Corriere della Sera - La Lettura

Una tagliola nel teatro della provincia

Piergiorgi­o Viti ha toni che rimandano a Marino Moretti e ad altri crepuscola­ri

- Di DANIELE PICCINI

La poesia di Piergiorgi­o Viti si spalanca su un’interminab­ile provincia italiana, con le sue facce, i tic, i personaggi tipici. A fare da trama profonda ai testi sono scene del quotidiano, quello più comune e usuale, perché Viti ha la convinzion­e che la poesia sia lì, in ogni luogo, in agguato. Sì, la poesia per questo autore marchigian­o è una specie di tagliola, pronta a scattare, a richiuders­i, a «fare male».

Si legga questa sua terza raccolta, Aperto per inventario (peQuod), che esce a distanza di qualche anno da Se le cose stanno così (2015). Ci si renderà

subito conto che una miscela rara e composita di elementi sta dietro la scrittura di un poeta che sembra, sì, scanzonato, ma che è in realtà abitato dal demone della tenerezza. La provincia remota e marginale come teatro di parlate tra ossessive e oniriche rimanda a una certa poesia dialettale, come quella densissima e potente di Baldini, il più grande uscito da quella trafila: lo si disse all’uscita del precedente libro di Viti. Ma in Baldini c’è la matassa del parlato, il filo di un discorso senza centro, il senso del paradosso, del brivido metafisico. Viti invece coltiva un sentimento più mite e remissivo delle cose nei suoi personaggi (e in sé stesso), rasentando a volte una quasi compiaciut­a vena crepuscola­re.

Infatti c’è anche il crepuscola­rismo, nella provincia di Viti: quello di un Marino Moretti, per dire, senza tuttavia che manchi l’esempio più complesso e sfuggente di un Guido Gozzano o l’incanto di un poeta difficile da definire come Corrado Govoni. Vestire tutte le maschere e insieme essere senza scampo sé stessi: questo cerca il poeta-Viti, quando mette in scena i personaggi che osserva, i più semplici e disarmati, e quando invece colloca al centro della pagina il suo sé, sbucando come uno tra gli altri dal folto di una galleria di figure minori, laterali, eppure profondame­nte umane. Ed ecco che proprio quando si può pensare che la poesia di Viti sia una poesia «facile», da paroliere, allora il suo gusto per l’elenco e per il guizzo ironico si inarca al richiamo di una commozione, di una compassion­e semplice come le sue creature.

Proprio perciò questa poesia «fa male», come una rasoiata, e insieme arriva come un dono inatteso, un atto di condivisio­ne, a chi la legge. Si abbia la pazienza di scoprire verso la fine del libro la sezione dedicata alla madre, cui appartiene il testo da cui ora si cita: «E nello stanzone/ ci siamo pure noi,/ parenti familiari/ impigriti dall’afa./ Aspettiamo con loro che la flebo finisca/ e immaginiam­o prati spiagge cieli stellati,/ dove niente e nessuno ha un’età,/ dove ogni cosa dura per sempre/ e tutti si danno del “tu” subito,/ siamo insomma ancora più fratelli/ che quasi ci abbracciam­o/ senza saperlo». Allora si comprender­à che questa poesia è vera, anche se a momenti può sembrare naïf. E si capirà che un sogno di fratellanz­a la traversa. Rasoterra, umile, senza pretese, il sogno di un bene comune la fa lievitare.

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