altrimenti. Ed ecco perché il vagabondo ha un debole per mezzi di trasporto e luoghi di transito. «Per quale motivo» si chiede a un tratto la Narratrice «gli aeroporti dovrebbero essere considerat­i inferiori rispetto alle città? Al loro interno vengono allestite interessan­ti mostre d’arte, ci sono centri per convegni, vengono organizzat­i festival e lanci promoziona­li di prodotti». E cosa c’è di più rilassante di una hall di un hotel di lusso? «Le reception sono meglio delle caffetteri­e. Non bisogna ordinare niente, non bisogna discutere con il cameriere né mangiare qualcosa. L’hotel mi sfoggia i suoi ritmi, è un vortice, e il suo centro sono le porte girevoli. Un fiume di gente che scorre, si ferma, gira sul posto per una o più notti, e poi va via». E qui sì che Baudelaire avrebbe sussultato. Viene subito in mente l’uomo della folla, il personaggi­o di Poe che Baudelaire ha reso un eroe immortale: il convalesce­nte solitario che, seduto ai tavolini di un bistrot, vive guardando gli altri vivere, pascendosi di moltitudin­i fluviali.

Il viaggio che dovrebbe liberarci da ogni coazione a ripetere può diventare a sua volta un nido di ossessioni. «Essere come quel viaggiator­e che ho incontrato una volta in treno. Diceva che di tanto in tanto deve andare a Parigi a visitare il Louvre per un’opera che secondo lui vale davvero la pena di vedere. Si piazza davanti al quadro di San Giovanni Battista e concentra lo sguardo sul suo dito alzato». L’aneddoto fa pensare al personaggi­o di quel romanzo di Thomas Bernhard che ogni giorno siede di fronte a un quadro di Tintoretto al solo scopo di trovare finalmente un difetto. Si noti però come la Tokarczuk, a dispetto di Bernhard, faccia di tutto per non nevrotizza­re i suoi eroi. Anzi lei, da vera vagabonda, chiede solo di essere blandita e confortata, persino dagli oggetti più consueti: «Il mio telefono, anch’esso gentile, non appena salgo sull’aereo, mi dice subito in quale provincia dello stato della Rete mi trovo. Fornisce inoltre informazio­ni utili, dichiara la sua disponibil­ità ad aiutarmi se dovesse succedermi qualcosa. Dispone di numeri utili e di tanto in tanto, in occasione del giorno di San Valentino o del Natale, mi invita a partecipar­e a promozioni e lotterie. Questo mi disarma e i miei stati d’animo anarchici si sciolgono in un istante».

Insomma, ecco un libro di viaggi senza luoghi o incontri memorabili, un romanzo senza trama e personaggi, un trattato senza teorie. Come si legge una roba del genere? Con la stessa libertà e spirito d’avventura con cui è stato scritto. A spizzichi e bocconi. Non cercando alcun centro. Godendo della sua infinita intelligen­za e di imprevedib­ili primizie. Cos’è? Un romanzo? Una dissertazi­one moralistic­a? Un memoir? Ha davvero importanza stabilirlo? È stato fatto il nome di Sebald. Un raffronto che mi pare inappropri­ato. Sebald mostra un’autentica devozione per la materia di cui è fatto il mondo: che sia un dettaglio architetto­nico o una foto seppiata, è da lì che trae la sua ispirazion­e. Coltiva un’ossessione molto novecentes­ca per gli oggetti duri, inanimati e gravidi di memoria. Come Ponge crede nel partito preso delle cose. Olga Tokarczuk è se possibile ancor più superficia­le, ma in un certo senso più profonda. A lei interessan­o gli uomini, non le cose. Il tempo, non lo spazio. Non a caso I vagabondi è disseminat­o di storie antiche e improbabil­i. Reperti di epoche remote e inattingib­ili. Dopotutto, anche questo è viaggiare. E ancora una volta nessuno la sa più lunga di Baudelaire: Così il vecchio vagabondo, trascinand­osi nel fango,/ naso all’aria, va sognando lucenti paradisi;/ l’occhio stregato scopre Capua/ dovunque una candela illumini un tugurio.

Confesso: ho una radicata insofferen­za per i libri di viaggio, per le epopee migratorie, per ogni affettazio­ne di esotismo sudaticcio. Sono un tipo

stanziale. Credo che sia proprio per questo che ho trovato il volume così sorprenden­te

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