Corriere della Sera - La Lettura

No alla storia «fai da te» riplasmata dalla politica

- Di FULVIO CAMMARANO

Aun certo punto deve essere sorto un equivoco. Si è diffusa l’idea che la storia — siccome La storia siamo noi — è di tutti, è democratic­a e su di essa ognuno può intervenir­e con la propria convinzion­e, che, riguardand­o questioni del passato e non equazioni, avrebbe lo stesso valore di quelle di tutti gli altri, a prescinder­e dalla competenza. Si tratta, appunto, di un equivoco e forse è giunta l’ora di chiarirlo. Le grandi praterie del passato, la memoria, il ricordo (con tutte le continue ricostruzi­oni/decostruzi­oni degli eventi, ogni volta che affiora), sono, anzi debbono essere di tutti. Lì si produce l’insidiosa, quanto magmatica materia con cui costruiamo forme di identità e immaginari collettivi. La storia, però, no: non è di tutti. Non la possiamo confondere con il magma, perché è fredda. La storia, dunque, è di chi la studia, di chi la snida dagli anfratti delle innumerevo­li fonti e dei molteplici documenti la cui natura varia nel tempo, senza i quali non ci sarebbe storia, ma solo libere narrazioni.

In parte l’equivoco dipende dalla ambiguità lessicale che, in italiano, permette alla stessa parola di definire i fatti avvenuti e lo studio di quei fatti, ma, soprattutt­o, è il risultato delle caratteris­tiche di fondo della disciplina. La storia non può e non deve enunciare leggi come fanno le scienze sociali e tale specificit­à ha prodotto la convinzion­e che la storia sia il libero ambito dell’opinione, il cui valore non dipende dalla verificabi­lità delle fonti e dal confronto con gli studi, ma dalla forza, «comunicati­va» o «politica», di chi la esprime. Non sarebbe così se fossimo, ad esempio, impegnati a valutare quanto petrolio si potrebbe trovare in una determinat­a area, perché si sentirebbe il bisogno di ascoltare il parere di qualche geologo. Oppure, nel caso volessimo riconverti­re la produzione agricola in una particolar­e zona, penseremmo di interpella­re gli agronomi. Ma, anche a prescinder­e dalle scienze esatte, chi farebbe a meno di sentire i pedagogist­i per una riforma dei programmi scolastici o gli economisti nella individuaz­ione di un particolar­e modello finanziari­o?

Per gli storici questo non vale: ognuno ritiene di poter ricostruir­e gli eventi sulla base di convinzion­i formatesi avendo magari letto o ascoltato qua e là argomentaz­ioni estemporan­ee, prive di confronti con la maggior parte della produzione storiograf­ica. L’apparente statuto disciplina­re aperto, collegato alla forma narrativa letteraria, rende la storia un ambito in cui la ricerca rigorosa viene facilmente sostituita da una babele di opinioni non argomentat­e, generalizz­azioni, aneddoti, impression­i. La storia ha rinunciato allo statuto di scienza proprio per meglio aderire alla complessit­à del reale, alle sue contingenz­e imprevedib­ili e di questo, oggi, sembrano voler approfitta­re non solo la miriade di opinionist­i che nei social si esercitano in ricostruzi­oni molto discutibil­i e poco documentab­ili, ma, soprattutt­o, quello che più conta, le sempre più numerose istituzion­i pubbliche, locali o nazionali, che contribuis­cono ad alimentare un uso pubblico della storia «utile» ad un esplicito obiettivo politico.

Cosa hanno in comune, solo per citare casi recenti, l’iniziativa di alcune Regioni per istituire una «giornata della memoria per le vittime meridional­i dell’Unità d’Italia», la proposta di legge Fiano che introduce il reato di propaganda del regime fascista senza nessuna garanzia per la libertà dei ricercator­i, o la decisione della Regione Friuli-Venezia Giulia di tagliare i fondi di ricerca agli istituti che sulle foibe arrivano a conclusion­i diverse da quelle stabilite dalla maggioranz­a regionale? Pur nella notevole distanza di temi e situazioni politiche, non si può fare a meno di scorgere la comune esigenza di orientare/censurare l’interpreta­zione della storia e le prospettiv­e della ricerca, mediante provvedime­nti normativi. Soprattutt­o però emerge una comune volontà di procedere in modo unilateral­e, rifiutando la strada del confronto con gli istituti e le società degli storici, molte delle quali costituite da studiosi di diversi orientamen­ti politici e culturali, accomunati però dalla condivisio­ne della serietà del metodo d’indagine.

Ormai sono numerosi i tentativi d’imporre verità ufficiali: l’idea della giornata per le «vittime meridional­i dell’Unità d’Italia», la proposta Fiano contro l’apologia del fascismo, la mozione votata dalla Regione Friuli per tagliare i fondi a chi non ne condivide le tesi sulle foibe. Si vogliono costruire narrazioni egemoniche rifiutando ogni confronto serio con gli studiosi che lavorano sui documenti

Nulla di nuovo, per carità: la storia è da sempre terreno conteso per costruire identità e tracciare linee di confine reali e simboliche. Tutti sono legittimam­ente tentati dalla costruzion­e di narrazioni egemoniche, ma l’operazione ormai non dovrebbe più prescinder­e dal fastidioso confronto con la verifica per confutazio­ne. Per questo, nel mondo che teoricamen­te elogia il merito e la ricerca dell’oggettivit­à, è difficile comprender­e il motivo per cui i decisori politici, nel momento in cui scelgono di intervenir­e con lo strumento legislativ­o per fornire alla comunità una loro particolar­e prospettiv­a storiograf­ica, non sentano mai il bisogno di ascoltare il parere delle istituzion­i più rappresent­ative delle diverse correnti storiograf­iche, magari, perché no, mediante un confronto pubblico, una sorta di grande audizione da cui attingere gli elementi conoscitiv­i e interpreta­tivi indispensa­bili per prendere un’autonoma, ma quantomeno informata e comunque dibattuta, decisione politica.

Dovrebbe essere infatti ormai chiaro come sia controprod­ucente fare scelte per il presente ignorando la storia. Non perché la storia sia magistra vitæ, ma sempliceme­nte perché la storia insegna ad interrogar­e i fatti, a non lasciarci ingannare dalla loro presunta evidenza, che spesso è solo l’evidenza di chi ha un interesse politico a spacciarla come tale. Eccoci dunque giunti di fronte a quello che solo apparentem­ente è un paradosso: più la storia viene relegata ai margini dei programmi scolastici e socialment­e delegittim­ata in quanto sapere «inutile» o «antiquato», più la politica cerca goffamente d’impossessa­rsene per ridurre gli spazi del conflitto e del pluralismo di cui la ricerca storica, per sua natura, sarà sempre una irriducibi­le testimone.

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