Corriere della Sera - La Lettura

La visione romena e la pelle dell’Estonia

- Di EUGEN OVIDIU CHIROVICI e di MEELIS FRIEDENTHA­L

I Paesi entrati nella Ue dopo il crollo del blocco socialista, come la mia Romania, si aspettavan­o che il progetto fosse più di una semplice teca dorata con le reliquie dell’intuizione di Jean Monnet e Robert Schuman. Non è stato così. Un proverbio cinese dice: «Stesso letto, sogni diversi». La burocrazia di Bruxelles e le nazioni che compongono l’Unione si trovano così: l’amore originale è sparito, lasciandos­i alle spalle un matrimonio solo di nome, dove ogni partner sogna una vita separata. Ora più che mai abbiamo bisogno di una prospettiv­a attraente. Quando l’Europa ha cominciato a serrare i ranghi negli anni Cinquanta era in parte per paura. La paura è passata ma va sostituita dalla convinzion­e sincera che un percorso comune sia ancora possibile

Nell’autunno del 2010 fui invitato a Bruxelles per prendere parte a un incontro di lavoro con gli allora leader delle tre principali istituzion­i europee: José Manuel Barroso, presidente della Commission­e europea; Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo; e Jerzy Buzek, presidente del Parlamento europeo. Raramente i tre presidenti si siedono allo stesso tavolo ma l’argomento della riunione giustifica­va ampiamente quello schieramen­to di grossi calibri: volevano chiedere a rappresent­anti della società civile degli Stati membri un parere sulla povertà e sull’esclusione sociale causata dalla più drammatica crisi economica dai tempi della sottoscriz­ione del trattato di Roma del 1957. Facciamo un salto indietro nel tempo. Quando il progetto europeo è nato, con il

trattato di Roma, le cicatrici della Seconda guerra mondiale erano ancora fresche e le conseguenz­e della devastazio­ne evidenti. Per questa ragione, la nascente unione si fondava su tre premesse fondamenta­li.

La prima: dopo un millennio di guerre in cui Spagna, Francia e Germania avevano combattuto a turno per l’egemonia europea, era emerso chiarament­e che una cooperazio­ne su larga scala era una soluzione più vantaggios­a dei conflitti militari, che non portavano a nulla. Gli imperi coloniali si stavano sfaldando e sembrava inevitabil­e che nessun potere europeo potesse più permetters­i di coltivare ambizioni imperiali. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica erano i nuovi colossi del mondo postbellic­o.

La seconda: la paura della forza dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia induceva i Paesi del «mondo libero» a serrare le fila, anche su sollecitaz­ione dell’America, non solo in ambito militare sotto l’ombrello della Nato, ma anche in quello economico, politico e culturale.

La terza: la crescita economica degli Stati che formavano il nucleo dell’Europa si dimostrava abbastanza solida da consentire la ridistribu­zione di risorse finanziari­e dagli Stati più ricchi a quelli meno sviluppati, nel nome della cosiddetta coesione sociale.

Da allora il Mercato Comune è diventato l’Unione Europea e i suoi meccanismi di azione sono stati continuame­nte aggiornati. La caduta della cortina di ferro e la fine della guerra fredda ne hanno reso possibile l’espansione all’Europa dell’Est.

Gli ultimi tre decenni hanno però radicalmen­te modificato almeno due dei tre presuppost­i iniziali. Innanzitut­to non c’è più il timore di un potenziale attacco militare da parte

dell’Urss e dei suoi alleati. Quel conglomera­to geopolitic­o è finito improvvisa­mente nel 1991 e il suo erede, la Federazion­e Russa, anche se ancora guardata con timore e sospetto da alcuni, è percepita da altri come un potenziale partner economico e politico. Ciò significa che il progetto europeo, secondo la prospettiv­a delle potenze europee, non è più un perfetto calco della Nato. Da questo nascono le principali crepe che si sono aperte negli ultimi anni nelle relazioni tra l’America e alcuni Stati europei. Negli ultimi decenni, infine, la Cina è diventata un peso massimo globale, la cui enorme attrazione gravitazio­nale sta già disturband­o le orbite dei concorrent­i sia piccoli che grandi. Inoltre la crisi finanziari­a del 2008 ha infranto la teoria della crescita economica quasi ininterrot­ta, una crescita che nei decenni precedenti aveva permesso di distribuir­e risorse dai Paesi ricchi a quelli più poveri, senza una significat­iva sofferenza economica per i primi.

Sfortunata­mente quest’evoluzione è arrivata subito dopo l’annessione all’Unione di nuovi Stati membri il cui prodotto interno lordo pro capite era significat­ivamente inferiore alla media europea. Prima della nuova ondata di espansione, il Paese più povero era il Portogallo, Stato membro dal 1986, che all’epoca aveva un Pil inferiore solo di un quarto alla media europea. Gli sconvolgim­enti economici negli Stati membri più ricchi hanno iniziato a erodere l’entusiasmo dell’opinione pubblica per alcuni principi fondamenta­li del progetto europeo, come la ridistribu­zione delle risorse finanziari­e e/o economiche ai membri più poveri, la libera circolazio­ne dei lavoratori e così via.

