Corriere della Sera - La Lettura
Tiranno l’omicidio del
Anche se oggi la condanna della violenza politica è quasi unanime, il concetto di tirannicidio trova ancora consensi. Si dice per esempio che sarebbe stato provvidenziale un attentato che eliminasse Adolf Hitler negli anni Trenta. Per approfondire la questione ci siamo rivolti all’antichista Luciano Canfora, che terrà una conferenza sul tirannicidio al Festival Lezioni di Storia a Napoli, al politologo Luigi Curini e al sociologo Luigi Manconi.
LUCIANO CANFORA — Tra i sostenitori del tirannicidio, in casi gravi, c’era anche Tommaso d’Aquino, padre del pensiero scolastico cattolico, quindi nel nostro dibattito siamo in buona compagnia. Per me il primo punto è che le generalizzazioni non servono, bisogna esaminare le situazioni caso per caso. E il secondo punto è che non è facile definire il tiranno. Nell’antichità i «tiranni» dell’isola di Lesbo contro cui si scaglia il poeta Alceo, che gioisce quando vengono uccisi, cercavano in realtà di sedare i conflitti tra le famiglie aristocratiche. Il «tiranno» Pisistrato ad Atene era un capo popolare. A Roma Bruto e Cassio eliminano Cesare, che a loro avviso era un tiranno, e così innescano altri lunghi anni di terribile guerra civile. Anche su un’eventuale uccisione del Führer ho dei dubbi. La volontà bellicista di Hitler era implacabile, ma attorno a lui c’erano persone che avrebbero proseguito la sua politica, il che induce a smorzare gli entusiasmi su un eventuale attentato riuscito.
LUIGI CURINI — È fondamentale precisare che cosa intendiamo per tiranno. La definizione più condivisibile, nell’epoca presente, rinvia a un uso crudele e dispotico del potere pubblico: tiranno è chi usa l’apparato statale contro la popolazione, o parte di essa, per violare i diritti umani. Chiarito questo, bisogna capire se si può ritenere legittimo un tirannicidio, cioè un’azione letale compiuta da un individuo o da un gruppo che non intende prendere il posto del governante ucciso (in caso contrario parleremmo di colpo di Stato). Io penso che sia accettabile solo un tirannicidio «minimalista», che limiti la sua arbitrarietà sulla base di due elementi: innanzitutto occorre un criterio oggettivo per individuare i crimini del despota che giustifichino una reazione violenta; in secondo luogo bisogna che questo criterio abbia una portata universale, sia applicabile in qualunque luogo o epoca storica. Soltanto così si può legittimare un atto omicida evitando il rischio di dare via libera a forme di aggressione in ogni sistema politico. Secondo me un criterio sensato è quello di autodifesa, fondato sull’analogia tra la violenza di Stato e quella interpersonale di un’aggressione delittuosa. Però c’è anche il problema sollevato da Canfora nel caso di Cesare: le conseguenze del tirannicidio. Lo si può legittimare, come sosteneva il gesuita spagnolo Juan de Mariana, se produce un miglioramento nelle condizioni di vita della popolazione sottoposta al regime dispotico. In caso contrario la via dell’inferno potrebbe rivelarsi lastricata di «buoni tirannicidi».
