Corriere della Sera - La Lettura
Il dolore della Terra Non piove da anni
Maja Lunde, norvegese, ha scritto un romanzo (il secondo di una quadrilogia dedicata alle emergenze ambientali) che è un urlo, un appello, un pianto, una preghiera. Sarà al festival di Venezia per parlarne. Qui anticipa alcune considerazioni: «Scrivo perché sono preoccupata. Ma la domanda è: perché non lo siamo tutti?»
«Avolte le cose vanno così rapidamente. Un giorno la sveglia suona e tu ti alzi, fai colazione, vai al lavoro, litighi, ridi, ami, lavi i piatti, ti preoccupi che il conto in banca possa andare in rosso prima della fine del mese... non pensi che tutto quello che hai intorno a te potrebbe semplicemente non esserci più. Anche se senti che il mondo sta cambiando. Anche se lo vedi sul termometro. Non ci pensi fino al giorno in cui non è più il suono della sveglia a tirarti giù dal letto la mattina, ma un urlo. Le fiamme hanno raggiunto la tua città, la tua casa, il tuo letto, i tuoi cari. Brucia tutto, le tue lenzuola hanno preso fuoco, il tuo cuscino fuma e tu non puoi fare altro che correre».
Argelès, Francia, 2041. David scappa dalla morte, nel «rumore dell’incendio» tiene stretta la figlia Lou. «Lei piange. Io corro. Io con Lou fra le braccia». Non piove da cinque anni. E così alla fine tutto brucia. Una giovane moglie e un altro figlio si perdono tra le fiamme. Non resta che un provvisorio rifugio, in un campo profughi un po’ più a nord, dove provare a proteggere almeno lei, la piccola Lou. Fino a quando ci sarà acqua.
Lo scorso giugno il Centro comune di ricerca (Jrc) della Commissione europea ha pubblicato la nuova edizione dell’Atlante mondiale
della desertificazione, secondo cui «oltre il 75% della superficie terrestre è già degradata e questa percentuale potrebbe raggiungere il 90% nel 2050». Nel romanzo La storia dell’acqua, edito in Italia da Marsilio, la scrittrice norvegese Maja Lunde traduce le previsioni e i dati scientifici nella carne e nei volti di una famiglia che potrebbe essere la nostra. Il filone della cosiddetta climate-fiction — nato già una decina d’anni fa, si pensi a Solar di Ian McEwan (Einaudi, 2010), a L’anno del diluvio di Margaret Atwood (Ponte alle Grazie, 2009) — oggi si espande con l’aggravarsi dell’emergenza ambientale. Ma se il genere prediletto sembra al momento la fantascienza, Maja Lunde — con una scelta efficace — cala la catastrofe nel mondo ordinario. In una realtà quotidiana che il cambiamento, in genere lento, della natura fa crollare invece in pochissimo tempo. David non è un padre eroico: si barcamena come può, davanti a una bambina che ha sempre più sete.
La storia dell’acqua segue il bestseller La storia delle api (2015) e sarà al centro di un incontro con Maja Lunde, il 6 aprile a Venezia, al festival Incroci di civiltà. Con «la Lettura» l’autrice parla alla vigilia dell’arrivo in Italia.
Dopo i primi due libri dedicati all’emergenza ambientale, lei ne ha già annunciati altri due, che andranno a comporre una quadrilogia sul clima. Sente il dovere di diffondere un messaggio in difesa del pianeta?
«Il cambiamento climatico è un tema di cui ho sentito parlare tantissimo, fin da piccola, dai miei genitori e adesso mi preoccupa molto. È come se a un certo punto la storia mi fosse arrivata da sola. Due immagini in particolare hanno bussato alla mia porta: una di un giovane uomo che cammina in una natura arida, David appunto. L’altra, di un’anziana seduta vicino a una cascata, e molto arrabbiata».
Si tratta di Signe, norvegese come lei, giornalista, attivista in difesa dell’ambiente. È la protagonista dell’altra metà de «La storia dell’acqua», ambientata nel presente, quando però già il Blåfonna, il ghiacciaio dell’infanzia tra i fiordi, è «ferito, e non può gridare, si dissangua di minuto in minuto».
