Corriere della Sera - La Lettura
Il voto quadratico
Finlandia, Israele, Giappone: aumentano i Paesi che cercano vie nuove per la democrazia. La formula basata su cicli elettorali dall’orizzonte ristretto ormai non soddisfa i giovani La proposta più interessante arriva da un movimento nato negli Usa: il pr
Qualche settimana fa la cittadina di Fall River in Massachusetts è stata chiamata al voto per decidere se rimuovere il sindaco, Jasiel Correia, arrestato per reati tributari e per aver truffato investitori che gli avevano affidato i loro risparmi: anziché usare i soldi ricevuti per sviluppare nuove app destinate al mercato, li aveva spesi per comprare gioielli, una Mercedes e pagarsi la campagna elettorale. Il 61% degli elettori ha votato per la sua rimozione contro un 38% (4.900 voti) favorevole a tenerlo in carica. Un verdetto chiaro. Ma il referendum conteneva un secondo quesito: chi volete come nuovo sindaco? Correia si è ripresentato insieme ad altri quattro candidati. Ha avuto 4.800 voti, quasi gli stessi del primo ballot. Poiché nessuno degli altri aspiranti sindaci ha fatto meglio, Jasiel è rimasto al suo posto. Paradossi della democrazia.
Dietro la sorprendente fragilità che le liberaldemocrazie occidentali stanno mostrando, non ci sono solo le spallate del populismo nelle sue varie declinazioni: c’è anche il funzionamento distorto di un capitalismo che non riesce più a tutelare il benessere della maggioranza dei cittadini e la difficoltà di integrare, in società sempre più complesse, gli strumenti di democrazia diretta con le istituzioni di quella rappresentativa.
Le polemiche italiane sulla piattaforma Rousseau contengono tutti gli elementi di cui si discute oggi nel mondo: voglia di decisioni dirette dei cittadini tagliando fuori la mediazione dei rappresentanti eletti, uso della tecnologia nei processi decisionali, diffidenza verso esperti e professionisti della politica. Ma anche i timori di hackeraggio, i rischi dell’incompetenza e delle decisioni affrettate o prese senza tener conto di tutte le implicazioni (basti pensare alla Brexit). E, poi, il pericolo che, anziché verso una democrazia digitale perfetta, si vada verso un confuso assemblearismo destinato ad aprire la strada all’«uomo forte», magari mascherato da benevolent dictator secondo il modello di Singapore.
Ma — pur con tanti dubbi e timori — discussioni e iniziative per rimpiazzare o correggere le istituzioni politiche aumentando la partecipazione dei cittadini alle scelte si moltiplicano ovunque: dai tentativi di democrazia diretta a Taiwan al «bilancio municipale partecipativo» che, inaugurato da alcune città brasiliane, ora viene sperimentato a Madrid. Si muove timidamente anche Parigi, dove il presidente Macron ha cercato di avviare un dialogo con i cittadini su una loro partecipa
zione ad alcune decisioni di spesa, anche come risposta alla rivolta dei gilet gialli. Negli Stati Uniti — Paese innovativo in tecnologia e negli affari, assai meno in politica — si moltiplicano i fermenti che vanno, spesso, in direzioni diverse e talvolta opposte: dalla «lottocrazia» proposta da accademici come Hélène Landemore di Yale o Alexander Guerrero della Rutgers University (sostituire le elezioni con una selezione casuale dei rappresentanti politici, come avviene oggi per le giurie dei tribunali americani) all’offensiva dei repubblicani che, in controtendenza rispetto alle loro storica ostilità al centralismo e allo statalismo, in 27 Stati dell’Unione a partire dalla Florida stanno cercando di tornare indietro, limitando la possibilità dei cittadini di decidere su cose importanti via referendum.
Tra gli esploratori di nuovi modelli di rappresentanza politica, l’avanguardia forse più interessante è quella del movimento RadicalxChange che si ispira alle proposte di Radical Markets, un saggio pubblicato un anno e mezzo fa da Glen Weyl ed Eric Posner (vedi «la Lettura» #339 del 27 maggio 2018). Un progetto che va da una drastica revisione del capitalismo con la proprietà spesso trasformata in una sorta di affitto attraverso l’uso della leva tributaria, alla modifica della rappresentanza politica con l’introduzione del cosiddetto voto quadratico: il principio «una testa un voto» sostituito dall’assegnazione di un pacchetto di voti che ogni elettore potrà spendere a seconda dei suoi interessi, magari concentrando i suffragi su certe istanze e ignorandone altre (con un meccanismo matematico di correzione per evitare eccessivi addensamenti di preferenze).
