Corriere della Sera - La Lettura
Ho scelto un mostro Sarà lui mio figlio
Maturità è mantenere le promesse della propria giovinezza? O accorgersi che non si può che tradirle? O accogliere dentro di sé la consapevolezza che altri doveri e altri piaceri ci vengono incontro dal futuro, non inscritti in quel cerchio? O infine forzare la mano a ciò che si è divenuti, a ciò che si potrebbe divenire, per simulare volontariamente la sopravvivenza di ciò che in origine si era dato spontaneamente, ci aveva scelto più di quanto fosse stato scelto da noi?
Questi i pensieri che mi attraversavano la mente mentre leggevo Fuoco dal cielo, il nuovo romanzo di Viola Di Grado, classe 1987, che con Settanta acrilico trenta lana aveva esordito nel 2011, giovanissima ma già perfettamente armata e in sé compiuta, e aveva poi dato ampie conferme con le sue prove seguenti, in special modo Cuore cavo, del 2013. Fuoco dal cielo dà invece la sensazione di un ripiegamento rispetto alla violenza sacrificale con cui la lingua dell’autrice aggrediva una realtà scrutata nelle sue pieghe più dolorose perché era lì che si annidava anche l’occasione per la gioia dello stile; di un accanimento tutto di testa, intenzionale, di chi non vuole considerare altri bivi e altri slarghi possibili al suo universo narrativo: in poche parole, di una violenza presa a prestito. Risultato, una lingua meno inventiva, e una vicenda in cui anche le sorprese discendono necessariamente dai presupposti, in cui tutto il nocciolo poetico è già nel dato, nello spunto, nell’aneddoto.
Fuoco da cielo è ispirato a un fatto di cronaca, il ritrovamento, nel 1996, in un’infelice e sperduta regione tra gli Urali e la Siberia dove i sovietici avevano costruito una «città segreta» in cui si produceva plutonio e ci si ammalava e si moriva per decisione politica, di una creatura indecifrabile, forse un bimbo reso deforme dalle radiazioni, forse un mutante o un alieno. A questo essere, immagine di per sé fortissima dell’abbandono, della solitudine, della brutalità sulla vita e sulla natura che l’umanità è disposta a esercitare per far governo di sé stessa attraverso il terrore della morte, Viola Di Grado attribuisce dei genitori putativi, adottivi. Una madre Tamara, straziata dalla perdita di un figlio, Alëšen’ka, che lei stessa di fatto ha indotto a nascere morto perché nata e cresciuta in un villaggio, Musljomovo, satellite della città segreta, dove quasi tutti, a cominciare dai suoi genitori e dai bambini della scuola in cui insegna, muoiono o vivono storpi, contaminati, segnati, loro e la natura, i funghi, i pesci, il fiume dove vengono scaricate tonnellate di materiale radioattivo. E un
padre, Vladimir, giovane medico idealista, bello, beneducato, di buona famiglia moscovita, che ha preferito andare a fare l’infermiere in quell’anus mundi perché lì la gente ha davvero bisogno di lui, ed è specializzato nella comunicazione delle diagnosi infauste e dei decessi.
Tra Vladimir e Tamara è in corso una contesa di amour fou: passione, dolore, rabbia, lasciarsi e prendersi, violenze, minacce, ricatti, tenerezze, una claustrofobia affettiva che fa da correlativo oggettivo alla città maledetta, velenosa, pervertita rispetto ai suoi scopi e da cui non si può evadere. Né con te né senza di te. A scapitarne è il nascituro, la cui morte sconvolge la mente di Tamara, ospedalizzata, in crisi psicotica, sospetta incendiaria, sempre più a un passo dalla parte della folle di paese. Fino a quando la donna non trova casualmente l’essere, l’estraneo, il mutante e decide che si tratta del suo bimbo restituitole da Dio: piccolo, indifeso, cieco, eppure capace di nutrirsi di latte e caramelle, e del calore degli abbracci, e che invece di avere deiezioni (molti contaminati dalle radiazioni venivano al mondo con la vescica o la vagina chiusa) essuda un misterioso liquido con cui restituisce alla terra ciò che gli è stato dato.
Come si snodi e sviluppi la vicenda — raccontata con mano ferma, perfetto equilibrio tra protagonisti e sfondo storico-naturale, alternanza disorientante ma efficace dei piani temporali — non è lecito ovviamente svelarlo. Impossibile invece tacere l’impressione che tutto quanto in questo romanzo è destinato a suscitare le reazioni del lettore — ripulsa, rabbia, commozione, perfino lo stupore — sia stato scelto, cercato, non sia venuto all’essere da sé. Capita oggi a molti altri scrittori: convocare l’abnorme, il tremendo, l’insopportabile, la decreazione come propria pezza d’appoggio. Lo scenario è così coerente che coerente appare anche l’incongruo, il non spiegato, il mon
strum, il punto cieco che dovrebbe mettere in crisi il matrimonio delittuoso tra spirito e natura, politica e ambiente, senso e corpo. La «cosa Alëšen’ka» era già implicita nelle premesse, ivi compresa la reazione di accudirla amorevolmente da parte di Tamara prima e di Vladimir poi: la tenerezza per il mostro è un topos di tanta narrativa e cinema. A differenza di E.T., però, Alëšen’ka non può telefonare a casa. Il nichilismo era già lì, l’aneddoto è venuto dopo. Viola Di Grado ha svolto il suo compito con la lucidità con cui si dimostra o si falsifica un teorema. Elegantemente, certo. Ma è tutto qui. Manca una porta, non necessariamente aperta sulla salvezza. Ma che sia tutta, unicamente sua.
C’è un piccolo indifeso, cieco, eppure capace di nutrirsi di latte e caramelle, e del calore degli abbracci Viola Di Grado ambienta il suo romanzo in una città segreta dell’ex Urss, impestata dalla radioattività che contamina corpi e anime. Lì una giovane mamma rovinata dal dolore prova a immaginare una specie di futuro