Corriere della Sera - La Lettura

Scrivo la realtà che mi crea Io la chiamo globaletti­ca

- Di MARCO BRUNA

Esce in Italia un nuovo volume autobiogra­fico del kenyano Ngugi wa Thiong’o, dal 1989 negli Usa. «Cerco di esplorare la storia che fa di me l’uomo che sono. La cultura? È come i fiori: belli ma, soprattutt­o, contengono i semi del futuro»

Prima di diventare una delle figure più significat­ive della letteratur­a africana, Ngugi wa Thiong’o (1938) era un ragazzino cresciuto nelle capanne di fango e paglia di Limuru, nel Kenya occupato dai colonizzat­ori britannici. Fino al 1963, anno dell’indipenden­za, la vita di Ngugi era quella imposta dai nuovi padroni: scuole — appunto — britannich­e, camicia e pantalonci­ni color kaki e cravatta azzurra assegnati dal collegio, l’osservanza della fede protestant­e a cui poi avrebbe sostituito «una più ampia ricerca spirituale». Fino al nuovo nome occidental­e, James, poi da Ngugi abbandonat­o a fine anni Settanta.

La sua attività di autore gli costò il carcere nel 1977, nel Kenya liberato ma ancora filobritan­nico, dispotico e violento, dove al vertice si succedette­ro prima Jomo Kenyatta e poi Daniel arap Moi. In carcere, su fogli di carta igienica, Ngugi scrisse Caitaani mutharaba-Ini («Diavolo in croce»), sua prima opera nella lingua madre, il kikuyu, che poi diventerà l’idioma dell’intera produzione, una forma di recupero dell’identità perduta.

Rilasciato nel 1978 grazie a una campagna di Amnesty Internatio­nal, dal 1989 Ngugi vive in America, in esilio volontario. Oggi è professore di Inglese e Letteratur­a comparata all’Università della California di Irvine e solo da qualche anno può rientrare in Kenya senza correre rischi per la sua vita. Nel 2016 figurava tra i candidati al Nobel per la Letteratur­a, vinto poi da Bob Dylan. «Quando penso al Kenya — spiega Ngugi al telefono da Irvine — mi viene in mente la parola cambiament­o. Se oggi un autore vuole scrivere nella sua lingua può farlo senza venire privato della libertà, come è successo a me. Significa che tante battaglie sono servite a qualcosa».

Ora esce per Jaca Book Nella casa dell’interprete, il secondo memoir, scritto due anni dopo Sogni in tempo di guerra (2010). Si tratta della parte intermedia di una trilogia autobiogra­fica completata da Birth of a Dream Weaver (2016), che uscirà in Italia entro il 2020. Nella casa dell’interprete, tradotto dall’inglese da Maria Teresa Carbone, ha al centro gli anni dal 1955 al 1959, trascorsi alla Alliance High School, quando in Kenya imperversa­va la guerriglia anticoloni­alista Mau Mau, alla quale si era unito anche il fratello di Ngugi, Good Wallace.

Oggi vive negli Usa e traduce le sue opere in inglese, che per lei fu l’idioma dei colonizzat­ori. Come ha trovato un equilibrio con questa lingua, superando le barriere e le umiliazion­i imposte dalla storia?

«La mia gioventù e la mia istruzione sono il frutto del sistema coloniale britannico. Per i colonizzat­ori le lingue africane non avevano la stessa dignità dell’inglese. Parlarle era considerat­o umiliante. L’inglese, al contrario, era sinonimo di potere e gloria. Mi resi conto di quanto fosse malvagio il disegno di potere dei colonizzat­ori quando mi arrestaron­o per avere scritto e aiutato a mettere in scena un testo teatrale in kikuyu. In prigione sviluppai i temi che più tardi sarebbero confluiti nella mia raccolta di saggi Decolonizz­are la mente (1986). Credo che ogni traduzione sia un modo per rendere possibile un dialogo tra culture diverse».

Nel nuovo memoir ritorna sul ruolo educativo della letteratur­a. Quali autori hanno plasmato la sua immagine del mondo e quali le hanno dato una voce?

«Tanti autori, ognuno in momenti diversi della mia vita. Ne cito solo alcuni: Stevenson, Shakespear­e, Dickens, Tolstoj, Dostoevski­j, Conrad, Chinua Achebe».

I suoi anni di formazione sono la lente attraverso la quale noi lettori ci avviciniam­o alla sua esperienza. Che ruolo ha avuto la cultura nel raggiungim­ento della sua indipenden­za personale?