«È un sistema che dovrebbe mettere al riparo da rischi di una dittatura della maggioranza e favorire l’emergere delle proposte più valide», spiega a «la Lettura» Glen Weyl, economista di Princeton e responsabile della ricerca sociale di Microsoft che abbiamo incontrato a Detroit, al primo raduno della sua organizzazione. Un meeting al quale hanno partecipato, oltre ad attivisti, accademici, imprenditori e artisti digitali come i matemusicisti, anche molti esponenti stranieri: membri del Parlamento europeo, i rappresentanti dei governi che, come quello di Taiwan, sperimentano nel campo della tecnopolitica, e i delegati di RadicalxChange sparsi in 120 Paesi (il chapter italiano è affidato a Giovanni Di Lauro, computer scientist di formazione bocconiana che studia applicazioni per la blockchain e svolge ricerche sulla teoria dei giochi).
Taiwan, che solo dagli anni Novanta tiene elezioni libere, ha sviluppato una robusta società civile con molti attivisti digitalizzati che hanno creato un sistema di auditing popolare per controllare il bilancio dello Stato. In un Paese nel quale la banda larga è quasi un diritto civile (ce l’ha l’87% degli abitanti sopra i 12 anni di età), il governo, inizialmente perplesso, ha preso a collaborare con il movimento Government Zero. Billy Zhe-wei Lin, delegato di questa struttura, ci ha raccontato come
le proposte emerse da una piattaforma che ha, ormai, 4 milioni di partecipanti, vengano discusse dal governo che le fa sue se lo ritiene opportuno o spiega perché non possono essere accolte. Formulate e messe in competizione tra loro in un forum chiamato Presidential Hackathon, alcune di queste proposte sono state non solo accolte ma anche esportate (per esempio in Nuova Zelanda). «Quest’anno per la prima volta — racconta Lin — le proposte verranno selezionate usando il voto quadratico».
Un metodo innovativo di espressione delle preferenze che proprio in questi giorni, in America, viene utilizzato in via sperimentale anche dal Parlamento dello Stato del Colorado per definire le priorità di bilancio.
Ma bastano questi piccoli passi per far decollare un movimento che punta a cambiamenti politici e sociali radicali? Weyl parte da lontano: «La forza della rivoluzione americana, rispetto a quella francese, assai più cruenta, è stata la capacità di far maturare riforme radicali dal basso senza mettere inizialmente in discussione l’autorità di re Giorgio III. Il governo dei coloni americani subentrò al regime britannico solo quando le nuove istituzioni create dal basso si consolidarono, conquistando un vasto consenso popolare. Credo che anche oggi vada seguito lo stesso percorso. Continuando a collaborare anche con le istituzioni esistenti. Noi discutiamo con i conservatori britannici e con i laburisti norvegesi. Al Parlamento di Strasburgo abbiamo un rapporto con il gruppo socialista ma alla nostra convention di Detroit l’unico politico americano sul palco è stato un repubblicano».
A RadicalxChange ci sono anche aziende innovative che espongono i loro servizi. Soprattutto start up che utilizzano la tecnologia della blockchain con un obiettivo sociale: come Streamr che, a partire da luglio, offrirà a ogni utente la possibilità di mettere in vendita i suoi dati personali, stabilendo fino a che punto accetta forzature della sua privacy. A Detroit «la Lettura» incontra anche Paul Tang: parlamentare europeo olandese del Partito del Lavoro che ha fondato in Olanda, Belgio e Austria (e ora cerca di allargare altrove), il Data Labour Union: un sindacato che va nella stessa direzione di Streamr ma punta a ottenere una compensazione collettiva dei cittadini per lo sfruttamento dei loro dati in un negoziato con i giganti di internet.
Fughe in avanti velleitarie? Forse: Cass Sunstein, costituzionalista di Harvard che nella Casa Bianca di Obama era l’uomo dell’ammodernamento delle regole, invita alla prudenza citando il monito di un padre fondatore degli Stati Uniti, James Madison, per il quale le comunità che aspirano troppo al decentramento e all’autogoverno corrono il rischio della disintegrazione sociale.
Ma, pur consapevoli di questi pericoli, cresce il numero di Paesi che cercano vie nuove per la democrazia perché la formula attuale, basata su cicli elettorali che guardano a orizzonti politici di breve termine, non riesce a dare risposte alle future generazioni: i cittadini di domani. Dalla Finlandia, che ha istituito una commissione parlamentare per il futuro che esamina l’impatto di ogni legge sulle future generazioni, a Israele, che per alcuni anni ha avuto un ombudsman delle future generazioni (figura poi soppressa perché aveva acquistato troppo potere). Mentre in Giappone cresce il peso di Future Design, il movimento guidato dall’economista Tatsuyoshi Saijo che nelle riunioni cerca di immaginare il mondo del 2060 e chiede l’istituzione di un ministero del Futuro. Progetto avveniristico? Macché: è ispirato al Principio della Settima generazione delle tribù indiane d’America che, prima di prendere una decisione, si chiedevano che impatto avrebbe avuto dopo 150 anni. Dopo sette generazioni, appunto.