Corriere della Sera - La Lettura
Ad arte armata: pittori,ttori, scultori e p pistole
Il 19 giugno andrà all’asta a Parigi — stima tra 40 e 60 mila euro — il revolver con cui van Gogh si suicidò il 27 luglio 1890. «La Lettura» ha provato ad allestire una mostra virtuale con pitture, installazioni, performance che hanno trasformato pistole-coltelli-aeroplani in protagonisti delle opere. Dai fucili di Goya agli archi di Abramovic, fino al caccia capovolto di Paola Pivi. Messaggi — quasi sempre — di pace
Un reperto industriale rovinato dal tempo. Così appare il revolver Lefaucheux, la calibro 7 con cui van Gogh si suicidò il 27 luglio 1890 ad Auverssur-Oise. Quel feticcio andrà all’asta a Parigi il 19 giugno, con una stima tra 40 e 60 mila euro. L’arma «più famosa della storia dell’arte» (come è stata definita) fu scoperta da un contadino nel 1965, nel campo in cui il pittore fu trovato ferito. Dopo il suo rinvenimento, la pistola fu consegnata al proprietario della locanda Ravoux d’Auvers-sur-Oise, dove l’artista aveva alloggiato e dove morì. Conservata a lungo dai discendenti dell’albergatore, nel 2016 è stata esposta per la prima volta in una mostra dal Van Gogh Museum di Amsterdam.
Un episodio che ci porta a riflettere sulla presenza e sull’uso delle armi nell’arte moderna e contemporanea. Un argomento che, finora, non è mai stati indagato in studi, in ricerche né in mostre. Una diversa attenzione è stata rivolta ad altri inattesi riaffioramenti nella storia della pittura: dalle mosche (raccolte da André Chastel) alle nuvole (radunate da Hubert Damisch), alle figures pissantes (catalogate da Jean-Claude Lebensztejn in un libro tradotto da Utet intitolato proprio Figure piscianti di cui «la Lettura» ha scritto sul numero #307 del 15 ottobre 2017). Esercizi critici fondati su curiosità visiva, su finezza filologica e soprattutto sull’interesse per i dettagli, come ha sottolineato Daniel Arasse (in Il dettaglio, Il Saggiatore, 2007).
Armi dipinte
Le armi, dunque. Abbiamo provato a immaginare una mostra dedicata a questi oggetti. La prima sezione accoglierebbe alcuni tra i più significativi momenti della storia della pittura moderna, momenti in cui le armi sono protagoniste, non solo comprimarie dell’opera.
Ecco La ronda di notte di Rembrandt (1642): la truppa ha appena ricevuto l’ordine di avanzare dal capitano della compagnia; alcuni soldati cominciano a muoversi, altri raccolgono l’equipaggiamento e i fucili. Ed ecco Il 3 maggio 1808 di Goya (1814): la scena è immersa nel buio; il cielo è scuro, privo di stelle; la luce è diretta verso un contadino che, dignitosamente, affronta il suo sacrificio per la libertà; simile a un Cristo crocifisso, l’uomo è inginocchiato, con le braccia alzate, e guarda direttamente il plotone di esecuzione; a terra si vedono alcuni suoi compagni, già morti, mentre altri ai suoi lati esprimono con il corpo sofferenza e terrore; a destra, è schierato un gruppo di soldati di Napoleone; al centro del quadro, i fucili del plotone. Ecco ancora, ispirato al dipinto di Goya, L’esecuzione dell’imperatore Massimiliano di Manet (1867): la drammaticità della situazione viene accentuata dalla posizione ravvicinata dei fucilieri e dai volti dei condannati rassegnati e atterriti dall’incontro ineluttabile con la morte. Ed ecco, infine, Il massacro in Corea di Picasso (1951): un gruppo di soldati sta per fucilare donne e bambini, la cui nudità rappresenta l’innocenza e l’impossibilità di difendersi.
Guerra sola igiene del mondo
Picasso ci porta nel cuore della stagione delle avanguardie. È, questo, un termine ubiquo, sinonimo di gusto per la provocazione, di attivismo, di volontà di fare tabula rasa della tradizione, di antagonismo, di anticonformismo, di movimentismo, di critica e, insieme, di invenzione del linguaggio. Riferita all’arte, la parola «avanguardia» viene usata per la prima volta nel 1864 da Baudelaire nei Diari intimi, con esplicito riferimento al lessico militare: ai reparti che precedono le truppe in movimento, a scopo di esplorazione o di sicurezza.
La medesima fascinazione per il mondo militare si ritrova in diversi passaggi dei manifesti futuristi (che potremmo esporre nella seconda parte della nostra mostra). Sin dall’inizio, l’ideologia marinettiana si innesta su una trama polemologica. Si ricordi il programma enunciato nel manifesto di fondazione del movimento (1909): «Noi vogliamo glorificare la guerra — sola igiene del mondo». Potente strumento per fare piazza pulita di ciò che ostacola il trionfo del «nuovo», autentico catalizzatore del desiderio estetico, simbolo di vitalismo attivistico, «verità ultima della natura e della storia», manifestazione assoluta della vita, la guerra è l’espressione più alta dell’effervescenza tecnologica moderna, il luogo in cui si celebra la più grande festa dell’esistenza e dell’arte. Illuminante anche il manifesto marinettiano del 1914 Sintesi futurista della guerra, che prelude al libro del 1915 Guerra sola igiene del mondo. Approdo di questa visione è L’alcova d’acciaio (1921), che rievoca l’avventura di Marinetti al fronte, tra il giugno e il novembre 1918: la guerra qui è raccontata come tripudio di una sensualità inesausta, festa dei sensi, spettacolo gioioso, gara per superare ogni record.
