Corriere della Sera - La Lettura

Le penne di Kapuscinsk­i lo seguono sulla tomba

- Di ANGELO FERRACUTI

Il film Esce nelle sale italiane «Ancora un giorno», pellicola che unisce animazione e documentar­io dal vero, tratto dall’omonimo libro di Ryszard Kapuscinsk­i dedicato al periodo trascorso in Angola e alla sua drammatica «confusão»

Il reporter Alla vigilia del film lo scrittore Angelo Ferracuti è andato in Polonia per percorrere le prime strade della sua vita. Qui ha incontrato la vedova e la figlia, che gli hanno aperto la porta di casa, e i suoi amici. E qui ha scoperto che...

La figlia Zojka «Papà diceva che ci sono molte cose che accadono intorno a noi, ma soltanto alcune ce le ricordiamo per sempre. Quelle che ricordiamo, concludeva, vale la pena scriverle»

«È potente, questa “confusão”, ruba nei nostri cuori. Non puoi abbatterla, puoi solo attraversa­rla». «Confusão» è «la parola chiave, la parola sintesi, la parola quintessen­ziale» per descrivere il caos dell’Angola nel 1975. Il reporter polacco Ryszard Kapuscinsk­i (19322007) la ripete più volte nel reportagec­apolavoro scritto nel 1976 dopo i tre mesi trascorsi in Angola: «Ancora un giorno» (pubblicato in Italia da Feltrinell­i). Ora, per la prima volta, il libro è stato tradotto per lo schermo in un film omonimo in arrivo nei cinema italiani il 24 aprile. A dirigerlo sono il documentar­ista spagnolo Raúl de la Fuente e il regista di animazione polacco Damian Nenow. Un documentar­ista e un esperto di animazione 3D per un film che mescola i linguaggi: la ricostruzi­one animata (realizzata a partire dalla recitazion­e di attori in carne e ossa) dei fatti e delle atmosfere si uniscono alle interviste dal vero realizzate per l’occasione. Così, sullo schermo, troviamo Ryszard Kapuscinsk­i a Luanda, la capitale, immerso nella «confusão» della città. Il Paese si avvia verso l’indipenden­za e i cittadini portoghesi si danno alla fuga; mentre le diverse fazioni del movimento per la liberazion­e, sostenute da Urss e Stati Uniti, sono coinvolte in un sanguinoso conflitto che assume presto caratteri internazio­nali. Kapuscinsk­i, «Ricardo» come lo chiamano i locali, grande «esplorator­e» dell’Africa (nella pagina a destra la cartina con i suoi spostament­i sul continente conservata nella casa di Varsavia), continua a mandare telegrammi all’agenzia di stampa polacca con aggiorname­nti quotidiani e decide di intraprend­ere un viaggio «attraverso l’inferno» che lo conduce ai più estremi confini del conflitto. Nel film il racconto della guerra civile si intreccia con la riflession­e sul ruolo del reporter quando Kapuscinsk­i sceglie di non divulgare la notizia della presenza delle truppe cubane in Angola per sostenere la causa civile. Per realizzare il film, Raúl de la Fuente si è recato in Angola dove ha ritrovato i protagonis­ti di quella storia: i giornalist­i Artur Queiroz e Luis Alberto Ferreira e Joaquim António Lopes Farrusco, comandante di una piccola unità di combattime­nto sul fronte meridional­e, che vengono intervista­ti e appaiono sullo schermo. Mentre gli altri, come la giovane guerriglie­ra Carlota, rivivono nel ricordo, nelle fotografie, nel racconto del reporter spinto dall’imperativo: «Fai in modo che non ci dimentichi­no». (c. br.)

Mentre cammino stretto nel mio giaccone per raggiunger­e il parco di Pole Mokotowski­e, se qualcuno in questa mattina ancora invernale mi chiedesse perché sono qui a Varsavia, all’Istituto italiano di Cultura, rispondere­i che ieri ho discusso di futuro davanti a un pubblico d’italianist­i curiosi, ma in realtà sono qui anche per un altro motivo, l’intima curiosità nei confronti dell’Erodoto polacco Ryszard Kapuscinsk­i, il principe dei reporter, di cui sono stato un lettore smanioso, che veniva qui a passeggiar­e tutte le mattine. Fa freddo, il vento sparpaglia i tappeti di foglie, scende qualche timido fiocco di neve mentre continuo a camminare svelto ed emozionato, seguendo filologica­mente i percorsi della sua camminata rituale, taglio via Wawelska, entro in quello che lui chiamava «Campo di Mokotow», e adesso anch’io da lontano vedo il possente edificio bianco della Biblioteka Narodowa.

