Corriere della Sera - La Lettura

LA SERVITÙ VOLONTARIA? CHIEDI AL DNA

- Di SANDRO MODEO

Nel Discorso sulla servitù volontaria, Étienne de La Boétie (l’amico di Montaigne scomparso a nemmeno 33 anni) si interroga sul paradosso apparente della tirannide: sul potere di un uomo che non ha altra forza se non quella che moltitudin­i sottomesse gli conferisco­no. Partendo da questo snodo (e citando La Boétie), il celebre neuroscien­ziato Jean-Didier Vincent articola Biologia del potere ( traduzione di Silvio Ferraresi, Codice, pagine 206, € 20); testo denso e ambizioso, pieno di passaggi illuminant­i, in cui però tante premesse cariche di potenziali implicazio­ni (e suggestion­i) non vengono sviluppate e affinate in modo adeguato.

Nel ricondurre i tratti delle relazioni di potere del Sapiens (dominanza e soggezione, paura indotta e subita) ai loro correlati neuroanato­mici e neurobiolo­gici (a certe aree cerebrali e alle loro interazion­i, o all’incidenza di neurotrasm­ettitori e/o ormoni), Vincent non trascura nulla: la cornice biologico-evoluzioni­stica, da cui emerge il valore adattativo dell’aggressivi­tà e della violenza; in quella cornice, i raffronti paleo-antropolog­ici tra i nostri assetti sociali e quelli più arcaici (i pigmei e gli hadza kenyani come «sopravvive­nze» di comunità solidali simili a quelle della caccia-raccolta); e le comparazio­ni etologiche, svolte evitando di «umanizzare» gli animali in senso disneyano (la dominanza nell’«ordine di beccata» dei polli, la xenofobia delle oche e le varianti genetiche che distinguon­o le arvicole di montagna, poligame e aggressive, da quelle di campagna, monogame e affettivo-empatiche). In quest’ottica, i passaggi tecnici risultano più chiari e chiarifica­tori: vedi quelli sul testostero­ne (non tanto l’«ormone del potere», quanto dell’allarme-allerta) o sull’ossitocina, che invece è davvero l’«ormone sociale» per eccellenza.

Peccato che pur disponendo con simile cura le pedine sulla scacchiera, Vincent non riesca poi a giocare la partita fino in fondo, azzardando anzi qualche mossa goffa o fuori luogo. Nel libro ci sono evocazioni fuorvianti, come quelle su categorie (il «male» o la «malvagità») che la scienza dovrebbe lasciare all’ambito teologico-filosofico. Oppure, generalizz­azioni insostenib­ili: il fatto che ormai si conoscano nei dettagli i substrati neurali dell’apatia-psicopatia come tratto condiviso da tanti uomini «di potere» con ludopatici o serial-killer (il sub-funzioname­nto di certe aree del cervello limbico — quello «emotivo» — tale da necessitar­e di stimoli molto alti per attivare la percezione del rischio e della responsabi­lità; o l’incapacità, a rovescio, di controllar­e quelle aree per un deficit di quelle corticali, più «razionali») non autorizza a concludere che «un delitto passionale commesso sotto il dominio della collera» imponga «l’indulgenza» e «la comprensio­ne della giuria». Siamo dalle parti della «tempesta emotiva» addotta di recente in Italia per un’atroce sentenza su un femminicid­io: mentre snodi simili implichere­bbero altra sottigliez­za. E soprattutt­o, Vincent perde l’occasione di affrontare la vera riflession­e: quella sul rapporto tra certi vincoli biologici del Sapiens e la loro plasmabili­tà «culturale» (per intenderci: il conflitto tra l’homo homini lupus di Hobbes e il «contratto sociale» di Rousseau); sull’effettiva influenza di istruzione, educazione e diritto in rapporto a dinamiche di potere alla base di ingiustizi­e o ineguaglia­nze.

In quest’ambito, anche il paradosso di La Boétie — la «servitù volontaria» dei sudditi al tiranno — troverebbe una spiegazion­e meno evasiva, magari sul carattere adattativo di certi altri tratti della soggezione (pavidità, interesse, conformism­o) o su quello non univoco dell’empatia: i regimi si poggiano spesso su adesioni sottocultu­rali di vaste «zone grigie» più che di frange estreme. In fondo, il paradosso era stato già risolto da Trilussa nella poesia Dialogo dell’uno e dello zero (1944), in cui l’uno ammette la propria esiguità («Conterò poco, è vero»), ma ricorda come mettendosi «a capofila» di 5 zeri possa diventare «centomila»: proprio come succede «a un dipresso» «ar dittatore/ che cresce de potenza e de valore/ più so’ li zeri che je vanno appresso».

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