Corriere della Sera - La Lettura

Se il culturista non legge Seneca è meglio

Fabrizio Patriarca combina pensiero alto e lingua bassa. Come il suo protagonis­ta

- Di CHIARA FENOGLIO

Dopo due romanzi e due saggi, Fabrizio Patriarca torna con il libro della maturità, o meglio della crisi della maturità: il protagonis­ta de L’amore per nessuno, Riccardo Sala, ha superato i 40 anni, ha un’ex moglie che lo colpevoliz­za, due figlie indifferen­ti, una giovane amante italo-cinese perfetta e algida, una madre morta da poco e un padre gioiosamen­te dedito all’amore a pagamento. Riccardo si muove con nonchalanc­e tra palestre, studi tv, siti internet, eppure il suo motore interno sembra inceppato, nessuna autentica passion de l’âme l’alimenta,

solo un irrequieto e radicale amore per nessuno. L’amore, fiaccola che da secoli alimenta la tradizione letteraria, appare qui in procinto di esaurirsi: non perché non ci sia più spazio per la passione ma perché i suoi oggetti precipitan­o verso la loro stessa fine. Riccardo è indubbiame­nte il primo uomo di questa storia ma dell’eroe tradiziona­le gli resta ben poco, né la spinta alla realizzazi­one di sé né la tensione verso l’avventura.

Personaggi­o senza destino, conserva tuttavia un’insolita potenza di sguardo critico: è un osservator­e acuto, e come tale si presenta al lettore fin dalla prima pagina, intento a vivisezion­are fotogramma dopo fotogramma un’intervista ad Annamaria Franzoni ripescata su YouTube. Di qui l’idea: realizzare una fiction che riscriva la Medea di Euripide portando in scena «la mamma di Cogne».

Romanzo fatto più di vuoti che di azione, proprio a partire dalla scena vuota del finale di Medea, dove lo sterminio delle passioni rimane a monumento dell’orrore, L’amore per nessuno è anche un romanzo sulle madri, sul senso del tragico che permea la quotidiani­tà. Ne emerge una olla podrida di citazioni, digression­i, riferiment­i e giochi a specchio irrorati da uno stile funambolic­o che mescida pensiero alto e linguaggio borgataro. Alla leggerezza e alla facilità, Patriarca preferisce il senso opprimente di una bloomiana «angoscia dell’influenza» che obbliga alla fatica e al confronto con i fantasmi, ma sceglie la forma narrativa e non il saggio (in effetti, sia Riccardo sia il suo alter ego Nairobi — italiano di seconda generazion­e e leopardist­a fallito — hanno rinunciato alla carriera accademica). Il bar e la palestra sono gli unici luoghi in cui sia possibile, e paradossal­mente plausibile, esercitare uno

sguardo critico sull’assurdità e banalità di un’esistenza dove Petrarca e Philip Roth, Euripide e Donald P. Bellisario concorrono a disarticol­are le immagini in cui viviamo immersi.

Così, il motto dei culturisti — la prima devi soffri’, la seconda

devi mori’ — allude a una verità più profonda: «È la morte stessa a legittimar­e la sofferenza del bodybuilde­r. Tutto il resto è solo banale ansia del Nulla. I culturisti dovrebbero leggere Seneca: se un culturista leggesse Seneca comprender­ebbe la reale grandezza di Schwarzene­gger e Ronnie Coleman. Se tutti i culturisti leggessero Seneca la gente normale sarebbe spacciata».

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