LUIGI MANCONI — Io insisterei sulla distinzione tra efficacia, consequenzialità e moralità. Nella storia del pensiero c’è una corrente robusta di «monarcomachi» che sostiene la legittimità del tirannicidio anche con argomenti teologici: sono teorie che attrassero cattolici e protestanti, compreso il cardinale Roberto Bellarmino, protagonista dei processi a Giordano Bruno e Galileo. Se guardiamo però alle conseguenze di questa visione in epoca contemporanea, constatiamo che sono state spesso crudeli e perverse. Un esempio estremo: il giorno dopo l’assassinio di Aldo Moro, il capo storico delle Brigate rosse Renato Curcio, imputato a Torino, definì quel delitto «il più alto atto di umanità possibile in una società divisa in classi». Qui ci si sottrae a qualunque criterio di definizione di che cosa sia un tiranno, tanto che persino Moro viene scambiato per tale, e al tempo stesso si arriva a definire il suo omicidio un’azione etica. Per quanto riguarda le conseguenze, è giusta l’esortazione di Canfora a valutare caso per caso. Credo anch’io che l’eventuale uccisione di Hitler — tentata fra l’altro da oppositori alcuni dei quali avevano forti motivazioni religiose — non avrebbe migliorato la situazione della Germania né bloccato i progetti aggressivi del nazismo. Ma ci sono esempi diversi: l’uccisione del primo ministro
Forse è inutile. Forse è addirittura dannoso. Ma soprattutto: che cosa e chi definisce una tirannia? Ne discutono un antichista, un politologo e un sociologo. Perché una cosa è certa: la violazione dei diritti umani è un dato di partenza; la repressione di alcune libertà o alcuni gruppi etnici è un altro dato di partenza. Questo vuol dire che Erdogan (appena battuto nel voto delle metropoli turche) è un tiranno? O che lo sono Putin e Orbán (eletti con vasto consenso popolare)? Forse, più che sul tirannicidio, conviene riflettere su come battere i regimi liberticidi. Attenti però: Robespierre ne sapeva più di Bush, non si esporta la democrazia
spagnolo Luis Carrero Blanco da parte dei terroristi baschi dell’Eta, nel 1973, mi pare abbia influito positivamente nell’abbreviare la durata della dittatura franchista.
LUCIANO CANFORA — Dire che chi viola i diritti umani ricade nella categoria del tiranno serve fino a un certo punto. Guardiamo all’Arabia Saudita, pilastro delle alleanze occidentali. Qui la popolazione femminile è calpestata e umiliata, ma mi pare un esercizio sterile analizzare la situazione definendo tiranni i monarchi che di volta in volta regnano a Riad. Non voglio arrivare alla visione un po’ cinica del filosofo inglese Thomas Hobbes, secondo il quale il tiranno non è altro che il re visto dai suoi nemici, ma certo la parola è inflazionata, ormai quasi inutile. Anche Renzo, durante la rivolta per il pane nei Promessi sposi, invoca la morte per i «tiranni» che affamano il popolo. E nella Marsigliese si dice che i tiranni devono tremare. Ma nessuno ha il prontuario per identificare la tirannide. Non vorrei far rientrare in questa categoria anche George W. Bush, intellettualmente modesto e responsabile nel 2003 della disastrosa guerra all’Iraq, che nel 2000 fu eletto presidente degli Stati Uniti con modalità suscettibili di fondate contestazioni circa la conta dei voti. Il vero punto da tenere presente è che ogni «tiranno» ha dietro di sé una base sociale più o meno estesa, che domina sul resto della comunità. Quindi il problema non è eliminare fisicamente il despota, ma sconfiggere politicamente il sistema di potere che lo sorregge.
LUIGI CURINI — «Tiranno» è di certo una parola abusata. E George W. Bush si può definire tale solo per fare una battuta in chiave ideologica. Può essere utile invece riferirsi alla Dichiarazione universale dei diritti umani adottata nel 1948 dalle Nazioni Unite, in particolare all’articolo 3, che riguarda il diritto alla vita. Quando il potere minaccia la libertà personale e l’esistenza stessa dei governati, si può parlare di tirannide e si afferma quindi il diritto di resistenza del popolo, previsto anche dalla Magna Charta inglese del 1215 e dalla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, approvata nel 1776. Giusto