Armi reali
Eredi di questa tradizione, alcuni artisti, nelle loro opere, usano armi vere (cui dedicheremmo la terza sezione). Arman le accumula in sculture in plexiglass, come fa in Venus aux revolvers (1967), in Boum boum ça fait mal (1969) e in Tools of persuasions (1978). Marina Abramovic se ne serve in azioni estreme. Come in Rhythm 0 (1974), dove resta ferma sei ore: dapprima, su di lei sguardi curiosi; poi, il pubblico la «colpisce»; ferisce il suo corpo; taglia i suoi vestiti con lamette; la minaccia con pistole. Nel 1980 sempre Abramovic è autrice, insieme con Ulay, suo compagno di allora, di Rest energy: un arco teso dai due performer sbilanciati in direzioni opposte, con la freccia puntata verso il petto della donna.
Forti le assonanze con il lavoro di Niki de Saint Phalle, creatrice, con Les Tirs e con i Shooting paintings (nei primi anni Sessanta), di azioni terapeutiche durante le quali l’artista spara con la carabina su bersagli (sculture o assemblaggi), sotto il cui intonaco sono nascosti sacchi di vernice che, colpiti, fanno colare liquidi.
Nello stesso orizzonte bisogna iscrivere Shoot, la performance del 1971 in cui Chris Burden si fa sparare a un braccio da un amico armato di fucile: uno degli esperimenti più estremi della Body Art. Un’opera sul coraggio, sulla paura, sulla necessità di spalancare le porte alla percezione. E, al tempo stesso, un grido contro l’imperialismo yankee. «Un canto alla vulnerabilità. Il corpo in scena, pronto al dolore, forse alla morte», ha scritto Mauro Covacich.
Armi-giocattolo
Altri artisti sono guidati da uno slancio ludico, che li porta a proporre sconcertanti e ironici sovvertimenti di funzioni: li potremmo ritrovare nel quarto capitolo della mostra. Un modo per ribadire le ragioni del pacifismo, pur se in maniera paradossale. Alla fine degli anni Sessanta Pino Pascali — che già nel 1965 aveva inserito fucili e pistole in alcune tele giovanili — presenta i suoi giocattoli di morte, con ruote di automobili, marmitte e tubi, dipinti con vernice militare. Cannoni, lanciamissili e mitragliatrici, che non funzionano e non sparano. Figure di una recita assurda, di un comizio di pace.
Il medesimo gusto dell’assurdo ritorna in El beso de la muerte (1991-1992) di Rebecca Horn, due pistole indissolubilmente legate dalla fusione delle loro canne; nelle armi iper-pop e gigantesche di Claes Oldenburg; in Bidibidobi
diboo di Maurizio Cattelan (1996), dove si vede un revolver in miniatura con il quale uno scoiattolo si è suicidato. E ancora: il caccia Fiat G-91 capovolto esposto da Paola Pivi alla Biennale di Venezia del 1999; Gun Number 48 di Francis Alÿs, mitragliatrice «inutile» in cui sono assemblati vari oggetti abbandonati (pezzi di legno e di ferro, barattoli, nastri);
Track and Field (2011) di Allora&Calzadilla, dove, su un carro armato capovolto, è posizionato un tapis roulant su cui corre un atleta che indossa una maglia con la scritta Usa.
Infine, Nymphéas di Adel Abdessemed (2015): un giardino di ninfee fatto di imponenti coltelli, satira spietata sul tema della violenza, dell’intolleranza, del fanatismo.
Armi mistiche
Nella nostra mostra immaginaria, l’epilogo sarebbe riservato alle armi mistiche. Monumenti innalzati all’arte nel tempo della guerra. Le sculture di Al Farrow: munizioni e fucili utilizzati per comporre oggetti di culto, templi o chiese. E le architetture vagamente rinascimentali di Roberto Pietrosanti realizzate con la complicità del musicista e scrittore Giovanni Lindo Ferretti (2017): una solenne campana di bronzo dentro cui sono conficcati e fusi fucili; e una iconostasi formata da kalashnikov stilizzati. Il senso di queste fascinazioni è stato colto con acume proprio da Ferretti: «Se c’è qualcosa di veramente bello che gli uomini hanno costruito sono gli aerei e le navi da guerra. Il kalashnikov è un’invenzione strepitosa, è un’arma distruttiva, ma se la guardi esteticamente tende alla perfezione».
Al termine della passeggiata, il visitatore della nostra esposizione impossibile avrà scoperto una ricca sequenza di fucili, di kalashnikov e di coltelli. Attrezzi bellici, sottoposti a inedite rifunzionalizzazioni e a plurali risemantizzazioni. Presenze decisive in passaggi rilevanti della storia dell’arte moderna e contemporanea che, di volta in volta, si sono caricate di valenze drammatiche, politiche, testimoniali, perturbanti, ludiche, religiose. Eppure, al di là di queste differenze, esiste una tensione comune. Dipingendo, usando e trasfigurando armi, la maggior parte degli artisti, senza inciampare nei tranelli del «militarismo», sembra voler innanzitutto affermare un’idea precisa di arte. Non confortevole rifugio, ma azione, militanza estetica, agone, sfida, campo di battaglia.