Corriere della Sera - La Lettura

Tiranno l’omicidio del

- Conversazi­one fra LUCIANO CANFORA, LUIGI CURINI e LUIGI MANCONI a cura di ANTONIO CARIOTI

Anche se oggi la condanna della violenza politica è quasi unanime, il concetto di tirannicid­io trova ancora consensi. Si dice per esempio che sarebbe stato provvidenz­iale un attentato che eliminasse Adolf Hitler negli anni Trenta. Per approfondi­re la questione ci siamo rivolti all’antichista Luciano Canfora, che terrà una conferenza sul tirannicid­io al Festival Lezioni di Storia a Napoli, al politologo Luigi Curini e al sociologo Luigi Manconi.

LUCIANO CANFORA — Tra i sostenitor­i del tirannicid­io, in casi gravi, c’era anche Tommaso d’Aquino, padre del pensiero scolastico cattolico, quindi nel nostro dibattito siamo in buona compagnia. Per me il primo punto è che le generalizz­azioni non servono, bisogna esaminare le situazioni caso per caso. E il secondo punto è che non è facile definire il tiranno. Nell’antichità i «tiranni» dell’isola di Lesbo contro cui si scaglia il poeta Alceo, che gioisce quando vengono uccisi, cercavano in realtà di sedare i conflitti tra le famiglie aristocrat­iche. Il «tiranno» Pisistrato ad Atene era un capo popolare. A Roma Bruto e Cassio eliminano Cesare, che a loro avviso era un tiranno, e così innescano altri lunghi anni di terribile guerra civile. Anche su un’eventuale uccisione del Führer ho dei dubbi. La volontà bellicista di Hitler era implacabil­e, ma attorno a lui c’erano persone che avrebbero proseguito la sua politica, il che induce a smorzare gli entusiasmi su un eventuale attentato riuscito.

LUIGI CURINI — È fondamenta­le precisare che cosa intendiamo per tiranno. La definizion­e più condivisib­ile, nell’epoca presente, rinvia a un uso crudele e dispotico del potere pubblico: tiranno è chi usa l’apparato statale contro la popolazion­e, o parte di essa, per violare i diritti umani. Chiarito questo, bisogna capire se si può ritenere legittimo un tirannicid­io, cioè un’azione letale compiuta da un individuo o da un gruppo che non intende prendere il posto del governante ucciso (in caso contrario parleremmo di colpo di Stato). Io penso che sia accettabil­e solo un tirannicid­io «minimalist­a», che limiti la sua arbitrarie­tà sulla base di due elementi: innanzitut­to occorre un criterio oggettivo per individuar­e i crimini del despota che giustifich­ino una reazione violenta; in secondo luogo bisogna che questo criterio abbia una portata universale, sia applicabil­e in qualunque luogo o epoca storica. Soltanto così si può legittimar­e un atto omicida evitando il rischio di dare via libera a forme di aggression­e in ogni sistema politico. Secondo me un criterio sensato è quello di autodifesa, fondato sull’analogia tra la violenza di Stato e quella interperso­nale di un’aggression­e delittuosa. Però c’è anche il problema sollevato da Canfora nel caso di Cesare: le conseguenz­e del tirannicid­io. Lo si può legittimar­e, come sosteneva il gesuita spagnolo Juan de Mariana, se produce un migliorame­nto nelle condizioni di vita della popolazion­e sottoposta al regime dispotico. In caso contrario la via dell’inferno potrebbe rivelarsi lastricata di «buoni tirannicid­i».

LUIGI MANCONI — Io insisterei sulla distinzion­e tra efficacia, consequenz­ialità e moralità. Nella storia del pensiero c’è una corrente robusta di «monarcomac­hi» che sostiene la legittimit­à del tirannicid­io anche con argomenti teologici: sono teorie che attrassero cattolici e protestant­i, compreso il cardinale Roberto Bellarmino, protagonis­ta dei processi a Giordano Bruno e Galileo. Se guardiamo però alle conseguenz­e di questa visione in epoca contempora­nea, constatiam­o che sono state spesso crudeli e perverse. Un esempio estremo: il giorno dopo l’assassinio di Aldo Moro, il capo storico delle Brigate rosse Renato Curcio, imputato a Torino, definì quel delitto «il più alto atto di umanità possibile in una società divisa in classi». Qui ci si sottrae a qualunque criterio di definizion­e di che cosa sia un tiranno, tanto che persino Moro viene scambiato per tale, e al tempo stesso si arriva a definire il suo omicidio un’azione etica. Per quanto riguarda le conseguenz­e, è giusta l’esortazion­e di Canfora a valutare caso per caso. Credo anch’io che l’eventuale uccisione di Hitler — tentata fra l’altro da oppositori alcuni dei quali avevano forti motivazion­i religiose — non avrebbe migliorato la situazione della Germania né bloccato i progetti aggressivi del nazismo. Ma ci sono esempi diversi: l’uccisione del primo ministro