per fare un nome, il leader della Corea del Nord Kim Jong-un è chiaramente un tiranno. Questo rende plausibile discutere circa la legittimità di un attentato nei suoi confronti, anche se la soluzione ideale rimane una sconfitta del suo regime per via politica. Nel libro di Stephen King La zona morta il protagonista, dopo un coma di cinque anni, acquisisce la capacità di conoscere il futuro delle persone toccando loro la mano. In questo modo viene a sapere che un politico diventerà presidente degli Stati Uniti e commetterà enormi crimini. Nasce in lui il dilemma se uccidere il futuro tiranno, ma quando si decide a farlo, manca il bersaglio con il suo fucile. Solo che il politico, a quel punto, per proteggersi da un eventuale secondo sparo, usa come scudo umano un bambino che gli aveva chiesto l’autografo e viene fotografato in quella posa disonorevole, che gli stronca la carriera. King ci dà una bella lezione nel senso indicato da Canfora. Non è la volenza fisica, ma il discredito politico l’arma più efficace contro la tirannia. LUIGI MANCONI — Il complesso dei diritti umani internazionalmente riconosciuti segna un confine oltre il quale si può definire con sufficiente precisione la manifestazione del dispotismo. Ma proprio per questo oggi la figura del dittatore va vista nel contesto del suo regime. Non bisogna concentrarsi sull’antropologia del tiranno, o sulla personalità del singolo dittatore, ma sul sistema che lo esprime. È il caso dei due esempi finora citati, Arabia Saudita e Corea del Nord, molto diversi tra loro e tuttavia accomunati da un’analoga mancanza di libertà. Ma vale anche per i Paesi nei quali sembrano in corso processi degenerativi di segno antidemocratico. Per esempio nell’Ungheria del primo ministro Viktor Orbán, accusato di soffocare la libertà, un eventuale tirannicidio immagino avrebbe scarsissimo effetto. Molto più importante è formulare giudizi ben fondati sull’involuzione in corso a Budapest, che mette in discussione alcuni diritti fondamentali. Non conta tanto la figura di Orbán, quanto il manifestarsi di un regime ibrido, per il quale è stata coniata la definizione, a mio avviso piuttosto debole, di «democratura», a indicare un misto di democrazia e dittatura. Lo stesso vale per la Turchia, dove il presidente Recep Erdogan ha assunto misure liberticide, ma ha anche appena subito pesanti sconfitte alle elezioni amministrative nelle due città più importanti del Paese. Il che dimostra di nuovo che il tiranno, o aspirante tale, non va ucciso, ma battuto sul piano politico. LUCIANO CANFORA — I fatti storici non si prestano a generalizzazioni rigide. Trovo completamente fuori luogo parlare di tirannide a proposito di Erdogan, del russo Vladimir Putin o addirittura di Orbán. Ognuno di loro ha avuto un vasto consenso popolare che s’inquadra nella storia del rispettivo Paese. Bandirei la parola tiranno in questi casi, così come avanzerei seri dubbi circa l’efficacia del tirannicidio anche in un caso come quello di Carrero Blanco: il franchismo all’inizio degli anni Settanta era ormai arrivato al capolinea, perciò non sopravvaluterei l’effetto di quell’attentato spettacolare. Lo stesso, ad esempio, vale per il regicidio compiuto a Monza da Gaetano Bresci nel 1900. Non fu l’uccisione del sovrano Umberto I da parte del militante anarchico a chiudere la reazione italiana di fine Ottocento e ad aprire la strada al liberale Giovanni Giolitti, ma un complesso di movimenti politici e sociali che aveva trovato nella rivolta di Milano del 1898, repressa nel sangue, la sua maggiore espressione. Una cosa è l’attentato isolato ordito da pochi congiurati, un’altra i moti rivoluzionari, che comportano anch’essi l’uso della violenza, ma hanno ben altra portata e assai di più incidono nella storia. Del resto anche il primo tirannicidio celebrato come tale, quello ateniese del VI secolo avanti Cristo, tirannicidio non era. Non fu ucciso il tiranno in carica Ippia, ma suo fratello Ipparco; non per motivi politici, ma per una bega privata. Fu la democrazia ateniese a inventare più tardi una versione artefatta e retorica degli eventi, smentita dagli storici Erodoto e Tucidide.
