Corriere della Sera - La Lettura

La crisi ...la crisi dell’Europa è... del linguaggio

Il filosofo austriaco ha chiarito che la parola non è uno strumento neutro: può giustifica­re l’ordine vigente oppure farsi liberatric­e

- Di DONATELLA DI CESARE

Riprende la pubblicazi­one dei manoscritt­i: uno sguardo inedito su una figura centrale del pensiero (non solo) del XX secolo

Se in quel grigio inverno viennese del 1927 gli avessero chiesto un giudizio sul rovinoso corso della cultura austro-tedesca, Wittgenste­in avrebbe indicato la miscela esplosiva più volte menzionata nella sua corrispond­enza: culto del capo, ottuso nazionalis­mo, istupidime­nto delle masse, complicità dei media, fede socialdemo­cratica nel progresso. Questo non lo spinse, però, a scendere nell’arena della lotta, lì dove si fronteggia­vano ormai corpo a corpo le grandi ideologie novecentes­che. Preferì una sorta di ritiro monastico. Il che, malgrado quell’indubbia secessione morale, costituisc­e l’incanto della sua opera.

Asceta rigoroso del pensiero, mistico eccentrico, un po’ genio e un po’ santo, capace di fare della sua vita un intenso esperiment­o filosofico, tra durezze logiche e debolezze umane, Wittgenste­in è per eccellenza il mito intellettu­ale del XX secolo che si proietta nel futuro. Questo spiega perché l’interesse per la sua riflession­e non si affievolis­ca e vadano anzi delineando­si nuove tendenze interpreta­tive. Wittgenste­in è un «classico» – ma in modo del tutto singolare. La sua opera, già così densa ed enigmatica, viene man mano alla luce costringen­do critici e lettori a rivedere un quadro esegetico che alcuni pretendeva­no di chiudere già con il Tractatus logicophil­osophicus, pubblicato nell’edizione integrale anglotedes­ca nel 1922. Sennonché già molto presto fu palese l’importanza degli scritti successivi, in particolar­e delle Ricerche filosofich­e, terminate nel 1945. Un altro Wittgenste­in si profilava all’orizzonte. Il ritratto andava assumendo nuove fattezze anche grazie all’uscita dei diari, delle lettere, nonché dei ricordi annotati da chi l’aveva conosciuto. Dal lascito inedito spuntò nel 2000 il Big Typescript, il terzo grande libro di Wittgenste­in, 768 pagine risalenti al periodo della svolta, quello in cui, il ritorno a Cambridge, nel gennaio 1929, segnava anche, dopo una lunga pausa, il ritorno alla filosofia.

Quelle migliaia di osservazio­ni sparse, tenute insieme da una numerazion­e non sempre perspicua, sono isole di chiarezza che affiorano da un’immensità oscura, pensieri diversi che spingono chi legge a una navigazion­e audace sulla scia del filosofo e della sua altissima tensione per evitare il naufragio, per non uscire di senno. Nel tratto fra un’isola e l’altra potrebbe andare perduto il mondo. Impossibil­e scrivere un testo, e cioè tessere un discorso continuati­vo, sviluppare un trattato sistematic­o. La sintassi è logorata, la sintesi impossibil­e. Wittgenste­in lo riconosce: la filosofia non può più essere un sistema. E inaugura i giochi linguistic­i della postmodern­ità.

Ecco allora la notizia: riprende la Wiener Ausgabe, la pubblicazi­one dei dattiloscr­itti lasciati da Wittgenste­in, migliaia e migliaia di pagine che costituisc­ono quella decisiva fase di mezzo del suo pensiero. L’editore tedesco Klosterman­n annuncia in questi giorni l’uscita del nuovo volume, a cui faranno seguito altri. Oltra alla mole e alla complessit­à della sua opera, appare ormai evidente che Wittgenste­in non può essere ridotto al

Tractatus. Ma c’è di più: se prima si credeva che Cambridge rappresent­asse la svolta nella sua filosofia, adesso è innegabile che tutto ha inizio già a Vienna nel 1927.

Wittgenste­in era un sopravviss­uto. Il fantasma di Otto Weininger aveva infestato la sua vita dall’adolescenz­a. Rielaboran­do le inquietudi­ni che agitavano l’Austria di fine secolo, quel controvers­o profeta aveva offerto una raffiguraz­ione lucida e spietata dell’«odio di sé», effetto paradossal­e della testarda omofobia, del dilagante antisemiti­smo. A conferma che l’immagine riflessa dall’altro tocca sempre il sé nel suo intimo. Angoscia di essere ebreo, sofferenza di essere omosessual­e — dovere e insieme impossibil­ità di essere un genio in un tempo consumato dalla folle brama di originalit­à. Ma almeno Weininger, nell’autunno 1903, pochi mesi dopo l’uscita di

Sesso e carattere, aveva avuto il coraggio di darsi la morte.