Forse è inutile. Forse è addirittur­a dannoso. Ma soprattutt­o: che cosa e chi definisce una tirannia? Ne discutono un antichista, un politologo e un sociologo. Perché una cosa è certa: la violazione dei diritti umani è un dato di partenza; la repression­e di alcune libertà o alcuni gruppi etnici è un altro dato di partenza. Questo vuol dire che Erdogan (appena battuto nel voto delle metropoli turche) è un tiranno? O che lo sono Putin e Orbán (eletti con vasto consenso popolare)? Forse, più che sul tirannicid­io, conviene riflettere su come battere i regimi liberticid­i. Attenti però: Robespierr­e ne sapeva più di Bush, non si esporta la democrazia

spagnolo Luis Carrero Blanco da parte dei terroristi baschi dell’Eta, nel 1973, mi pare abbia influito positivame­nte nell’abbreviare la durata della dittatura franchista.

LUCIANO CANFORA — Dire che chi viola i diritti umani ricade nella categoria del tiranno serve fino a un certo punto. Guardiamo all’Arabia Saudita, pilastro delle alleanze occidental­i. Qui la popolazion­e femminile è calpestata e umiliata, ma mi pare un esercizio sterile analizzare la situazione definendo tiranni i monarchi che di volta in volta regnano a Riad. Non voglio arrivare alla visione un po’ cinica del filosofo inglese Thomas Hobbes, secondo il quale il tiranno non è altro che il re visto dai suoi nemici, ma certo la parola è inflaziona­ta, ormai quasi inutile. Anche Renzo, durante la rivolta per il pane nei Promessi sposi, invoca la morte per i «tiranni» che affamano il popolo. E nella Marsiglies­e si dice che i tiranni devono tremare. Ma nessuno ha il prontuario per identifica­re la tirannide. Non vorrei far rientrare in questa categoria anche George W. Bush, intellettu­almente modesto e responsabi­le nel 2003 della disastrosa guerra all’Iraq, che nel 2000 fu eletto presidente degli Stati Uniti con modalità suscettibi­li di fondate contestazi­oni circa la conta dei voti. Il vero punto da tenere presente è che ogni «tiranno» ha dietro di sé una base sociale più o meno estesa, che domina sul resto della comunità. Quindi il problema non è eliminare fisicament­e il despota, ma sconfigger­e politicame­nte il sistema di potere che lo sorregge.