LUIGI CURINI — Credo anch’io che sia sbagliato qualificare Erdogan, Putin e Orbán come tiranni. Si può discutere se l’Ungheria sia una democrazia in transizione verso qualche altra forma di sistema politico, ma certo non la possiamo considerare adesso un Paese dittatoriale. Quanto all’esito dei tirannicidi, forse il professor Canfora inorridirà, ma noi scienziati politici cerchiamo di trarre delle generalizzazioni da lunghe serie di dati che presentano ricorrenze. Ho verificato quanti sono stati i tentativi effettuati (non semplici progetti) di assassinare un leader politico dal 1875 al 2004. Si tratta di circa 300 casi in cui è stata usata un’arma (nel 55 per cento dei casi) o una bomba. Solo un attentato su cinque ha avuto successo e la probabilità che venga preso di mira il leader di un Paese dispotico è del 30 per cento superiore rispetto ai governanti degli Stati democratici. Per quanto riguarda le conseguenze, l’assassinio di un leader liberamente eletto di solito non modifica la natura del regime, mentre l’omicidio di un dittatore aumenta, da una parte, il livello di conflittualità nel Paese interessato, e dall’altra ne incentiva l’evoluzione in un senso favorevole alla libertà. Secondo uno studio recente una dittatura il cui leader viene ucciso ha il 13 per cento di possibilità in più di diventare una democrazia nell’anno successivo all’attentato. Quindi se gli omicidi non hanno mai cambiato la storia del mondo, come diceva il primo ministro britannico Benjamin Disraeli, tuttavia un attentato può modificare la traiettoria di uno Stato, perché il destino di una singola personalità può influire parecchio in certi contesti. E in situazioni del genere circostanze del tutto casuali possono avere ricadute decisive. In fondo Hitler sfuggì alla bomba collocata nella birreria di Monaco dall’attentatore Georg Elser perché lasciò il locale in anticipo, per un cambio di programma improvviso dovuto alle condizioni meteorologiche. Era l’8 novembre 1939: anche se la guerra era già cominciata, la morte del Führer avrebbe certo influito sul suo corso.
LUIGI MANCONI — Torniamo a Carrero Blanco. Non sappiamo che cosa sarebbe accaduto se non fosse stato eliminato, ma il suo mi pare l’ultimo tirannicidio che abbia prodotto effetti in un Paese occidentale, se non altro nell’accelerare la transizione della Spagna alla democrazia. Però oggi non vedo la possibilità di indicare, nel mondo intero, una situazione in cui il tirannicidio possa rivelarsi determinante. Nessuno può immaginare che l’uccisione del presidente cinese Xi Jinping, impresa certo difficilissima, possa avere effetti positivi, anche per il vasto consenso di cui gode un regime che pure presenta forti tratti tirannici per il modo in cui reprime le minoranze ed esclude ogni pluralismo politico. Allora forse conviene mettere da parte la categoria del tirannicidio e indagare con maggiore attenzione e severità le vicende di Stati in preda a derive liberticide. Anche qui vanno però evitate le generalizzazioni. Per quanto si possa criticare Orbán, l’Ungheria resta molto diversa dalla Turchia. Erdogan ha fatto arrestare giornalisti, colpito parlamentari eletti, rilanciato la repressione violenta contro i curdi: il fatto che riscuota tuttora larghi consensi nulla toglie alla sua vocazione autoritaria, anche se l’opposizione mantiene spazi d’azione e strappa successi. Insomma, la difficoltà di definire in modo rigoroso e limpido i tiranni di oggi non deve impedirci di denunciare quanto accade in Paesi a noi vicini, con cui a volte abbiamo relazioni molto strette. Penso all’Egitto, di cui mi sono occupato per via dell’assassinio di Giulio Regeni: uno Stato che da decenni è sempre guidato da capi militari in forme autoritarie.