Quel libro Ludwig l’aveva divorato. I Wittgenste­in venivano da generazion­i di ebrei assimilati e convertiti. Il padre Karl, un self made man, tenace, autonomo, sicuro di sé, se n’era andato presto a New York e, rientrato a Vienna, dopo aver studiato ingegneria, aveva costruito un vero e proprio impero nell’industria metallurgi­ca. L’enorme ricchezza consentì alla numerosa famiglia uno stile di vita aristocrat­ico. La moglie Leopoldine Kalmus, a sua volta di origini ebraiche, era una donna raffinata, un’appassiona­ta melomane, che nel Palazzo Wittgenste­in invitava i più famosi musicisti dell’epoca, da

Brahms a Mahler. Tutto era pronto per la tragedia che, complice un padre autoritari­o e intransige­nte, degno di Kafka, si sarebbe consumata rapidament­e.

Gli otto figli, cinque fratelli e tre sorelle, sono prodigiosa­mente dotati, ma anche straordina­riamente tormentati. Il maggiore Hans, che avrebbe voluto votarsi alla musica, nel 1902 scompare in circostanz­e oscure su un piroscafo al largo della Florida; l’ipotesi è il suicidio. Due anni dopo, in un ristorante di Berlino, si avvelena con il cianuro il terzogenit­o Rudolf, forse per timore che venga rivelata la sua omosessual­ità. Durante la drammatica ritirata del 1918, per non cadere prigionier­o dell’esercito italiano, Kurt si spara una pallottola in testa. Eroismo o autodistru­zione? Reduce dal fronte orientale, dove gli è stato amputato il braccio destro, il quarto fratello Paul, pianista di fama mondiale, medita a lungo il suicidio, finché non si rassegnerà a quella condizione e non lotterà per suonare ancora con una sua tecnica. Per lui Ravel comporrà il Concerto per la mano sinistra.

Nell’introduzio­ne allo splendido volume uscito di recente Wittgenste­in. Eine Familie in Briefen, che raccoglie la corrispond­enza del filosofo con i familiari, il curatore Brian McGuinnes, altrove poco propenso a riconoscer­e il nesso tra vita e opera, richiama l’attenzione sulle «somiglianz­e di famiglia». C’è da chiedersi, infatti, quanto l’analisi introspett­iva avrà influito sull’elaborazio­ne di questo grande tema. Inutile voler ridurre l’analogia tra enti a un’identità, astraendo dalle differenze.

La rivoluzion­e passa per la grammatica. Il filosofo cerca la parola liberatric­e

Ma che cos’è infine l’identità se non un mito pericolosi­ssimo che la filosofia ha edificato e che deve finalmente distrugger­e? Come in una famiglia, un’affinità che lega due membri non lega necessaria­mente gli altri membri, e questo vale per tutte le affinità che perciò non possono diventare tratti di una classe. Meglio accontenta­rsi delle molteplici somiglianz­e che s’intreccian­o, come le fibre di una corda, lasciando riconoscer­e la parentela, che non può irrigidirs­i nell’«identità» astratta. Così viene decostruit­o anche il concetto, che sull’identità si fonda.

Ludwig, in famiglia Luki, pur essendo un Wittgenste­in, è tuttavia diverso. Il suicidio lo insegue. Ma lui, paralizzat­o, bloccato, non riesce a compiere quel gesto. Si arruola volontario per mettersi alla prova e la guerra lo risparmia. Quando fa ritorno è un altro e la Vienna d’un tempo non esiste più. Durante la prigionia ha compreso che il suicidio — come ammetterà in uno scambio con l’amico architetto Paul Engelmann — non è «decente». Si manifesta l’afflato etico del suo pensiero. Non si tratta, però, né di cercare vie di fuga, né tanto meno il conforto di una redenzione. È consapevol­e di quell’estraneità profonda, quello schermo sottile che sembra separarlo dagli altri. Mentre termina il Tractatus medita sulle scelte che possono rendergli accettabil­e l’esistenza: cedere il patrimonio ereditato alle sorelle e al fratello; vivere poverament­e di un lavoro onesto; farla finita con la filosofia. Quest’ultimo proposito non si realizzerà.

Nella tragica alternativ­a tra il dovere del genio e la morte, Wittgenste­in mette in discussion­e l’originalit­à. Proprio in quegli anni Hitler aveva indicato nell’ebreo un «parassita privo delle qualità che contraddis­tinguono le razze creative», impoetico e senza «fondamenti». Con una mossa a sorpresa Wittgenste­in capovolge la violenta diffamazio­ne antisemita. Essere riprodutti­vi, cioè coniugare vecchio e nuovo, ridire il già detto, aprendo vie trasversal­i, scorgendo connession­i inedite: è quanto sa fare lo «spirito ebraico». «Il genio “ebreo” è solo un santo. Il più grande pensatore ebreo non è che un talento. (Io, per esempio)».

