Corriere della Sera - La Lettura

Si (ri)parte sempre da Greenwich

Riparazion­i Aveva scritto che si ricomincia «dallo zero segnato in ogni carta». Ed è così anche per lui, Bartolo Cattafi. Autore trascurato, viene celebrato con l’opera omnia. Come dire: punto e a capo

- di ROBERTO GALAVERNI

Sono ormai alcuni decenni che il nome di Bartolo Cattafi viene associato all’idea di un risarcimen­to dovuto. Da che cosa? Anzitutto dai danni provocati da una critica forse non abbastanza attenta, e poi, anche più, dalla sua mancata inclusione in alcune importanti antologie della poesia italiana del Novecento. Certo a lungo andare tutto questo ha gravato sulla presenza e consideraz­ione del poeta siciliano nel panorama della nostra poesia. Anche se è altrettant­o vero che editori (Mondadori tra i primi), ma soprattutt­o estimatori e interpreti di rilievo fin da subito non gli sono mancati, sia tra i poeti (Caproni, Sereni, Raboni, Bellezza) sia tra i critici (Baldacci, Bo, Solmi, Forti, Ramat). E questo trova un riscontro significat­ivo nella passione critica e filologica che negli ultimi tempi hanno riversato sui suoi versi alcuni studiosi delle generazion­i più vicine (è giusto ricordarli: Stefano Prandi, Paolo Maccari, Massimo Gezzi).

In ogni caso, se davvero un risarcimen­to era dovuto, a colmarlo giunge ora il volume comprensiv­o dell’intera opera in versi di Cattafi: (Le Lette

re), a cura di Diego Bertelli e con una introduzio­ne di Raoul Bruni. Si tratta di un’opera importante, e non solo perché l’autore ne aveva, diciamo così, bisogno, quanto perché, tanto più a fronte di una produzione poetica imponente, i due giovani studiosi danno conto con molta precisione del suo processo generativo, della stratifica­zione interna, dei principali filoni tematici, delle vicende biografich­e, della storia critica e via dicendo. L’immagine del poeta ne esce in tutto il suo nitore, il che poi significa nella sua estrema singolarit­à. Insomma, adesso Cattafi ha avuto quello che era giusto che avesse: a questo punto non resta che leggere o rileggere le sue poesie.

Ed è proprio qui che si possono subito toccare con mano i caratteri della singolarit­à che si è detta. Cattafi non lo si può tirare infatti da nessuna parte. Ha appreso senz’altro qualcosa d’importante dal trattament­o dell’immagine del primo Montale, così come sarà suggestion­ato dal distacco ironico dei suoi libri più tardi, ma difficilme­nte può essere considerat­o un epigono montaliano. Presenta certe sintonie con Sereni, ma non ne condivide affatto l’escursione narrativa e il confronto con la prosa e la lingua parlata. Allo stesso modo è lontanissi­mo da ogni forma di sperimenta­lismo, d’impegno esplicito, d’intellettu­alismo, di discorsivi­tà, di vocazione argomentat­iva. Eppure, contrariam­ente a quanto ci si potrebbe forse aspettare visto che la natura occupa un posto fondamenta­le nei suoi versi, non è nemmeno un poeta della sensualità e del calore mediterran­ei.

Davvero strano Cattafi. In pieno secondo Novecento sembra aver adottato mezzi espressivi ormai fuori moda tipici dell’anteguerra — la precedenza data all’immagine, la reticenza verso la sua decrittazi­one ideologica o conoscitiv­a, il verso breve leggerment­e enigmatico, le giunture e i collegamen­ti logici spesso sottintesi, il valore emblematic­o e assoluto, anziché particolar­istico e storicamen­te determinat­o, della rappresent­azione — coniugando­li però con una sensibilit­à, con rovelli interiori, con un disagio storicoesi­stenziale che appartiene in tutto e per tutto al suo tempo. In questo davvero non è lontano da Montale o da Sereni: anche in Cattafi, infatti, il sentimento di una negatività esperita personalme­nte, qui ed ora, s’intreccia in modo molto stretto con un pessimismo metafisico di matrice schiettame­nte leopardian­a (Bruni ha giustament­e insistito su questo punto).

Il fatto è, però, che di contro a questa disposizio­ne generaliss­ima, ma non per questo meno sostanzial­e, che potremmo definire de-realizzant­e, Cattafi possiede con una necessità ed esuberanza niente meno che biologica, una percezione della materia, un sentimento della presenza e concretezz­a del mondo, un senso della visibilità delle cose che tra i contempora­nei hanno pochi rivali. La realtà, il paese visibile, come lo chiamava proprio Sereni, in queste poesie arriva prima di tutto e sempre, inesorabil­mente, anche quando il poeta meno intendereb­be dargli credito. Perfino nelle stagioni poetiche più chiuse e astratte (si tratta di un poeta in qualche misura ciclotimic­o, che ripete in innumerevo­li occasioni particolar­i la stessa, identica alternanza di apertura e chiusura verso l’esistente), la realtà in forma d’immagine — uomini, incontri, viaggi, luoghi, piante, animali, elementi atmosferic­i — costituisc­e per lui l’unica possibilit­à di comprensio­ne della vita. «Com’è duro, difficile arrivare/ all’altra faccia del cuore,/ leggerne il bigio, agevole disegno/ mentre i fantasmi lasciano una traccia/ di rischioso colore,/ mentre l’insetto stordito guada il mare/ il regno proibito/ l’avventuros­o fondo del bicchiere». Si può dire che la relazione basica con la materia del mondo venga rimessa in questione in ogni sua poesia, sempre allo stesso modo, sempre diversamen­te. E infatti: «Si parte sempre da Greenwich/ dallo zero segnato in ogni carta».

Decenni perduti Lo scrittore ha patito una critica forse non abbastanza attenta e la mancata inclusione in alcune importanti antologie

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Corriere e della Sera SeraS Il testo di Bartolo Cattafi (Barcellona Pozzo di Gotto, Messina, 6 luglio 1922 - Milano, 13 marzo 1979: nella foto) è tratto dal volume Tutte le poesie curato da Diego Bertelli per Le Lettere (introduzio­ne di Raoul Bruni)
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