LUCIANO CANFORA — Bisogna però guardarsi dall’idea di «esportare la democrazia». Nell’aprile 1792, ai girondini francesi smaniosi di dichiarare guerra all’Austria e alla Prussia per far trionfare in quei Paesi le idee rivoluzionarie, Maximilien Robespierre replicò che «i popoli non amano i missionari armati». Poi gli eserciti repubblicani piantarono gli alberi della libertà nei territori conquistati, ma si trattava in sostanza di un imperialismo francese ideologicamente travestito. Credo che il
monito di Robespierre vada tenuto presente. Non vale solo per gli interventi militari ma anche per le sanzioni economiche. Quelle decretate contro l’Italia per l’invasione dell’Etiopia rafforzarono il fascismo piuttosto che indebolirlo. Si obietta che la Seconda guerra mondiale permise di abbattere i regimi di Hitler e Mussolini, ma bisogna ricordare che l’entrata in guerra degli Stati Uniti fu possibile solo dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, grazie all’abilità del presidente Franklin Roosevelt nell’indirizzare un’opinione pubblica in maggioranza neutralista. Gli appelli a portare la libertà nel mondo sono di solito parole vuote, che mascherano interessi concreti e spesso producono esiti disastrosi. LUIGI CURINI — La guerra degli Stati Uniti all’Iraq nel 2003 venne in effetti dichiarata con l’intento di esportare la libertà. Il presidente George W. Bush evocò i cambiamenti di regime imposti alla Germania e al Giappone dopo il 1945, nonostante la presenza in quei Paesi di culture che «molti ritenevano fossero incapaci di sostenere la democrazia».
LUCIANO CANFORA — Ma come poteva dirlo? La Repubblica di Weimar era stata un modello di democrazia in Europa e anche nella Germania imperiale c’era il suffragio universale maschile.
LUIGI CURINI — Al di là di queste forzature, all’epoca si sviluppò un dibattito che indusse a verificare i casi — una quarantina nel corso di due secoli — in cui c’era stato il tentativo di imporre un cambiamento di regime da parte di invasori democratici. Gli esiti risultano abbastanza deludenti. Raramente i Paesi occupati diventano democrazie: per gli invasori è assai più semplice e meno costoso installare al potere un altro dittatore accomodante, piuttosto che garantire la vittoria elettorale di un candidato amico. Il voto popolare è sempre incerto e può risultare controproducente se vincono forze come gli integralisti islamici che s’imposero in Egitto nel 2012. I pochi casi nei quali l’esportazione della libertà ha avuto successo sono quelli in cui gli invasori hanno investito ingenti risorse ed esistevano presupposti favorevoli: una precedente esperienza democratica, un sufficiente sviluppo economico, un basso livello di eterogeneità etnica. In contesti diversi l’intervento militare esterno non facilita la transizione democratica, semmai accentua il rischio di guerra civile. Conclusione: l’uso delle armi non è efficace. Se si vuole espandere la democrazia nel mondo bisogna ricorrere a strumenti politici: sostegno alle opposizioni, aiuti economici condizionati, tentativi di sviluppare la società civile in realtà che la vedono debole e oppressa. Sono strumenti ben più costosi del drone che uccide un dittatore, ma sicuramente più utili.
LUIGI MANCONI — Alle tre precondizioni ricordate da Curini per l’efficacia di un intervento militare «democratico» dall’esterno, ne aggiungerei molte altre, anche più rigorose. Io in passato ho appoggiato in rare circostanze operazioni del genere, di fronte a gravi emergenze umanitarie non altrimenti rimediabili. Mi riferisco alla vicenda del Kosovo. Oggi sono molto più prudente. L’azione occidentale in Libia è stata un completo fallimento, mentre forse in Siria si poteva fare di più per sostenere con la necessaria accortezza i curdi, la cui mobilitazione armata si accompagna a un interessante processo di sviluppo democratico. Quanto alle modalità d’intervento non militare le vedo molto difficili da realizzare, ma comunque degne di essere perseguite. Purtroppo spesso si scontrano con priorità di natura economica e strategica. Pensiamo al già citato delitto Regeni, che non riguarda solo un nostro connazionale, ma evoca il destino di tantissimi egiziani torturati e uccisi. L’Italia ha dovuto fare i conti con il ruolo geopolitico cruciale che gioca il regime di Al Sisi, intimamente coinvolto nell’omicidio e deciso a nascondere la verità, contro il fondamentalismo islamico. Così il nostro Paese è mancato ai suoi doveri. I governi di centrosinistra sono rimasti inerti, quello attuale, con diverse visite di Stato, ha addirittura mostrato una notevole promiscuità con il regime del Cairo. Ne emerge una lezione terribile: l’incapacità delle democrazie di evitare che nei rapporti internazionali la tutela dei diritti umani finisca all’ultimo posto rispetto a esigenze di altra natura.