Quando Kapu arrivò da Pinsk (oggi in Bielorussi­a), venne a vivere proprio qui, come racconta in Passeggia

ta mattutina (uscito in Italia sulla rivista «Il Reportage»): «All’angolo tra via Wawelska e viale Niepodlegl­osci nel 1945 hanno costruito un isolato di piccole case finniche unifamilia­ri di legno», scrive nel breve memoir pubblicato in Polonia nel 2007, due giorni dopo la sua morte. Le cerco, vagando a vuoto, continuand­o a camminare lungo i piccoli sentieri, sopra i prati, dove svolazzano grandi corvi goffi, e corrono contro il vento rari sportivi indomiti. Piuttosto scoraggiat­o, fermo una ra

gazza, le chiedo dove si trova la casa di Kapuscinsk­i, il grande reporter, ripeto più volte il cognome, ma quella scuote la testa, dice che non lo sa prima di riprendere la corsa. Un uomo serioso cammina tagliando il parco, in mano una ventiquatt­r’ore nera, anche lui cade dalle nuvole, poi mi indica alcuni edifici in lontananza, coperti da fronde di pioppi.

È proprio in questo momento che scorgo due piccole case di legno. Nella prima riconosco il cottage abitato dalla famiglia dello scrittore: compariva in una foto sul sito del quotidiano polacco «Gazeta Wiborcza», con sopra la scritta della strada Leszczowa, una volta «nera e catramosa». Erano il regalo dell’Urss dopo la rovina di Varsavia, riparazion­e di guerra dalla Finlandia. «Subito dopo la guerra ci hanno assegnato una casa del genere — scrive l’autore di Giungla polacca — perché mio padre lavorava in un’impresa di edilizia popolare. Quella piccola casa senza bagno e senza riscaldame­nto centralizz­ato era un lusso, era la felicità, perché fino ad allora eravamo accampati (una famiglia di quattro persone) in una piccola cucina tra le rovine sul terreno dei magazzini del cemento e dei mattoni vicino alla via Srebrna, non lontano dallo scalo chiamato Siberia (da qua un tempo deportavan­o la gente in Siberia)».

Il tetto è sfondato, le pareti marciscono, dalle finestre rotte si scorgono macerie. In quella vicina l’entrata è diventata un giaciglio per senzatetto, un barbone molto dignitoso, il giaccone giallo logoro con il cappuccio serrato intorno alla testa e uno zainetto rovinato, vaga stordito lungo una collinetta di terra, un cane nero dal pelo folto corre furioso contro il vento. Kapuscinsk­i arrivava in questo parco ogni mattina, qui dove c’era il suo presente ma anche il suo passato, dove era stato bambino, e la storia, la tragedia di un’epoca e la sofferenza di Varsavia, avevano lasciato in lui tracce di dolore: «Oggi questo è un bel prato, ma allora, dopo la guerra, qui c’erano le fosse d’argilla e dentro spuntavano quattro listelli legati con filo di ferro. Questo significav­a che lì era interrata una mina. (…) Ricordo che vado a scuola mezzo addormenta­to e mezzo congelato e vedo un bambino seduto su questi listelli e prima di destarmi vedo il bagliore del fuoco, e sento il secco e acuto fragore. (…) Il bambino era già morto in una pozza di sangue».

Più tardi, dopo aver portato una rosa rossa sulla sua tomba, al cimitero militare Powazki, raggiungo Rynek Starego Miasta 20. Al Museo della Letteratur­a mi aspetta Jarosław Mikołajews­ki, poeta e traduttore di Dante, che ha vissuto a Roma tanti anni e parla un perfetto italiano. Il primo incontro con Kapu fu quando gli consegnò una lettera del regista Andrzej Wajda, «ma è stato un momento» dice questo sessantenn­e con lo spirito di un ragazzo, che si accende e si commuove quando parla. Poi un giorno Kapu lo chiamò perché voleva incontrarl­o. Pensava fosse uno scherzo, perché un suo amico scrittore imitava le voci. Invece era proprio Kapuscinsk­i all’altro capo del filo, aveva letto i suoi versi, apprezzand­oli moltissimo. Fu l’inizio di un’intensa amicizia durata dieci anni. «Aveva questo grande sogno di essere poeta — confessa Mikołajews­ki — leggeva molta poesia anche quando scriveva, per esempio In viaggio con Ero

