Corriere della Sera - La Lettura
Le ho sorriso e ho sentito il sollievo
di
Ci sono dei momenti in cui gli scrittori sembrano aderire perfettamente al compito che si sono dati, e quello è il segnale di tensione grazie al quale capiscono che il libro che stanno scrivendo è il libro che bisognava scrivere. In questo caso, Valeria Parrella dà l’impressione di aver cominciato Almarina con la prima frase che aderisce alla perfezione a quella tensione, e di aver smesso di tenerla alta soltanto alla fine dell’ultima frase. La sua qualità di scrittura, la rotondità e la precisione nei dettagli è qui costante, non cala mai, non ha mai un attimo di respiro, di bisogno di ricaricarsi. E questo, grazie al cielo, non può essere invidiato da un altro scrittore, perché la voce e le caratteristiche di qualcuno non sono in alcun modo sovrapponibili con quelle di qualcun altro. Però, in tutta sincerità, ho provato un’ammirazione inconsueta — perché palpitante — per la qualità della scrittura e per la sua adesione totale ai fatti. Se sapessi usare parole del genere, se ci credessi, potrei dire a questo punto che Almarina è un libro ispirato, senz’alcun dubbio ispirato. E forse direi la cosa più semplice e precisa, e si potrebbe chiuderla qui. O almeno si può dire che, forse, Parrella ha raggiunto l’apice della sua maturità. Ciò può apparire scontato, ma non lo è affatto, perché sono tanti gli scrittori che negli anni non riescono più a crescere, a migliorarsi.
« Non saprò mai dire se è Napoli o se sono io. Se mi grava addosso tutta assieme perché sono stati giorni plumbei, pieni di paura e dubbi, e sospetto. Oppure se è davvero la vista del palazzaccio dall’altra parte del cancello, l’onda gialla che gonfia, le cupole sotto le nubi, architravi
troppo pesanti perché una donna sola possa reggerli. Se è fatta, la realtà, di terrazzi irraggiungibili, poteri irraggiungibili come li raccontano; oppure siamo solo noi in uno di quei giorni rari in cui, vestiti bene, affrontiamo le scale che ci cambiano la vita ». Così comincia il libro, ed è Elisabetta Maiorano che racconta, è lei il centro pulsante di questo racconto. È vedova, insegna matematica nel carcere minorile di Nisida, dove si svolge la sintesi dell’esistenza: la claustrofobia della vita difficile dentro la bellezza di una parte di mondo (il carcere è su un’isola, ultimo lembo staccato dalla collina di Posillipo, davanti a Bagnoli); è qui che Elisabetta trascorre gran parte della vita, cercando di tenere insieme tutti i dettagli buoni e meno buoni dei giorni che passano. E prende a cuore quella ragazza rumena che sembra attenta e distratta allo stesso tempo. Perché lei? Non lo sa, forse le basterà sentire questa risposta: «Non ti prometto niente, però», per avere fiducia in lei, per sentire la sincerità arresa dentro un essere umano guastato dal mondo.
Di fronte alla vita solitaria della professoressa di matematica, si mette piano piano a fuoco la possibilità di dare senso alla vita di un altro essere umano, di dare una speranza di ricostruzione. « L’aula era ampia e illuminata da una bella teoria di finestre (anche se fuori il cielo era basso, e Napoli era niente), e i giudici tutti donne, lì giù, e allora ho detto: — Buongiorno, — ad alta voce, come faccio quando entro in classe, mi sono girata per chiudere la porta e l’ho vista: era Almarina. Le ho sorriso, e ho sentito tutto assieme il sollievo. Almarina mi guardava dal corridoio, così ho capito perché camminavo dritta, e tenevo i gomiti com