La scena del romanzo «C’è Lou, una bambina, che sta male. Ha sete, una sete intollerabile. Per placarla è stata costretta a bere acqua contaminata e ora sta male»
erano «Ho parte riflettuto della e stessa ho capito storia. che L’ho Signe costruita e David su due piani temporali che si alternano, ma c’è un elemento comune: l’acqua, o la sua mancanza. Quando ho scritto La storia delle api pensavo che mi sarei fermata lì, ma più mi sono addentrata nell’emergenza ambientale, più ho sentito il bisogno di fare qualcosa. Il terzo libro sarà sugli animali in pericolo. Scrivo perché sono preoccupata, ma la vera domanda è: come mai non lo siamo tutti?».
Sul «Corriere» Paolo Giordano ha invitato ad affrontare «una nostra tendenza a evitare di parlare del cambiamento climatico, di occuparcene e preoccuparcene».
«I fatti ci obbligheranno a farlo. In Norvegia l’atteggiamento è cambiato dalla scorsa estate: c’è stato un caldo estremo, non è piovuto per tre mesi. Ci siamo spaventati e abbiamo iniziato a parlare molto del clima. Il mio Paese si è arricchito con il petrolio, ha più responsabilità di tutti gli altri in Europa, può e deve farsi capofila nella sfida dell’energia verde. Ognuno, poi, può fare qualcosa in prima persona». Che cosa esattamente?
«Mangiare meno carne, prendere meno aerei, avere cura di piante e insetti che ci circondano. E, non ultimo, votare politici disponibili al cambiamento e al coraggio». Gli Stati Uniti di Donald Trump sono usciti dall’accordo di Parigi sul clima.
«Chi nega il cambiamento climatico nega la ricerca scientifica. È pauroso sentire Trump parlare di ambiente, vedere che non vuole fare ciò che serve. Per scrivere i miei libri ho parlato con molti esperti: se d’ora in poi non faremo nulla per correggere la situazione, l’ipotesi di cinque anni di siccità, da qui a un ventennio, non è irrealistica. Ecco perché dobbiamo diffondere consapevolezza su come stanno le cose. Agire nelle scuole è fondamentale. Oggi i ragazzi sono più informati degli adulti, non a caso sono stati loro a scioperare».
Greta Thunberg, anche lei scandinava, è diventata il simbolo della protesta. Perché il suo messaggio è così forte?
«Mi piacerebbe conoscerla di persona! Se una ragazza di 16 anni può fare tutto questo da sola, cosa potremmo fare tutti insieme? Qualcuno l’ha già criticata, ma lei non è sola: colpire lei vuol dire colpire milioni di ragazzi. La sua forza è proprio nell’essere un’adolescente: i giovani sono la speranza e se uno di loro ci dice che non c’è più speranza, che gliela stiamo togliendo, il messaggio non può che essere potente. Il clima e il futuro socio-economico sono strettamente legati, ma i politici sottovalutano quanto siano spaventati i ragazzi: vedono svanire la nostra meravigliosa natura e la possibilità di soddisfare i loro bisogni. Non chiedono lusso, lottano per la sicurezza». Lei ha scioperato?
«Sì, ad Oslo, davanti al Parlamento, con i miei due figli più piccoli, di 8 e 10 anni. Il più grande è andato da solo con i compagni».
Nel libro i migranti climatici non sono gli africani ma gli europei: dal Sud riarso tentano di scappare a Nord, verso le «terre dell’acqua», che però chiudono i confini.
«I rifugiati nel romanzo sono francesi. Certo è spaventoso immaginare che i profughi potremmo essere noi, ma così è più facile immedesimarsi nei rifugiati di oggi. Quel “loro” potrei essere “io”. Sono stata in tre diversi campi in Grecia, con profughi da Siria, Iraq, Afghanistan. Volevo che il mio romanzo fosse realistico. Ho conosciuto i rifugiati e respirato i loro odori. Ho visto condizioni terribili ma anche imprevedibili amicizie. Luce e amore, seppure in circostanze disumane. Il libro racconta questa capacità di prendersi cura, ma anche il non farlo, i confini chiusi appunto». Lei propone un esercizio di empatia.
«È lo strumento principale che uso quando scrivo. Non sapete quanto ho sofferto nel disegnare la scena, estremamente realistica, di Lou che sta male nel campo: intossicata e tremante dopo che, incapace di resistere alla sete, ha bevuto acqua contaminata. Spero di suscitare empatia anche nei lettori. Qualcuno mi ha detto di aver avuto sete come David e sua figlia. E non sapete quanta sete ho avuto io mentre scrivevo. Ma condividere è decisivo. L’umanità può fare accadere il peggio, ma anche svolte fantastiche. In pochissimo tempo».