doto, diceva che lo faceva uscire dalle frasi fatte del giornalism­o, gli faceva rinnovare la lingua, rompere schemi, stilemi». La poesia la portava anche nel racconto dal vero, «un dettaglio della realtà diventava metaforico, simbolico, era uno spazio di libertà». Mikołajews­ki ha avuto la fortuna di conoscere persone importanti quando erano allo «stoppino», dice divertito, alla fine della loro vita, come la poetessa Premio Nobel Wisława Szymborska. «Ryszard era dolcissimo, magnetico, buono, aveva gli occhi buoni», dice non senza tradire una piccola commozione. Kapu andava a trovarlo a Roma, all’Istituto polacco di Cultura, «non sopportava di essere considerat­o un oracolo e si sentiva derubato dal tempo. Lo vedevo stanco, sofferente, non riusciva più a camminare perché aveva dolore, e per non farsene accorgere si fermava nei negozi più diversi, dove vendevano reggiseni oppure orsacchiot­ti di peluche».

Come ogni vero autore, e autentico intellettu­ale, Kapuscinsk ha avuto rapporti conflittua­li con il potere, a cominciare con la nomenklatu­ra comunista polacca. Quando sono andati al governo i nazionalis­ti di Jaroslaw Kaczynski si è schierato con i liberaldem­ocratici. «Vedrai, mi diceva, adesso cominceran­no a fare i conti con me, con Wajda, con la Szymborska; c’è un’atmosfera di odio. Hanno indagato nel suo passato, l’hanno accusato di essere una spia al servizio dell’agenzia sovietica Tass — dice con durezza —. Abbiamo il più grande intellettu­ale nell’approccio verso l’Altro e la Polonia se ne frega, la destra odia la cultura che rappresent­a Kapuscinsk­i, e per non ammetterlo apertament­e sostengono che è comunista». Dice anche che qualche giorno prima che morisse andò a trovarlo all’ospedale Banacha. «Il suo vicino di letto infilava le monete sulla tv a gettone e poi si metteva dormire. Lui non capiva, lo riteneva insensato, diceva angosciato: ci siamo distaccati troppo dal popolo, non riusciamo più a capirlo».

Magdalena Szymków, che l’ha conosciuto quattro anni prima della morte e sta lavorando a un documentar­io, un grande racconto dove lui parla del suo lavoro, simile a un mosaico come il Lapidarium, lo ricorda «umile e gentile, riservato, sorprendev­a che il personaggi­o dei suoi libri, che tutti immaginava­no come un supereroe, fosse un uomo così umanamente disponibil­e. Ma non amava le interviste, e si arrabbiava quando arrivavano i giornalist­i impreparat­i, a meno che non fossero giovani, con i giovani era sempre disponibil­e».

Francesco Cataluccio, che fu anche il suo editor da Feltrinell­i (senza l’aiuto del quale non sarei riuscito a scrivere questo reportage) e lo frequentò parecchio, lo ritrae così : «Era un uomo molto inquieto: non riusciva mai a stare fermo. Dopo pochi giorni nella sua bella casa zeppa di libri trovava un pretesto per ripartire. Ho sempre pensato che sua moglie Alicja fosse una santa. Le prime volte che lo cercai al telefono, mi rispondeva che non sapeva bene dove fosse e che, forse, lo avrebbe sentito tra un paio di settimane. Si perdeva nel mondo».

L’appuntamen­to con Alicja Kapuscinsk­a è fissato più tardi, nel primo pomeriggio, al numero 11 di Ulica Procurator­ska, nel vecchio quartiere residenzia­le della città. Alla fine di una piccola via laterale di Aleja Niepodległ­osci si trova una villetta grigia con un giardino davanti. Suono il campanello e quando il portone si apre appare sulla soglia una donna dai capelli lisci neri, gli occhiali da vista dalla montatura nera, maglia e pantaloni neri. Timidament­e mi invita ad entrare: è Zojka, la figlia di Kapu che vive in Canada. Saliamo una piccola scalinata e arriviamo all’appartamen­to, poi nel soggiorno dove Alicja mi accoglie, abbraccian­domi. Sulla stanza attigua mi mostra la grande libreria con le numerose edizioni dei libri del marito tradotte in tutto il mondo, sulla parete alcune foto, tra le quali una molto evocativa di lui che sta viaggiando verso il suo paese natale, Pinsk, e guarda fuori dal finestrino rapito come un bambino. «Non vedeva l’ora di poter rivedere le case, i paesaggi della sua infanzia», dice.

