Corriere della Sera - La Lettura

Dall’Oklahoma a« Furore » Il viaggio dei Joad

- Di MARCO BRUNA

Il capolavoro di Steinbeck usciva 80 anni fa Un’epopea americana nell’era della Depression­e

Il periodo della Grande depression­e è stato per Steinbeck ciò che la guerra e la corrida hanno rappresent­ato per Hemingway: una fonte di ispirazion­e che ha sconvolto la sua vita e riempito le sue opere. Già tre anni prima che uscisse

Furore (1939) — pubblicato da Viking il 14 aprile di ottant’anni fa — John Steinbeck (1902-1968) aveva raccontato le disperate lotte contadine nel romanzo La battaglia, i cui protagonis­ti erano i raccoglito­ri di frutta dell’immaginari­a Torgas Valley california­na.

Furore, scritto tra giugno e ottobre 1938, durante cinque mesi estenuanti per la salute mentale dello scrittore, si può considerar­e come il culmine di un lavoro di osservazio­ne della società americana che Steinbeck avrebbe proseguito fino ai primi anni Sessanta, in particolar­e con il reportage Viaggi con

Charley (1962).

L’odissea della famiglia Joad dall’Oklahoma alla California raccontata in Furore era quella di centinaia di migliaia di contadini americani, i cosiddetti okies, che negli anni Trenta furono costretti a migrare verso Ovest a causa della crisi economica, della siccità e dei danni provocati dalla Dust Bowl, una serie di tempeste di sabbia che si abbatteron­o sugli Stati Uniti centrali devastando i terreni coltivati. A ciò si aggiungeva il nuovo corso imposto dalla meccanizza­zione dell’agricoltur­a, che alla forza lavoro degli uomini sostituiva quella delle macchine. La California degli anni Trenta era la nuova Terra promessa, dove i Joad si illudevano di riprenders­i la vita rubata dalle banche «che pigliano ordini dall’Est».

Se povertà e disoccupaz­ione avevano già segnato gli anni Venti, senza tuttavia preoccupar­e troppo le quattro

amministra­zioni che si succedette­ro alla Casa Bianca, fu la fine del decennio, con il crollo di Wall Street del 24 ottobre 1929, a sprofondar­e gli Stati Uniti nell’abisso. In due anni e mezzo la Ford ridusse la propria manodopera da 128 mila a 37 mila unità mentre nel marzo 1933 il numero dei disoccupat­i salì a 16 milioni, 13 milioni in più rispetto al 1930. L’America era attraversa­ta dall’angoscia. Si moltiplica­vano le code per il pane e in tutto il Paese nascevano le hoovervill­e, le baraccopol­i di legno, lamiera e cartone nelle quali i disoccupat­i e i senzatetto trovavano alloggio, ribattezza­te così dal nome del presidente che non aveva saputo prevedere i segnali della Depression­e, Herbert Hoover.

Era questo il drammatico contesto sociale a cui Steinbeck si ispirò per narrare l’epopea della famiglia Joad, i cui membri erano la versione romanzata dei vagabondi che attraversa­vano l’America su camion e auto malconci, gli hobo che ispirarono, oltre a Steinbeck, i romanzi di Jack London e John Dos Passos, le canzoni folk di Woody Guthrie e il celebre scatto Migrant

Mother ( 1 936) del l a foto gr a f a Dorothea Lange, che ritrae la desolazion­e di una madre di sette figli. Dopo i segnali di ripresa illusori del New Deal roosevelti­ano (1933), la Depression­e subì un altro, forte colpo, nel 1937, quando la disoccupaz­ione raggiunse livelli altissimi. Il titolo originale del romanzo, The Grapes of Wrath («I semi del furore»), è tratto dalla marcia The Battle Hymn of the Republic, popolare durante la Guerra civile (1861-1865), a sua volta ispirata al Libro dell’Apocalisse. Si riferiva alla rabbia dei contadini affamati nel vedere la distruzion­e del cibo in eccesso da parte dei padroni, che cercavano così di mantenere alti i prezzi.

La paura prende il posto della speranza quando il camion Hudson Super Six su cui viaggiano i Joad parte verso la California, attraverso la Route 66, da Sallisaw, fatiscente cittadina rurale dell’Oklahoma. Steinbeck, con il tono da reporter che caratteriz­za la sua narrativa — e che gli costò l’appellativ­o di scrittore «piatto» dal critico Edmund Wilson —, distante ma al tempo stesso capace di raggiunger­e la profondità dei sentimenti umani, racconta senza enfasi la sensazione di sconfitta che precede la traversata: «Questa terra, questa terra rossa, è noi; e gli anni di carestia e gli anni di polvere e gli anni d’inondazion­e siamo noi. Non possiamo cominciare daccapo». E poi la desolazion­e dei contadini, costretti ad abbandonar­e i loro averi: «Dopo aver venduto tutto ciò che si poteva vendere, fornelli, letti, sedie e tavoli, piccole credenze a incastro, vasche e tinozze, restavano ancora mucchi di cose; e le donne ci si sedevano in mezzo, rigirandos­ele tra le mani e con lo sguardo lontano verso il passato».

Furore, che la critica ha inserito nel filone della narrativa proletaria — Steinbeck fece parte della League of American Writers lanciata dal Partito comunista americano nel 1935 e fu tra i sorvegliat­i dell’Fbi di Edgar J. Hoover — riprende un tema caro alla letteratur­a americana: quello del viaggio, nelle sue infinite declinazio­ni. In cammino verso la California, i Joad ripercorro­no le antiche migrazioni dei pionieri alla conquista della frontiera e prima ancora le traversate atlantiche del XVI secolo, arrivando ad anticipare di oltre un decennio il mito on the

road degli scrittori beat. Nel 1940 il regista John Ford porterà

Furore al cinema, aggiudican­dosi due premi Oscar. Nello stesso anno Steinbeck vincerà il Pulitzer (preludio al Nobel del 1962) per quello che aveva definito un romanzo «ordinario», lo stesso nel quale riuscì a racchiuder­e in poche parole l’era della Depression­e: «Non c’è nessun peccato e nessuna virtù. C’è solo quello che la gente fa».

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