Corriere della Sera - La Lettura
Un fantasma in salotto di notte parla al cuore
Autofiction Nel nuovo romanzo di Mauro Covacich i personaggi sono persone. Ma molto conta anche una figura che abita gli spazi del protagonista
Se qualcuno, aperto a metà il nuovo libro di Mauro Covacich, lo leggesse fino all’ultima pagina, per poi attaccare con la parte iniziale, potrebbe goderselo, a mio parere, più o meno come chi, più canonicamente, lo inizia dalla prima pagina. Una volta (chi ha la mia età lo ricorda bene) si faceva così andando al cinema, ai bei tempi in cui si entrava quando capitava e si guardavano i film procedendo come su un percorso circolare, alzandosi quando si riconosceva la prima scena che si era vista.
Quello che sto cercando di segnalare con questa provocazione è un grande pregio della prosa di Covacich, e corrisponde a un modo di sentire il mondo e l’esperienza nel quale i fenomeni, più che rivelare il loro significato, sembrano sempre riproporsi come enigmi irrisolti, trasformando ogni giorno in un Giorno della Marmotta: bisogna ricominciare a decifrare, e tutto quello che si è imparato prima non conta più nulla. Nemmeno l’esercizio della memoria è capace di rimediare a questa perenne condizione di stallo cognitivo: perché la quantità di futuro racchiusa nel passato è sempre opinabile, e il filo dell’identità sembra più il frutto di un’improvvisazione quotidiana che una maturazione rettilinea dal passato al presente. Di chi è questo cuore non è il primo libro in cui Covacich affronta la sua vita in presa diretta, cercando le sue trame nel passare dei giorni, pescando nella corrente dei fatti, fingendo di annotarli come in un diario. «I personaggi di questo romanzo sono persone», ci avverte l’autore alla fine del libro, e «anche i nomi sono gli stessi a cui rispondono nella vita». Compreso, ovvia
mente, chi scrive. Ma che le persone e le cose che accadono siano «vere», come esige il codice dell’auto-fiction, non rende affatto meno necessario inventarle: proprio in questo paradosso consiste la differenza tra un documento e un romanzo. Covacich insomma non riferisce, ma racconta: cominciando questa volta da un allarme, dall’irruzione di una minaccia nel tessuto delle abitudini.
È dal lettino di un ambulatorio che il
protagonista inizia a parlarci di sé e della sua vita.
Si sta sottoponendo a una visita cardiologica che rivela una piccola anomalia, uno spessore eccessivo del «setto ventricolare». Nulla di grave se non fosse che quest’uomo, pur avendo superato i cinquant’anni, è ancora dedito a un’attività agonistica (la corsa, e addirittura una massacrante combinazione di nuoto e corsa) protratta ben oltre i limiti del buon senso. Deve piantarla, accettare questo segno di caducità: non è ancora arrivato l’inverno, ma qualche foglia comincia ad ingiallirsi. È il momento, fotografato benissimo da Covacich, in cui l’individuo capisce che tocca a lui: come se invecchiare significasse prendere la vita, molto più di prima, come un fatto personale.
A partire dalla diagnosi del medico, forse in conseguenza della forzata rinuncia, forse in virtù di un’imperscrutabile congiunzione astrale, le cose iniziano a diventare, per il protagonista di Di chi è
questo cuore, molto più complicate di quelle che sembravano. Una ventata di ansietà si abbatte su ogni aspetto della vita, e l’acuita intensità del sentire genera una sovrabbondanza di energia nervosa che a un certo punto prende l’aspetto di un vero e proprio fantasma. È un uomo grasso, sempre nudo, che appesta la casa romana di Covacich e della sua compagna con il fumo delle sigarette che si accende senza tregua. Da dove arriva? E come fa ogni notte a intrufolarsi in salotto?
Bella invenzione, che può ricordare alla lontana un’altra presenza sospesa tra l’evento fantastico e l’allucinazione, l’indimenticabile Mr. Tuttle di Body Art di Don DeLillo. Ma a differenza dell’omino di DeLillo, che emette solo qualche stento monosillabo e tende a occupare il minor spazio possibile, l’intruso di Covacich è ingombrante come un modello di Lucian Freud, e fin troppo loquace. La sua è una violenza in qualche modo pedagogica, perché presuppone una colpa da sanare che riguarda la verità e in particolare la verità di chi scrive. L’uomo grasso infatti, durante le sue visite notturne, pretende dal nostro eroe il coraggio di varcare dei limiti che lui stesso, in momenti più tranquilli, si è posto. Non si tratta di rinunciare a mentire, sarebbe troppo facile. Ma una volta che si è scelto di scrivere le cose come stanno, con tanto di nomi e a volte di cognomi, si tratta di affrontare quella forma più sottile ed insidiosa di falsità che è l’omissione.
Mettendo a frutto la lettura di un bel saggio di Andrea Tagliapietra, Covacich medita intensamente sul legame necessario e doloroso che unisce la sincerità e la crudeltà come le due facce di una stessa moneta. Già, ma come imparare a essere più crudeli? Ed è proprio questa la strada? L’uomo grasso sembra aver risolto tutti i problemi, come sanno fare solo gli abitanti del regno delle ombre. Noi vivi siamo diversi, il nostro istinto ci consiglia sempre di conservare un residuo di reticenza anche nella più impudica manifestazione di sé. La scrittura complica ancora di più le cose perché chi scrive esegue la sua performance come un attore che, abbagliato dalle luci di scena, si rivolge a un pubblico indistinto, inghiottito dal buio, necessariamente minaccioso. E il rischio è quello di iniziare a percepire ciò che fino a ieri ci sembrava la nostra vocazione come una falsa vocazione, e dunque qualcosa di diabolico, un male travestito da bene.
Covacich non trova il bandolo della matassa e, come accennavo all’inizio, la sua non è una storia dotata di un inizio e di una fine, l’ultima pagina si dibatte nella stessa incertezza della prima e nemmeno la presenza notturna dell’uomo grasso serve di orientamento decisivo al protagonista. Quello che conta, mi sembra di capire, non è trovare la strada per essere sinceri, per essere crudeli fino in fondo.
Semmai, quello che si può fare è provarci ogni giorno, a risalire la china dell’insensato, a spezzare la catena di «morte, desiderio, denaro» che ci incatena come un sortilegio. Come chi, pur sapendos i p e r duto , s i o s t i na a i nve nt a r e , vivendo, la propria salvezza.
Circolarità La sua non è una storia dotata di un inizio e di una fine, l’ultima pagina si dibatte nella stessa incertezza della prima