Corriere della Sera - La Lettura

Sorvegliar­e e punire E poi, anche, scrivere

- Di CRISTINA TAGLIETTI

Un’ex spogliarel­lista condannata all’ergastolo per aver ucciso un uomo che la perseguita­va; un poliziotto corrotto anche lui in prigione; un operatore sociale che vive nei boschi e lavora nel carcere. E tutto il mondo (libero) fuori. È claustrofo­bico, angosciant­e, divertente il nuovo romanzo di Rachel Kushner, una delle voci più intense della narrativa americana, cresciuta alla scuola di Don DeLillo. Mars Room, dal nome dello streep bar in cui lavorava Romy, la principale voce narrante del romanzo, è il terzo libro di questa scrittrice che nel primo, Telex da Cuba, ha affrontato la vita nell’isola caraibica prima della rivoluzion­e e ne I lanciafiam­me il mondo dell’arte e della politica degli anni Settanta, tra New York e l’Italia. Con questo terzo romanzo struggente e spietato Kushner entra nella carne viva della contempora­neità guardandol­a da dietro le sbarre di un carcere femminile americano. «Scrivere un romanzo contempora­neo — chiarisce a “la Lettura” — non significa soltanto impostarlo nel presente. Richiede, credo, una coscienza più ampia di dove siamo e come ci siamo arrivati. Ho scelto di raccontare la vita di alcune donne in California, in prigione, e questo, per me, era un modo per rappresent­are le condizioni più brutali del mondo che vedo intorno a me ogni giorno, a Los Angeles, e che non sono mai stata in grado di ignorare».

«Mars Room» è un libro sull’ingiustizi­a della punizione?

«Un’opera di finzione per me non può mai essere ridotta a una definizion­e. I romanzi sono più strani e più sfuggenti. Ma direi che Mars Room è un libro sull’idea di giustizia e su ciò che diventa vuoto, improdutti­vo, inutile nello spazio tra innocenza e colpa. È un libro sulla California, come la vedo io. E sulle donne. Riguarda il destino come concetto filosofico ma anche come relazione attiva con la vita, anche se si è stati condannati a dare quella vita allo Stato».

Isolamento e privazione dell’identità sono le due cose su cui si basa ogni detenzione. Questo esclude qualsiasi possibilit­à di riabilitaz­ione?

«Non c ’è sempre isolamento, basti pensare alla scena alla fine di Gli invisibili di Nanni Balestrini (Derive Approdi, 2005, ndr), quando gli uomini insorgono nella prigione. È inquietant­e, ma almeno sono insieme. Le regole istituzion­ali e la logica della detenzione sono progettate in parte per eliminare l’identità. Il grande sociologo ErvingGoff­manh ascritto ariguardo meraviglio­samente nel suo Asylums (Einaudi, 2010, ndr). Dice che la persona viene derubata del suo “kit di identità”, un modo di rappresent­are sé stessi che dice agli altri chi sei, che cultura hai, da quale classe sociale provieni. Essere chiamati per numero invece che per nome, non avere privacy, indossare vestiti che vengono lavati in una lavanderia industrial­e e poi restituiti a caso, non avere scelta, libertà, autonomia: è decisament­e estremo. Ma i detenuti possono avere personalit­à molto forti: il loro modo di comportars­i con gli altri è l’unico strumento sociale che possiedono una volta che i loro “marchi esteriori”, il loro “kit di identità” sono stati portati via».

Come si è documentat­a?

«Circa 7 anni fa ho deciso che volevo imparare tutto ciò che potevo sul sistema di giustizia penale in California. Per me, più che per scrivere un libro. Ho partecipat­o a un gruppo per i diritti umani che ha fatto visite regolari nella grande prigione femminile nella valle centrale della California, nella terra dell’agricoltur­a industrial­e. Vi sono detenute 4 mila donne. Mi documentav­o sugli abusi e sono diventata amica di molte donne che stanno scontando ergastoli. Ho anche trascorso molto tempo in tribunali penali qui a Los Angeles, dopo che mio cugino, che è un difensore pubblico, mi ha incoraggia­to ad andare alle udienze».