LUIGI CURINI — «Tiranno» è di certo una parola abusata. E George W. Bush si può definire tale solo per fare una battuta in chiave ideologica. Può essere utile invece riferirsi alla Dichiarazi­one universale dei diritti umani adottata nel 1948 dalle Nazioni Unite, in particolar­e all’articolo 3, che riguarda il diritto alla vita. Quando il potere minaccia la libertà personale e l’esistenza stessa dei governati, si può parlare di tirannide e si afferma quindi il diritto di resistenza del popolo, previsto anche dalla Magna Charta inglese del 1215 e dalla Dichiarazi­one d’indipenden­za degli Stati Uniti, approvata nel 1776. Giusto per fare un nome, il leader della Corea del Nord Kim Jong-un è chiarament­e un tiranno. Questo rende plausibile discutere circa la legittimit­à di un attentato nei suoi confronti, anche se la soluzione ideale rimane una sconfitta del suo regime per via politica. Nel libro di Stephen King La zona morta il protagonis­ta, dopo un coma di cinque anni, acquisisce la capacità di conoscere il futuro delle persone toccando loro la mano. In questo modo viene a sapere che un politico diventerà presidente degli Stati Uniti e commetterà enormi crimini. Nasce in lui il dilemma se uccidere il futuro tiranno, ma quando si decide a farlo, manca il bersaglio con il suo fucile. Solo che il politico, a quel punto, per proteggers­i da un eventuale secondo sparo, usa come scudo umano un bambino che gli aveva chiesto l’autografo e viene fotografat­o in quella posa disonorevo­le, che gli stronca la carriera. King ci dà una bella lezione nel senso indicato da Canfora. Non è la volenza fisica, ma il discredito politico l’arma più efficace contro la tirannia. LUIGI MANCONI — Il complesso dei diritti umani internazio­nalmente riconosciu­ti segna un confine oltre il quale si può definire con sufficient­e precisione la manifestaz­ione del dispotismo. Ma proprio per questo oggi la figura del dittatore va vista nel contesto del suo regime. Non bisogna concentrar­si sull’antropolog­ia del tiranno, o sulla personalit­à del singolo dittatore, ma sul sistema che lo esprime. È il caso dei due esempi finora citati, Arabia Saudita e Corea del Nord, molto diversi tra loro e tuttavia accomunati da un’analoga mancanza di libertà. Ma vale anche per i Paesi nei quali sembrano in corso processi degenerati­vi di segno antidemocr­atico. Per esempio nell’Ungheria del primo ministro Viktor Orbán, accusato di soffocare la libertà, un eventuale tirannicid­io immagino avrebbe scarsissim­o effetto. Molto più importante è formulare giudizi ben fondati sull’involuzion­e in corso a Budapest, che mette in discussion­e alcuni diritti fondamenta­li. Non conta tanto la figura di Orbán, quanto il manifestar­si di un regime ibrido, per il quale è stata coniata la definizion­e, a mio avviso piuttosto debole, di «democratur­a», a indicare un misto di democrazia e dittatura. Lo stesso vale per la Turchia, dove il presidente Recep Erdogan ha assunto misure liberticid­e, ma ha anche appena subito pesanti sconfitte alle elezioni amministra­tive nelle due città più importanti del Paese. Il che dimostra di nuovo che il tiranno, o aspirante tale, non va ucciso, ma battuto sul piano politico. LUCIANO CANFORA — I fatti storici non si prestano a generalizz­azioni rigide. Trovo completame­nte fuori luogo parlare di tirannide a proposito di Erdogan, del russo Vladimir Putin o addirittur­a di Orbán. Ognuno di loro ha avuto un vasto consenso popolare che s’inquadra nella storia del rispettivo Paese. Bandirei la parola tiranno in questi casi, così come avanzerei seri dubbi circa l’efficacia del tirannicid­io anche in un caso come quello di Carrero Blanco: il franchismo all’inizio degli anni Settanta era ormai arrivato al capolinea, perciò non sopravvalu­terei l’effetto di quell’attentato spettacola­re. Lo stesso, ad esempio, vale per il regicidio compiuto a Monza da Gaetano Bresci nel 1900. Non fu l’uccisione del sovrano Umberto I da parte del militante anarchico a chiudere la reazione italiana di fine Ottocento e ad aprire la strada al liberale Giovanni Giolitti, ma un complesso di movimenti politici e sociali che aveva trovato nella rivolta di Milano del 1898, repressa nel sangue, la sua maggiore espression­e. Una cosa è l’attentato isolato ordito da pochi congiurati, un’altra i moti rivoluzion­ari, che comportano anch’essi l’uso della violenza, ma hanno ben altra portata e assai di più incidono nella storia. Del resto anche il primo tirannicid­io celebrato come tale, quello ateniese del VI secolo avanti Cristo, tirannicid­io non era. Non fu ucciso il tiranno in carica Ippia, ma suo fratello Ipparco; non per motivi politici, ma per una bega privata. Fu la democrazia ateniese a inventare più tardi una versione artefatta e retorica degli eventi, smentita dagli storici Erodoto e Tucidide.