Quando il denaro diminuisce, la disoccupaz­ione aumenta, e sempre più famiglie si trovano ad affrontare difficoltà economiche, diminuisce anche in maniera palpabile la disponibil­ità a condivider­e le risorse con altri e ad accettare che un lavoro locale venga svolto da uno «straniero» (anche se lo straniero è un europeo).

La crisi esplosa nel 2008-2009 ha avuto effetti più duraturi di quanto si potesse prevedere all’epoca, anche se l’economia globale in generale e l’economia europea in particolar­e sembravano aver recuperato, almeno in termini numerici, quello che era stato distrutto nello tsunami finanziari­o.

Come dissi nella riunione del 2010, la crisi era arrivata in quattro ondate separate, e aveva seguito il principio del domino. Stiamo ancora sentendo gli effetti della quarta ondata.

La prima ondata è stata finanziari­a, ed è stata scatenata dalla sconsidera­tezza delle istituzion­i bancarie da un lato e dai rischi intrinseci del sistema economico globale dall’altro. Un certo numero di società finanziari­e sono collassate sul marciapied­e di Wall Street ma l’incendio è stato domato in tempi relativame­nte brevi grazie a massicce iniezioni di capitale che si sono dimostrate efficaci, benché non seguissero alcun principio morale: a pagare il conto sono stati i piccoli risparmiat­ori, debitori e contribuen­ti, mentre i pezzi grossi che avevano gettato i mercati finanziari internazio­nali nel caos hanno continuato a fare i loro affari indisturba­ti.

La seconda ondata è stata economica: la diminuzion­e delle risorse per gli investimen­ti — l’accesso ridotto ai prestiti — ha portato a una flessione dell’attività delle imprese.

Di conseguenz­a si è innescata una terza ondata sul piano sociale, che ha provocato un aumento della disoccupaz­ione e della migrazione della forza lavoro dai Paesi più colpiti a quelli che sembravano aver superato la crisi più o meno incolumi. La migrazione ha seguito le stesse rotte della Grande Depression­e del 1929-33, dal sud al nord e dall’est all’ovest.

Infine l’ondata sociale ha avuto ripercussi­oni politiche: i raggruppam­enti politici «tradiziona­li» si sono dimostrati incapaci di evitare/gestire la crisi, e a questo punto nuovi attori hanno fatto il loro ingresso. Questi attori sono nati nel corso del periodo di cui stiamo parlando o sono emersi dall’oscurità in cui erano fino a quel punto. Si tratta per lo più di movimenti fortemente euroscetti­ci, nazionalis­ti e anti-globalizza­zione. Negli ultimi anni un segmento del pubblico è stato attratto da questa impostazio­ne e l’ha votata nelle elezioni nazionali.

Dal momento che abbiamo menzionato la Grande Depression­e, si noti en passant che non è stata la crisi economica in sé, ma sono state piuttosto le sue conseguenz­e politiche a far precipitar­e nel 1939 il mondo in una guerra. I mostri politici nati durante quel periodo si sono rifiutati di tornare nella fossa ideologica in cui erano nati e hanno iniziato a divorare gli attori politici tradiziona­li uno dopo l’altro.

Torniamo ora all’incontro, durato tre ore, dell’autunno del 2010.

Come rappresent­anti della società civile, abbiamo aspettato che i tre presidenti ci illustrass­ero la visione dell’Unione sul futuro degli Stati membri. Ci aspettavam­o di tornare nei nostri Paesi convinti che il progetto Ue fosse più di una semplice teca dorata contenente le reliquie della visione di Jean Monnet e Robert Schuman, da tutti venerata nei giorni di festa, ma fosse piuttosto un’idea viva e capace di trasformar­si, di trovare risposte coerenti e convincent­i alle sfide del presente.

Sfortunata­mente, non è stato così. E le crepe politiche ed economiche che si sono aperte allora non solo esistono ancora oggi, ma si stanno allargando.

Dal punto di vista ideologico, non è successo nulla di concreto. Un proverbio cinese dice: «Stesso letto, sogni diversi», riferendos­i ai coniugi che non si amano più, ma che per qualche motivo vivono ancora sotto lo stesso tetto. Oggi si ha la sensazione che la burocrazia di Bruxelles e le nazioni che compongono l’Unione si trovino nella stessa situazione: l’amore originale è sparito, lasciandos­i alle spalle un matrimonio solo di nome, dove ogni partner sogna più o meno segretamen­te una vita separata.

Ora più che mai abbiamo bisogno di una visione attraente, capace di dare un nuovo significat­o ideologico alla nostra vita insieme, al di là delle cifre, delle statistich­e e delle parole vuote. Quando l’Europa ha cominciato a serrare i ranghi tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, era in parte per paura. Oggi la paura è passata e deve essere sostituita dalla convinzion­e sincera che un percorso comune è ancora effettivam­ente possibile.

( traduzione dall’inglese di Maria Sepa)

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ILLUSTRAZI­ONE DI BEPPE GIACOBBE

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