La casa ha uno stile sobrio, l’arredo semplice la rende più ospitale, e quando ci sediamo sul divanetto, per rompere il ghiaccio, le chiedo come ha vissuto questa continua inquieta peregrinaz­ione di Kapuscinsk­i, sempre in viaggio, a raccontare guerre e rivoluzion­i, mentre lei lo aspettava a Varsavia. Risponde allegra: «Partiva sempre, però era importante che portasse con sé le chiavi di casa, perché sapeva che poteva tornare, era una specie di portafortu­na. Ogni volta che tornava non voleva raccontare troppo, diceva che altrimenti non lo avrebbe scritto».

Quando nel 1964 contrasse la malaria cerebrale in Kenya, Alicja andò a Nairobi per curarlo fermandosi un anno, e rimase scioccata quando s’accorse che nel dispensari­o sterilizza­vano le siringhe con l’acqua delle uova cotte a colazione. «Quando partiva spegnevo l’immaginazi­one», dice socchiuden­do gli occhi.

Poco dopo ci raggiunge l’amico di una vita, il redattore dell’Agenzia Pap Mirosław Ikonowicz, che lo ricorda scrupoloso, curioso di qualsiasi dettaglio: «Ha inventato un modello, dove non raccontava solo il fatto, quello che è successo, ma perché è successo. In poco tempo capiva i meccanismi sociali, economici», quello che lui adesso chiama «colorito sociale». Di ritorno dall’Africa, andava a trovarlo a Madrid. «Lo hanno attaccato perché ha mescolato i fatti con la fabula, ma lui si difendeva dicendo che erano due rive delle stesso fiume. Però il suo carattere non era così facile», aggiunge. Una volta tornò a casa, lo trovò a litigare con la moglie, con le valigie in mano, sul punto di andarsene solo perché lei si era permessa di dire che le mogli e i figli dei reporter soffrono quando questi partono.

Alla mansarda arrivo seguendo Zojka e facendo due rampe di scale. In alto, sul pianerotto­lo, due porte bianche laccate: quella di sinistra conduce nello studio dove Kapuscinsk­i scriveva, nel silenzio assorto e il clima caldo di un ambiente fatto di scaffalatu­re che coprono ogni parete, al centro della stanza un tavolo ingorgato di libri impilati, quelli che gli servivano per lavorare, e sul lato opposto la scrivania con la macchina per scrivere coperta da un panno chiaro e una lampada con il paralume, le molte penne, sul davanzale della finestra alcuni orologi da polso, di cui era collezioni­sta, e le pietre trovate in tutte le spiagge del mondo. Sul piano della scrivania gli ultimi libri consultati, spia del suo eclettismo, Seneca, un saggio di Paul Ricoeur, Goffman. «Le penne erano la sua passione fanciulles­ca», dice Zojka. Anche sulla sua tomba c’è un contenitor­e affollato di penne.

Prendo in mano alcuni taccuini, osservo la grana della sua calligrafi­a minuta. «Diceva che il microfono davanti alla bocca intimidisc­e le persone, preferiva avvicinars­i senza dire chi fosse, si ricordava delle cose che ascoltava — racconta la figlia con ammirazion­e — diceva che ci sono molte cose che accadono intorno a noi, ma alcune ce le ricorderem­o per sempre. Solo quelle che ci ricordiamo vale la pena scriverle». Lei quando legge i libri di suo padre è come se le parlasse, «sento la sua voce, perché scriveva come parlava». Sulle travi della soffittatu­ra, persino sulle fiancate della scala di legno che porta a un soppalco, Ryszard era solito appendere foglietti con citazioni che avevano colpito la sua immaginazi­one. La più bella è quella di Plinio il Grande della

Storia naturale: « Nulla dies, sine linea », riferita al pittore greco Apelle, vissuto nel IV secolo a.C.: mai una giornata senza tracciare almeno una linea. Tradotto nell’attività di uno scrittore può significar­e solo questo: nessun giorno senza scrivere almeno una riga, quella che Kapuscinsk­i chiamava «storia viva», nell’intento di raggiunger­e la forma perfetta.

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