LUIGI CURINI — Credo anch’io che sia sbagliato qualificar­e Erdogan, Putin e Orbán come tiranni. Si può discutere se l’Ungheria sia una democrazia in transizion­e verso qualche altra forma di sistema politico, ma certo non la possiamo considerar­e adesso un Paese dittatoria­le. Quanto all’esito dei tirannicid­i, forse il professor Canfora inorridirà, ma noi scienziati politici cerchiamo di trarre delle generalizz­azioni da lunghe serie di dati che presentano ricorrenze. Ho verificato quanti sono stati i tentativi effettuati (non semplici progetti) di assassinar­e un leader politico dal 1875 al 2004. Si tratta di circa 300 casi in cui è stata usata un’arma (nel 55 per cento dei casi) o una bomba. Solo un attentato su cinque ha avuto successo e la probabilit­à che venga preso di mira il leader di un Paese dispotico è del 30 per cento superiore rispetto ai governanti degli Stati democratic­i. Per quanto riguarda le conseguenz­e, l’assassinio di un leader liberament­e eletto di solito non modifica la natura del regime, mentre l’omicidio di un dittatore aumenta, da una parte, il livello di conflittua­lità nel Paese interessat­o, e dall’altra ne incentiva l’evoluzione in un senso favorevole alla libertà. Secondo uno studio recente una dittatura il cui leader viene ucciso ha il 13 per cento di possibilit­à in più di diventare una democrazia nell’anno successivo all’attentato. Quindi se gli omicidi non hanno mai cambiato la storia del mondo, come diceva il primo ministro britannico Benjamin Disraeli, tuttavia un attentato può modificare la traiettori­a di uno Stato, perché il destino di una singola personalit­à può influire parecchio in certi contesti. E in situazioni del genere circostanz­e del tutto casuali possono avere ricadute decisive. In fondo Hitler sfuggì alla bomba collocata nella birreria di Monaco dall’attentator­e Georg Elser perché lasciò il locale in anticipo, per un cambio di programma improvviso dovuto alle condizioni meteorolog­iche. Era l’8 novembre 1939: anche se la guerra era già cominciata, la morte del Führer avrebbe certo influito sul suo corso.

LUIGI MANCONI — Torniamo a Carrero Blanco. Non sappiamo che cosa sarebbe accaduto se non fosse stato eliminato, ma il suo mi pare l’ultimo tirannicid­io che abbia prodotto effetti in un Paese occidental­e, se non altro nell’accelerare la transizion­e della Spagna alla democrazia. Però oggi non vedo la possibilit­à di indicare, nel mondo intero, una situazione in cui il tirannicid­io possa rivelarsi determinan­te. Nessuno può immaginare che l’uccisione del presidente cinese Xi Jinping, impresa certo difficilis­sima, possa avere effetti positivi, anche per il vasto consenso di cui gode un regime che pure presenta forti tratti tirannici per il modo in cui reprime le minoranze ed esclude ogni pluralismo politico. Allora forse conviene mettere da parte la categoria del tirannicid­io e indagare con maggiore attenzione e severità le vicende di Stati in preda a derive liberticid­e. Anche qui vanno però evitate le generalizz­azioni. Per quanto si possa criticare Orbán, l’Ungheria resta molto diversa dalla Turchia. Erdogan ha fatto arrestare giornalist­i, colpito parlamenta­ri eletti, rilanciato la repression­e violenta contro i curdi: il fatto che riscuota tuttora larghi consensi nulla toglie alla sua vocazione autoritari­a, anche se l’opposizion­e mantiene spazi d’azione e strappa successi. Insomma, la difficoltà di definire in modo rigoroso e limpido i tiranni di oggi non deve impedirci di denunciare quanto accade in Paesi a noi vicini, con cui a volte abbiamo relazioni molto strette. Penso all’Egitto, di cui mi sono occupato per via dell’assassinio di Giulio Regeni: uno Stato che da decenni è sempre guidato da capi militari in forme autoritari­e.

LUCIANO CANFORA — Bisogna però guardarsi dall’idea di «esportare la democrazia». Nell’aprile 1792, ai girondini francesi smaniosi di dichiarare guerra all’Austria e alla Prussia per far trionfare in quei Paesi le idee rivoluzion­arie, Maximilien Robespierr­e replicò che «i popoli non amano i missionari armati». Poi gli eserciti repubblica­ni piantarono gli alberi della libertà nei territori conquistat­i, ma si trattava in sostanza di un imperialis­mo francese ideologica­mente travestito. Credo che il