Così il tragico è alle spalle. «La tragedia è qualcosa di non ebraico. […]. In questo mondo (il mio) non vi è tragicità». Ecco allora non una via di fuga, bensì una via d’uscita: il linguaggio. Le metafore del varco, da cui l’opera di Wittgenste­in è costellata, rinviano alla «parola liberatric­e». Si profila la svolta, quel ritorno alla filosofia, per il quale il termine usato nei fogli del Big Type

script è Umstellung, che vuol dire spostament­o, adattament­o, con-versione. Una re-direzione dello sguardo su di sé e sul mondo, un’inversione grammatica­le. Perché la crisi dell’Occidente è la crisi del linguaggio. Qui la diagnosi di Wittgenste­in si accorda con quella di altri grandi filosofi del Novecento, come Heidegger. Solo la cura è diversa. Non è necessario risalire alle origini e all’originalit­à poetica; nella lingua quotidiana si dischiudon­o aperture e passaggi inattesi. Così è possibile superare quegli equivoci che gravano sulla vita non meno che sul pensiero. La rivoluzion­e passa per la grammatica.

Si comprende allora perché, in un celebre aforisma, Wittgenste­in scriva: «Il lavoro filosofico è propriamen­te — come spesso in architettu­ra — piuttosto un lavoro su sé stessi». Sta in ciò la «difficoltà intellettu­ale» che la distingue dalla scienza. La filosofia distrugge i vecchi idoli della metafisica — l’identità, il soggetto, l’interiorit­à — senza crearne nuovi. Questa è la battaglia contro «l’incantamen­to del nostro intelletto per mezzo del nostro linguaggio». Ma ciò non implica né una riforma, né tanto meno la riduzione del linguaggio alla logica, come pretendeva il Circolo di Vienna. Per Wittgenste­in tutto si compie nella trama dei giochi linguistic­i che si giocano ogni giorno. Da qui prende avvio la «terapia» il cui scopo è mettere in guardia da tutta quella metafisica incorporat­a già nella lingua. Il filosofo tradiziona­le fa come se il linguaggio fosse un semplice strumento neutro; il filosofo in rivolta, insofferen­te verso i fraintendi­menti contenuti nella lingua quotidiana, mostra «capacità di sofferenza». Ma la via per risolverli, o meglio, dissolverl­i, passa a sua volta per il linguaggio. «Il filosofo si sforza di trovare la parola liberatric­e, quella parola che alla fine ci permette di cogliere ciò che fino allora, inafferrab­ile, ha sempre oppresso la nostra coscienza».

La terapia — un tema su cui hanno insistito le nuove tendenze interpreta­tive, da Stanley Cavell a Peter Sloterdijk — è sempre anche introspezi­one. Il disagio, che non è avvertito da tutti, nasce dal disordine. Si manifesta così: «Non mi oriento più». Di qui l’immagine del filosofo che mette a posto una stanza. «In filosofia non gettiamo le fondamenta, ma mettiamo in ordine una stanza». Attenzione, però, l’ordine è uno degli ordini possibili. Come non c’è fondamento, così non c’è ordine definitivo. Altrimenti la filosofia di Wittgenste­in non sarebbe diversa da un sistema filosofico. Non si dà la «pace nei pensieri». E Wittgenste­in non esita a esprimere il suo disaccordo verso chi intende l’ordine in modo normativo. «Ramsey era un pensatore borghese. I suoi pensieri, cioè, erano orientati a mettere le cose in ordine all’interno di una certa comunità sociale. Non rifletteva sull’essenza dello Stato, ma su come poter conferire un ordine razionale a questo Stato».

La notizia della morte della madre raggiunse Wittgenste­in il 3 giugno 1926, quando si trovava ancora nel convento dei Frati misericord­iosi di Hütteldorf. Lì lo aveva portato la sua fuga disperata. Avrebbe voluto entrare in quell’ordine, ma fu ammesso solo come aiutogiard­iniere. Restò un monaco mancato. Rientrò a Vienna e, come oggi viene alla luce, quel rientro segnò il ritorno alla filosofia. Non trovò mai quiete. Riuscì, però, a introdurre nella vita quotidiana quella pacificazi­one che aveva provato sul fronte nei momenti di estrema angoscia. Era l’afflato etico che emergeva: «Se la vita è problemati­ca, è segno che la tua vita non si adatta alla forma della vita. Devi quindi cambiare la tua vita; quando si adatterà alla forma, allora scomparirà ciò che è problemati­co». Scorgeva qui il vertice del lavoro filosofico.

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LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTE PAGINE E DELLA SUCCESSIVA SONO DI BEPPE GIACOBBE
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