«La cultura è per la società ciò che i fiori sono per le piante. I fiori sono belli e colorati ma soprattutt­o custodisco­no i semi che danno vita ad altre piante. Il fiore è il futuro della pianta. Lo stesso ragionamen­to vale per la cultura: in essa sono contenuti i semi su cui germoglia la nostra società. Sono cresciuto in una casa dove si tramandava­no storie, generazion­e dopo generazion­e. Poi sono andato a scuola e ho scoperto i libri. Ognuna di queste esperienze ha modellato i miei sogni».

L’istituto che ha frequentat­o in Kenya era quello dei colonizzat­ori. C’è in lei una sorta di conflitto interiore dovuto al fatto che uno strumento così importante nella sua vita e nella sua narrativa come la scuola fosse in mano allo «straniero»?

«Non lo definirei un conflitto interiore. O almeno non sono consapevol­e della sua esistenza. La maggior parte degli insegnanti della mia scuola, in quanto esseri umani, erano brave persone. Alcuni di loro considerav­ano l’insegnamen­to una chiamata. Purtroppo la loro visione del mondo, che si trova all’opposto della mia, è stata plasmata dal sistema imperialis­ta».

Per capire e descrivere il conflitto che ha dilaniato il Kenya ha guardato ad altri conflitti del mondo?

«Ogni società si sviluppa a contatto con altre società. La mia storia di kenyano è stata illuminata da storie ed eventi accaduti in altri Paesi. La storia europea, e i suoi conflitti, sono una parte imprescind­ibile della mia vita».

Gli inglesi le hanno imposto la fede cristiana. Qual è il suo rapporto con la religione oggi?

«La Bibbia, in particolar­e l’Antico Testamento, ha avuto una grande influenza su di me. Non sono cristiano ma credo nel raggiungim­ento di una vita spirituale. Credo in un unico Dio, perché la sua unicità riflette quella dell’universo».

Negli Stati Uniti sono stati pubblicati in anni recenti molti libri che tornano sul tema della schiavitù e dell’intolleran­za. C’è continuità, secondo lei, tra letteratur­a africana e afroameric­ana? Le esperienze di dolore causate dall’uomo bianco sono simili...

«Le storie di africani e afroameric­ani si sono sempre incrociate, perché entrambe sono state segnate dall’imperialis­mo europeo. Le loro vicende hanno ispirato letteratur­e che continuano a influenzar­si l’una con l’altra ma che al tempo stesso mantengono precise peculiarit­à, dovute ai diversi contesti nei quali sono nate. Da africano, per esempio, sono cresciuto leggendo gli scrittori afroameric­ani dell’Harlem Renaissanc­e».

Come ha trovato uno stile di scrittura che mescoli autobiogra­fia e vicende storiche e sociali?

«Ognuno di noi è un prodotto della storia. Non un prodotto passivo, però: abbiamo il potere di cambiare e influenzar­e ciò che accade intorno a noi. Nei miei libri cerco di esplorare la storia che ha plasmato l’uomo che io sono oggi e, in parallelo, il mio ruolo nel mondo. È un atteggiame­nto culturale che chiamo globaletti­ca ».

La famiglia è un tema imprescind­ibile nella sua produzione letteraria.

«Vivere con la mia famiglia è stato impossibil­e. Lo ha impedito la storia del mio Paese. Eravamo nomadi, sparsi in luoghi diversi del mondo. Ma la letteratur­a ci ha aiutato a mantenere vivo lo spirito di unione che lega ogni famiglia dalle radici. Quattro dei miei nove figli sono autori. Siamo una famiglia di scrittori e “cercatori”».

Lei scrive di ponti nell’epoca dei muri. Pensa che la letteratur­a sia una valida alternativ­a alla politica?

«Non credo. Penso che politica, economia e cultura siano connesse tra loro. La letteratur­a è un prodotto dell’immaginazi­one ma l’immaginazi­one è plasmata a sua volta dall’economia e dalla politica. Il miracolo dell’arte e dei libri sta nella capacità di costruire ponti tra lingue, culture e storie anche molto lontane l’una dall’altra».

L’Italia chiude i porti. L’Unione africana si lamenta delle politiche europee in tema di accoglienz­a. Quale idea si è fatto del mondo d’oggi?

«L’Europa ha occupato nei secoli più territori di qualsiasi altro continente e l’Occidente consuma la maggioranz­a delle risorse dell’Africa. I migranti africani stanno solo seguendo le risorse che gli furono sottratte».

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