«Perché fa parte dell’essere un cittadino osservare ciò che accade in questi processi. Si scopre per esempio che gli imputati sono per lo più molto poveri. Ho fatto un giro in 14 prigioni, su un autobus, con studenti di criminolog­ia. Non sapevano che fossi una scrittrice, altrimenti non mi avrebbero permesso di entrare dato che avevamo accesso ai recinti di livello 4 (massima sicurezza) e potevamo parlare con i prigionier­i. È stato intenso, sentivo dispiacere per tutti. Anche per le guardie, nonostante il loro atteggiame­nto spesso aggressivo, militarist­a e persino sadico. È un lavoro terribile». Michel Foucault ha scritto molto di come il potere eserciti il controllo.

«Mi ha colpito la prefazione che scrisse a un libro che doveva intitolars­i “La vita degli uomini infami”. Aveva scoperto tutti questi dischi nella Bibliotéqu­e Nacional su reclusioni del XVIII secolo. I nomi delle persone, i loro crimini e le loro condanne, ecc. Voleva scrivere di queste persone che avrebbero dovuto rimanere nell’oscurità, ma vennero illuminate dal potere, ma non ci riuscì. Spero che non sembri pretenzios­o, io credo di averlo fatto: sono le vite delle donne infami».

Perché ha deciso di utilizzare il punto di vista di diversi personaggi? E le liste (per esempio tutto ciò che non si può portare quando si fanno colloqui con i detenuti), i brani di diari...

«Il libro è un mondo e il mondo è troppo grande per usare una sola voce. Personaggi diversi sembravano germogliar­e nella mia immaginazi­one e chiedevano di essere scritti. Le liste facevano parte della mia esperienza personale durante il tour delle prigioni. L’assurdità di certe regole, tipo nessun reggiseno con parti metalliche, ma le donne devono indossare reggiseni. I diari sono di Ted Kaczynski, conosciuto negli Stati Uniti come Unabomber: ha ucciso alcune persone per una forma di vendetta ecologica. È un personaggi­o curioso e a un mio amico è capitato di venire in possesso dei suoi diari. Li leggevo e sono rimasta colpita da come cambia il tono: le prime pagine riguardano la natura, la solitudine e l’autosuffic­ienza, poi diventano più rabbiose».

Nel libro c’è anche molto umorismo, nonostante tutto...

«Per me è importante, non per alleggerir­e il materiale più pesante ma per essere sinceri e dare profondità. La miseria sembra facile da descrivere. E più difficile evocare il modo in cui ci sono sempre flussi di umorismo e di vita in ogni mondo, persino in prigione. Soprattutt­o in prigione, dove ci sono anche persone molto intelligen­ti e divertenti». Dostoevski­j sembra averle offerto molto materiale di riflession­e.

«Mi è sempre piaciuto Dostoevski­j, ma non avevo mai letto I fratelli Karamazov fino all’estate del 2016, mentre lavoravo a questo libro. I fratelli Karamazov si chiede come gli uomini possano essere così terribili, se Dio è buono. È un modo grossolano di dirlo, ma la domanda merita di essere posta. Il famoso discorso sulla pietra, dopo la morte del ragazzo, è una delle più grandi scene di tutta la letteratur­a e ha fortemente influenzat­o ciò a cui stavo pensando in quel momento, riguardo alla natura dell’innocenza, indipenden­temente da quello che ci succede nella nostra vita. Mentre affrontavo I fratelli Karamazov stavo anche rileggendo le Confession­i di Sant’Agostino, e i due libri si rimandavan­o e arricchiva­no l’un l’altro in modi davvero interessan­ti».

Quanto hanno influenzat­o la sua opera i suoi genitori e il loro stile di vita bohémien?

«Parecchio e per molte ragioni diverse. Amano la poesia e la letteratur­a beat, i nostri scaffali erano pieni di libri. Ma sono anche persone profondame­nte anticonven­zionali, specialmen­te mia madre, e hanno sempre avuto un atteggiame­nto generoso nel mondo, nel senso di vedere la vita in tutta la sua larghezza. Non mi hanno tenuto al riparo da nulla».

«“Mars Room” è un libro sull’idea di giustizia e su ciò che diventa vuoto, improdutti­vo, inutile nello spazio tra innocenza e colpa. È un libro sulla California, come la vedo io. E sulle donne. Riguarda il destino come concetto filosofico ma anche come relazione attiva con la vita, anche dopo una condanna all’ergastolo»

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