Corriere della Sera - La Lettura

L’arte in Arabia Saudita si toglie (un po’) il velo

- Dal nostro inviato a Riad e a Gedda (Arabia Saudita) PIERLUIGI PANZA

Un principe creativo, due ragazze con la testa scoperta, qualche caso di denuncia (tappeti a forma d’aereo, maschere antigas): Riad si ripresenta al mondo Zahrah Al-Ghamdi rappresent­erà il Paese alla Biennale di Venezia: sta lavorando a un’opera con materie naturali provenient­i dal sito archeologi­co Al Ula, dove la terra offre pietre di spettacola­ri variazioni cromatiche. Qui propone una parete di gomitoli bianchi intrecciat­i. Simboleggi­a i nodi dell’esistenza. Valore: 70 mila euro

Un principe-artista (Sultan bin Fahad), giovani creative senza velo, un ex Palazzo del Governo riaperto per una mostra sit e - s pecif i c , una gal l er i a ( l a Athr di Gedda) che si sta facendo largo nel mondo, un edificio alla periferia di Ri a d co me a te l i e r per g l i a r t i s t i , un Banksy arabo e Zahrah Al-Ghamdi che porterà, per la prima volta, il suo Paese alla Biennale d’Arte di Venezia nel prossimo maggio… Anche attraverso l’arte contempora­nea, una novità sbocciata all’improvviso da un secolare oscurantis­mo, l’Arabia Saudita cerca di cambiare sé stessa per cambiare i suoi rapporti con il mondo.

L’Arabia non è da confondere con gli Emirati dove, su penisole artificial­i, fioriscono non-luoghi occidental­i come hotel a tema, Expo o ipermusei. Nella terra dei wahabiti — uno Stato diventato indipenden­te dalla Gran Bretagna nel 1927 e uni

ficato in un regno nel settembre del 1932 — il piano «Saudi Vision 2030» voluto dall’arcinoto e arcicontro­verso erede al trono Mohammed bin Salman, intende «svegliare» un Paese legato alla tradizione nel suo intimo, popolare, religioso sentire. Il piano punta su istruzione, benessere e cultura con investimen­ti macroscopi­ci derivanti dal petrolio (che qui sanno non essere una risorsa infinita), e l’arte contempora­nea non è che la punta spregiudic­ata del saif, la spada dei califfi. Qui, da immemore tempo, l’arte è aniconica, calligrafi­e coraniche spuntano alle pareti delle case di Gedda, la musica è vietata come pure prostituzi­one, alcool e scommesse…: che ci fa dunque qui una perversion­e intellettu­ale come l’arte contempora­nea? Che cosa ci fa, qui, il Concettual­e? Eppure l’Arabia ci sta provando.

«Ho voluto riaprire questo ex palazzo governativ­o, che diventerà un hotel, perché da qui è passata la nostra storia», racconta Sultan bin Fahad, principe di famiglia reale e d’alto rango nel neonato ministero della Cultura. Sultan — una sola moglie, c he è una br i os a « S oz z a ni » d’Oriente — è uno dei numeri due del principe Badr bin Abdullah, noto per l’acquisto del Salvator Mundi attribuito a Leonardo (450 milioni di dollari sborsati nell’autunno del 2017) e per le trattative con la Scala (tre milioni di euro già versati, e poi rifiutati, per entrare nel Consigl i o di a mministraz­ione del te a t ro) . Aperto nel 1943, il Red Palace di Riad era un edificio governativ­o durante la strage alla Mecca del 1979 dove negli anni sono state prese molte decisioni strategich­e della recente storia saudita.

La mostra The Red Palace di Sultan bin Fahad (fino al 20 aprile), curata da Reem Fadda del Guggenheim di Abu Dhabi, racconta proprio la storia moderna del Paese in sequenze narrative che sembrano quelle delle esposizion­i di Prada a Ca’ Corner della Regina: lampadari preziosi nelle scatole dell’aria condiziona­ta ( To Dust), filmati in piani-sequenza di cene, maschere antigas e banconote finte usate nella Guerra del Golfo contro Saddam, le foto di re Abdul Aziz (1830-1876) che guidò il rinnovamen­to del Paese, tappeti dissacrati dai neon. «Ho provato a immaginare se questi muri potessero parlare — racconta Sultan —. Ho prestato attenzione alle donne e agli uomini che hanno lavorato dietro le quinte di questo vecchio palazzo, ho pensato agli oggetti rimasti, come le maschere antigas della guerra ancora nelle loro scatole originali».

Sono quattordic­i stanze di recenti memorabili­a, «relitti della moderna storia saudita» perché quelli dei secoli intermedi — come fossero i nostri Medioevo e Rinascimen­to — non esistono più. Per trovare testimonia­nze di arte-arte bisogna risalire ai Nabatei, II secolo a.C., e alle loro tombe recentemen­te scavate nel sito archeologi­co di Al Ula, ancora rifugio delle vipere.

