Corriere della Sera - La Lettura
Si (ri)parte sempre da Greenwich
Riparazioni Aveva scritto che si ricomincia «dallo zero segnato in ogni carta». Ed è così anche per lui, Bartolo Cattafi. Autore trascurato, viene celebrato con l’opera omnia. Come dire: punto e a capo
Sono ormai alcuni decenni che il nome di Bartolo Cattafi viene associato all’idea di un risarcimento dovuto. Da che cosa? Anzitutto dai danni provocati da una critica forse non abbastanza attenta, e poi, anche più, dalla sua mancata inclusione in alcune importanti antologie della poesia italiana del Novecento. Certo a lungo andare tutto questo ha gravato sulla presenza e considerazione del poeta siciliano nel panorama della nostra poesia. Anche se è altrettanto vero che editori (Mondadori tra i primi), ma soprattutto estimatori e interpreti di rilievo fin da subito non gli sono mancati, sia tra i poeti (Caproni, Sereni, Raboni, Bellezza) sia tra i critici (Baldacci, Bo, Solmi, Forti, Ramat). E questo trova un riscontro significativo nella passione critica e filologica che negli ultimi tempi hanno riversato sui suoi versi alcuni studiosi delle generazioni più vicine (è giusto ricordarli: Stefano Prandi, Paolo Maccari, Massimo Gezzi).
In ogni caso, se davvero un risarcimento era dovuto, a colmarlo giunge ora il volume comprensivo dell’intera opera in versi di Cattafi: (Le Lette
re), a cura di Diego Bertelli e con una introduzione di Raoul Bruni. Si tratta di un’opera importante, e non solo perché l’autore ne aveva, diciamo così, bisogno, quanto perché, tanto più a fronte di una produzione poetica imponente, i due giovani studiosi danno conto con molta precisione del suo processo generativo, della stratificazione interna, dei principali filoni tematici, delle vicende biografiche, della storia critica e via dicendo. L’immagine del poeta ne esce in tutto il suo nitore, il che poi significa nella sua estrema singolarità. Insomma, adesso Cattafi ha avuto quello che era giusto che avesse: a questo punto non resta che leggere o rileggere le sue poesie.
Ed è proprio qui che si possono subito toccare con mano i caratteri della singolarità che si è detta. Cattafi non lo si può tirare infatti da nessuna parte. Ha appreso senz’altro qualcosa d’importante dal trattamento dell’immagine del primo Montale, così come sarà suggestionato dal distacco ironico dei suoi libri più tardi, ma difficilmente può essere considerato un epigono montaliano. Presenta certe sintonie con Sereni, ma non ne condivide affatto l’escursione narrativa e il confronto con la prosa e la lingua parlata. Allo stesso modo è lontanissimo da ogni forma di sperimentalismo, d’impegno esplicito, d’intellettualismo, di discorsività, di vocazione argomentativa. Eppure, contrariamente a quanto ci si potrebbe forse aspettare visto che la natura occupa un posto fondamentale nei suoi versi, non è nemmeno un poeta della sensualità e del calore mediterranei.
Davvero strano Cattafi. In pieno secondo Novecento sembra aver adottato mezzi espressivi ormai fuori moda tipici dell’anteguerra — la precedenza data all’immagine, la reticenza verso la sua decrittazione ideologica o conoscitiva, il verso breve leggermente enigmatico, le giunture e i collegamenti logici spesso sottintesi, il valore emblematico e assoluto, anziché particolaristico e storicamente determinato, della rappresentazione — coniugandoli però con una sensibilità, con rovelli interiori, con un disagio storicoesistenziale che appartiene in tutto e per tutto al suo tempo. In questo davvero non è lontano da Montale o da Sereni: anche in Cattafi, infatti, il sentimento di una negatività esperita personalmente, qui ed ora, s’intreccia in modo molto stretto con un pessimismo metafisico di matrice schiettamente leopardiana (Bruni ha giustamente insistito su questo punto).
Il fatto è, però, che di contro a questa disposizione generalissima, ma non per questo meno sostanziale, che potremmo definire de-realizzante, Cattafi possiede con una necessità ed esuberanza niente meno che biologica, una percezione della materia, un sentimento della presenza e concretezza del mondo, un senso della visibilità delle cose che tra i contemporanei hanno pochi rivali. La realtà, il paese visibile, come lo chiamava proprio Sereni, in queste poesie arriva prima di tutto e sempre, inesorabilmente, anche quando il poeta meno intenderebbe dargli credito. Perfino nelle stagioni poetiche più chiuse e astratte (si tratta di un poeta in qualche misura ciclotimico, che ripete in innumerevoli occasioni particolari la stessa, identica alternanza di apertura e chiusura verso l’esistente), la realtà in forma d’immagine — uomini, incontri, viaggi, luoghi, piante, animali, elementi atmosferici — costituisce per lui l’unica possibilità di comprensione della vita. «Com’è duro, difficile arrivare/ all’altra faccia del cuore,/ leggerne il bigio, agevole disegno/ mentre i fantasmi lasciano una traccia/ di rischioso colore,/ mentre l’insetto stordito guada il mare/ il regno proibito/ l’avventuroso fondo del bicchiere». Si può dire che la relazione basica con la materia del mondo venga rimessa in questione in ogni sua poesia, sempre allo stesso modo, sempre diversamente. E infatti: «Si parte sempre da Greenwich/ dallo zero segnato in ogni carta».
Decenni perduti Lo scrittore ha patito una critica forse non abbastanza attenta e la mancata inclusione in alcune importanti antologie