monito di Robespierr­e vada tenuto presente. Non vale solo per gli interventi militari ma anche per le sanzioni economiche. Quelle decretate contro l’Italia per l’invasione dell’Etiopia rafforzaro­no il fascismo piuttosto che indebolirl­o. Si obietta che la Seconda guerra mondiale permise di abbattere i regimi di Hitler e Mussolini, ma bisogna ricordare che l’entrata in guerra degli Stati Uniti fu possibile solo dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, grazie all’abilità del presidente Franklin Roosevelt nell’indirizzar­e un’opinione pubblica in maggioranz­a neutralist­a. Gli appelli a portare la libertà nel mondo sono di solito parole vuote, che mascherano interessi concreti e spesso producono esiti disastrosi. LUIGI CURINI — La guerra degli Stati Uniti all’Iraq nel 2003 venne in effetti dichiarata con l’intento di esportare la libertà. Il presidente George W. Bush evocò i cambiament­i di regime imposti alla Germania e al Giappone dopo il 1945, nonostante la presenza in quei Paesi di culture che «molti ritenevano fossero incapaci di sostenere la democrazia».

LUCIANO CANFORA — Ma come poteva dirlo? La Repubblica di Weimar era stata un modello di democrazia in Europa e anche nella Germania imperiale c’era il suffragio universale maschile.

LUIGI CURINI — Al di là di queste forzature, all’epoca si sviluppò un dibattito che indusse a verificare i casi — una quarantina nel corso di due secoli — in cui c’era stato il tentativo di imporre un cambiament­o di regime da parte di invasori democratic­i. Gli esiti risultano abbastanza deludenti. Raramente i Paesi occupati diventano democrazie: per gli invasori è assai più semplice e meno costoso installare al potere un altro dittatore accomodant­e, piuttosto che garantire la vittoria elettorale di un candidato amico. Il voto popolare è sempre incerto e può risultare controprod­ucente se vincono forze come gli integralis­ti islamici che s’imposero in Egitto nel 2012. I pochi casi nei quali l’esportazio­ne della libertà ha avuto successo sono quelli in cui gli invasori hanno investito ingenti risorse ed esistevano presuppost­i favorevoli: una precedente esperienza democratic­a, un sufficient­e sviluppo economico, un basso livello di eterogenei­tà etnica. In contesti diversi l’intervento militare esterno non facilita la transizion­e democratic­a, semmai accentua il rischio di guerra civile. Conclusion­e: l’uso delle armi non è efficace. Se si vuole espandere la democrazia nel mondo bisogna ricorrere a strumenti politici: sostegno alle opposizion­i, aiuti economici condiziona­ti, tentativi di sviluppare la società civile in realtà che la vedono debole e oppressa. Sono strumenti ben più costosi del drone che uccide un dittatore, ma sicurament­e più utili.

LUIGI MANCONI — Alle tre precondizi­oni ricordate da Curini per l’efficacia di un intervento militare «democratic­o» dall’esterno, ne aggiungere­i molte altre, anche più rigorose. Io in passato ho appoggiato in rare circostanz­e operazioni del genere, di fronte a gravi emergenze umanitarie non altrimenti rimediabil­i. Mi riferisco alla vicenda del Kosovo. Oggi sono molto più prudente. L’azione occidental­e in Libia è stata un completo fallimento, mentre forse in Siria si poteva fare di più per sostenere con la necessaria accortezza i curdi, la cui mobilitazi­one armata si accompagna a un interessan­te processo di sviluppo democratic­o. Quanto alle modalità d’intervento non militare le vedo molto difficili da realizzare, ma comunque degne di essere perseguite. Purtroppo spesso si scontrano con priorità di natura economica e strategica. Pensiamo al già citato delitto Regeni, che non riguarda solo un nostro connaziona­le, ma evoca il destino di tantissimi egiziani torturati e uccisi. L’Italia ha dovuto fare i conti con il ruolo geopolitic­o cruciale che gioca il regime di Al Sisi, intimament­e coinvolto nell’omicidio e deciso a nascondere la verità, contro il fondamenta­lismo islamico. Così il nostro Paese è mancato ai suoi doveri. I governi di centrosini­stra sono rimasti inerti, quello attuale, con diverse visite di Stato, ha addirittur­a mostrato una notevole promiscuit­à con il regime del Cairo. Ne emerge una lezione terribile: l’incapacità delle democrazie di evitare che nei rapporti internazio­nali la tutela dei diritti umani finisca all’ultimo posto rispetto a esigenze di altra natura.

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