Il piano «Saudi Vision 2030» prevede l’apertura di un’accademia d’arte per complessiv­i 9 mila studenti, distribuit­a su più campus, e di 140 nuove gallerie sparse per il Paese. Nel frattempo a Riad il governo ha messo a disposizio­ne un casermone per atelier d’artisti. Sembrano le aule delle vecchie scuole elementari. Qui, ad esempio, c’è l’atelier di Ahmed Mater, tra i più quotati artisti sauditi. Dirige la Misk Art Foundation, che comprende studi di design. I due cavalli (arabi) di battaglia di Mater sono Evolution of men, in cui si vede una pompa di benzina trasformar­si in un uomo che si sta sparando («puntare solo sul petrolio è un suicidio», dice) e una foto iperrealis­tica della Mecca dove i fedeli intorno sono

chiodi: l’immagine è stata usata dalla ditta di orologi Omega con la quale si è aperta una controvers­a giudiziari­a.

Nella stanza al piano di sopra lavora Seed Gamhawi, che carbonizza le lampadine per realizzare installazi­oni sull’origine del mondo e prende gessetti colorati per trasformar­li in missili. C’è un po’ di «arte di denuncia», se così si può dire, con tutto quell’uso di maschere e di foto della Guerra del Golfo (compresa quella del cormorano imbevuto di petrolio) anche nei lavori di Hamoud Al Ataoui. Sono artisti pronti per Basilea e Berlino con l’intento di raggiunger­e la fama di Maha Malluh, per ora «l’unica donna-artista araba nota internazio­nalmente», racconta il gallerista e intermedia­rio svizzero Claudio Scorretti. Pure il principe Sultan ha lo studio in questo edificio: è pieno di vecchi specchi decorati tolti dal Red Palace e dalla Mecca per far posto all’installazi­one: «Per questo le cornici hanno solo decorazion­i floreali di stile quasi giapponese», spiega.

La prima galleria d’arte contempora­nea del Paese, che fino a poco fa operava solo in patria ma ora è anche sulle rotte internazio­nali, è la Athr di Mohammed Hafiz e Hamza Serafi. La casa di Hafiz è un museo più che un appartamen­to, occidental­issimo, con lampade di Castiglion­i e terrazza su Gedda dove si cena senza salamelecc­hi in piena libertà. Anche qui, come da noi, l’arte contempora­nea è scrigno dell’upper class che studia in Europa e in America e va a sciare a Verbier. Quest’anno la galleria festeggia il suo primo decennio, cosa stravecchi­a da queste parti: «Molti artisti — racconta Hafiz — hanno lavorato qui superando le barriere linguistic­he. Abbiamo inviato una sessantina di artisti in varie residenze nel mondo, abbiamo ospitato artisti stranieri, istituito premi e l’anno scorso organizzat­o la Young Saudi Artist sul modello di Saatchi».

Q u i t r o v i a mo Re e m A l N a s s e r , i l Banksy d’Arabia, che scatta foto alle sue tag e poi le vende a 500 dollari. Ci sono due ragazze post-burqa (lo Stato ha reso possibile che il volto non sia più coperto): sono Ahaad Alamoudi, 26 anni, che presenta un video girato nel deserto dove c’è un tizio con tanto di thobe e kefiah fermata dall’agal (il nastro usato anche per legare i cammelli) «che balla come Michael Jackson che è il mio mito», dice. L’altra è Sara Abdu, che presenta A Kin

gdom where no one dies, dieci piccole montagnole di terra ocra sagomate, già comprate da un museo di Amsterdam per circa 11 mila dollari: «Ho 25 anni, mio padre è yemenita e mia mamma indiana, sono apolide e la mia arte vuole dimostrare che siamo tutti connessi, uomo e natura, e uomini oltre ogni confine»: è un po’ la versione giovane e politicall­y

correct esportata in contromano sulle vie d’Arabia. Il lavoro più impression­ante è Stream

More Oceans di Zahrah Al-Ghamdi, l’artista atteso in Biennale. È una parete che sembra di gomitoli bianchi intrecciat­i (ma è materiale sintetico) che costa settantami­la euro: rappresent­a i nodi dell’esistenza. «Per Venezia sta lavorando con materie naturali che provengono da Al Ula», dove la terra offre pietre di spettacola­ri variazioni cromatiche giallocrom­o, coccinigli­a, seppia, celadon…

A Gedda ci sono altre gallerie, come la Hafez Gallery che ha aperto a febbraio. Qui espone Rashed Al Shashai, che prende objects trouvés e li taglia a metà separandol­i con buoni effetti sensoriali, specie quando utilizza autobus o abiti da sposa.

Il Saudi Art Council (sponsorizz­ato da Ubs), in un dimenticab­ile mall con macchinett­e per le bibite, finti marmi e interno in simil archeologi­a industrial­e, espone anche opere di artisti stranieri: Proxi

mity/ Repulsion del biologo molecolare tedesco Felix Bonowski è una installazi­one dove i tuoi movimenti condiziona­no l’apparire e sparire di proiezioni alle pareti; il «britannico» Khalid Zahid ha costruito un ottovolant­e con carrozze decorate con versetti del corano; il tedesco Niklas Binzberger piega tappeti arabi inamidati in forma di cacciabomb­ardieri.

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