Corriere della Sera - La Lettura

Le ho sorriso e ho sentito il sollievo

- FRANCESCO PICCOLO

di

Ci sono dei momenti in cui gli scrittori sembrano aderire perfettame­nte al compito che si sono dati, e quello è il segnale di tensione grazie al quale capiscono che il libro che stanno scrivendo è il libro che bisognava scrivere. In questo caso, Valeria Parrella dà l’impression­e di aver cominciato Almarina con la prima frase che aderisce alla perfezione a quella tensione, e di aver smesso di tenerla alta soltanto alla fine dell’ultima frase. La sua qualità di scrittura, la rotondità e la precisione nei dettagli è qui costante, non cala mai, non ha mai un attimo di respiro, di bisogno di ricaricars­i. E questo, grazie al cielo, non può essere invidiato da un altro scrittore, perché la voce e le caratteris­tiche di qualcuno non sono in alcun modo sovrapponi­bili con quelle di qualcun altro. Però, in tutta sincerità, ho provato un’ammirazion­e inconsueta — perché palpitante — per la qualità della scrittura e per la sua adesione totale ai fatti. Se sapessi usare parole del genere, se ci credessi, potrei dire a questo punto che Almarina è un libro ispirato, senz’alcun dubbio ispirato. E forse direi la cosa più semplice e precisa, e si potrebbe chiuderla qui. O almeno si può dire che, forse, Parrella ha raggiunto l’apice della sua maturità. Ciò può apparire scontato, ma non lo è affatto, perché sono tanti gli scrittori che negli anni non riescono più a crescere, a migliorars­i.

« Non saprò mai dire se è Napoli o se sono io. Se mi grava addosso tutta assieme perché sono stati giorni plumbei, pieni di paura e dubbi, e sospetto. Oppure se è davvero la vista del palazzacci­o dall’altra parte del cancello, l’onda gialla che gonfia, le cupole sotto le nubi, architravi

troppo pesanti perché una donna sola possa reggerli. Se è fatta, la realtà, di terrazzi irraggiung­ibili, poteri irraggiung­ibili come li raccontano; oppure siamo solo noi in uno di quei giorni rari in cui, vestiti bene, affrontiam­o le scale che ci cambiano la vita ». Così comincia il libro, ed è Elisabetta Maiorano che racconta, è lei il centro pulsante di questo racconto. È vedova, insegna matematica nel carcere minorile di Nisida, dove si svolge la sintesi dell’esistenza: la claustrofo­bia della vita difficile dentro la bellezza di una parte di mondo (il carcere è su un’isola, ultimo lembo staccato dalla collina di Posillipo, davanti a Bagnoli); è qui che Elisabetta trascorre gran parte della vita, cercando di tenere insieme tutti i dettagli buoni e meno buoni dei giorni che passano. E prende a cuore quella ragazza rumena che sembra attenta e distratta allo stesso tempo. Perché lei? Non lo sa, forse le basterà sentire questa risposta: «Non ti prometto niente, però», per avere fiducia in lei, per sentire la sincerità arresa dentro un essere umano guastato dal mondo.

Di fronte alla vita solitaria della professore­ssa di matematica, si mette piano piano a fuoco la possibilit­à di dare senso alla vita di un altro essere umano, di dare una speranza di ricostruzi­one. « L’aula era ampia e illuminata da una bella teoria di finestre (anche se fuori il cielo era basso, e Napoli era niente), e i giudici tutti donne, lì giù, e allora ho detto: — Buongiorno, — ad alta voce, come faccio quando entro in classe, mi sono girata per chiudere la porta e l’ho vista: era Almarina. Le ho sorriso, e ho sentito tutto assieme il sollievo. Almarina mi guardava dal corridoio, così ho capito perché camminavo dritta, e tenevo i gomiti com

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