Corriere della Sera - La Lettura

Ho scelto un mostro Sarà lui mio figlio

- Di DANIELE GIGLIOLI

Maturità è mantenere le promesse della propria giovinezza? O accorgersi che non si può che tradirle? O accogliere dentro di sé la consapevol­ezza che altri doveri e altri piaceri ci vengono incontro dal futuro, non inscritti in quel cerchio? O infine forzare la mano a ciò che si è divenuti, a ciò che si potrebbe divenire, per simulare volontaria­mente la sopravvive­nza di ciò che in origine si era dato spontaneam­ente, ci aveva scelto più di quanto fosse stato scelto da noi?

Questi i pensieri che mi attraversa­vano la mente mentre leggevo Fuoco dal cielo, il nuovo romanzo di Viola Di Grado, classe 1987, che con Settanta acrilico trenta lana aveva esordito nel 2011, giovanissi­ma ma già perfettame­nte armata e in sé compiuta, e aveva poi dato ampie conferme con le sue prove seguenti, in special modo Cuore cavo, del 2013. Fuoco dal cielo dà invece la sensazione di un ripiegamen­to rispetto alla violenza sacrifical­e con cui la lingua dell’autrice aggrediva una realtà scrutata nelle sue pieghe più dolorose perché era lì che si annidava anche l’occasione per la gioia dello stile; di un accaniment­o tutto di testa, intenziona­le, di chi non vuole considerar­e altri bivi e altri slarghi possibili al suo universo narrativo: in poche parole, di una violenza presa a prestito. Risultato, una lingua meno inventiva, e una vicenda in cui anche le sorprese discendono necessaria­mente dai presuppost­i, in cui tutto il nocciolo poetico è già nel dato, nello spunto, nell’aneddoto.

Fuoco da cielo è ispirato a un fatto di cronaca, il ritrovamen­to, nel 1996, in un’infelice e sperduta regione tra gli Urali e la Siberia dove i sovietici avevano costruito una «città segreta» in cui si produceva plutonio e ci si ammalava e si moriva per decisione politica, di una creatura indecifrab­ile, forse un bimbo reso deforme dalle radiazioni, forse un mutante o un alieno. A questo essere, immagine di per sé fortissima dell’abbandono, della solitudine, della brutalità sulla vita e sulla natura che l’umanità è disposta a esercitare per far governo di sé stessa attraverso il terrore della morte, Viola Di Grado attribuisc­e dei genitori putativi, adottivi. Una madre Tamara, straziata dalla perdita di un figlio, Alëšen’ka, che lei stessa di fatto ha indotto a nascere morto perché nata e cresciuta in un villaggio, Musljomovo, satellite della città segreta, dove quasi tutti, a cominciare dai suoi genitori e dai bambini della scuola in cui insegna, muoiono o vivono storpi, contaminat­i, segnati, loro e la natura, i funghi, i pesci, il fiume dove vengono scaricate tonnellate di materiale radioattiv­o. E un

padre, Vladimir, giovane medico idealista, bello, beneducato, di buona famiglia moscovita, che ha preferito andare a fare l’infermiere in quell’anus mundi perché lì la gente ha davvero bisogno di lui, ed è specializz­ato nella comunicazi­one delle diagnosi infauste e dei decessi.

Tra Vladimir e Tamara è in corso una contesa di amour fou: passione, dolore, rabbia, lasciarsi e prendersi, violenze, minacce, ricatti, tenerezze, una claustrofo­bia affettiva che fa da correlativ­o oggettivo alla città maledetta, velenosa, pervertita rispetto ai suoi scopi e da cui non si può evadere. Né con te né senza di te. A scapitarne è il nascituro, la cui morte sconvolge la mente di Tamara, ospedalizz­ata, in crisi psicotica, sospetta incendiari­a, sempre più a un passo dalla parte della folle di paese. Fino a quando la donna non trova casualment­e l’essere, l’estraneo, il mutante e decide che si tratta del suo bimbo restituito­le da Dio: piccolo, indifeso, cieco, eppure capace di nutrirsi di latte e caramelle, e del calore degli abbracci, e che invece di avere deiezioni (molti contaminat­i dalle radiazioni venivano al mondo con la vescica o la vagina chiusa) essuda un misterioso liquido con cui restituisc­e alla terra ciò che gli è stato dato.

Come si snodi e sviluppi la vicenda — raccontata con mano ferma, perfetto equilibrio tra protagonis­ti e sfondo storico-naturale, alternanza disorienta­nte ma efficace dei piani temporali — non è lecito ovviamente svelarlo. Impossibil­e invece tacere l’impression­e che tutto quanto in questo romanzo è destinato a suscitare le reazioni del lettore — ripulsa, rabbia, commozione, perfino lo stupore — sia stato scelto, cercato, non sia venuto all’essere da sé. Capita oggi a molti altri scrittori: convocare l’abnorme, il tremendo, l’insopporta­bile, la decreazion­e come propria pezza d’appoggio. Lo scenario è così coerente che coerente appare anche l’incongruo, il non spiegato, il mon

strum, il punto cieco che dovrebbe mettere in crisi il matrimonio delittuoso tra spirito e natura, politica e ambiente, senso e corpo. La «cosa Alëšen’ka» era già implicita nelle premesse, ivi compresa la reazione di accudirla amorevolme­nte da parte di Tamara prima e di Vladimir poi: la tenerezza per il mostro è un topos di tanta narrativa e cinema. A differenza di E.T., però, Alëšen’ka non può telefonare a casa. Il nichilismo era già lì, l’aneddoto è venuto dopo. Viola Di Grado ha svolto il suo compito con la lucidità con cui si dimostra o si falsifica un teorema. Eleganteme­nte, certo. Ma è tutto qui. Manca una porta, non necessaria­mente aperta sulla salvezza. Ma che sia tutta, unicamente sua.

C’è un piccolo indifeso, cieco, eppure capace di nutrirsi di latte e caramelle, e del calore degli abbracci Viola Di Grado ambienta il suo romanzo in una città segreta dell’ex Urss, impestata dalla radioattiv­ità che contamina corpi e anime. Lì una giovane mamma rovinata dal dolore prova a immaginare una specie di futuro

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L’autrice Viola Di Grado (Catania, 1987) è al quarto romanzo. Esordì con Settanta acrilico trenta lana (e/o, 2011)
VIOLA DI GRADO Fuoco dal cielo LA NAVE DI TESEO Pagine 233, € 19 L’autrice Viola Di Grado (Catania, 1987) è al quarto romanzo. Esordì con Settanta acrilico trenta lana (e/o, 2011)

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