Corriere della Sera - La Lettura

Il misterioso autoritrat­to nell’affresco ritrovato

- di EDOARDO SASSI

Viaggio (a 40 metri d’altezza) nella cupola di Sant’Andrea delle Fratte a Roma, dove si è appena concluso il restauro dell’«Allegoria della Redenzione» attribuita a Pasqualino da Recanati. È un faccia a faccia con figure gigantesch­e, immerse nella luce e nel colore. Una in particolar­e: quell’uomo che guarda dritto verso il visitatore...

Ametà strada fra piazza di Spagna e Fontana di Trevi, nel cuore della Roma del Seicento, sospesi all’interno di una delle cupole più famose della storia dell’architettu­ra, opera del genio di Francesco Borromini: quella della chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, toponimo derivante dal latino infra hortos, a indicare che qui, cinque secoli fa, a dominare il paesaggio erano prati e campagna.

Oggi, che le fratte non ci sono più, in questa chiesa il cui nome evoca una Roma sparita è stato appena concluso un complesso restauro per riportare alla luce un vasto affresco. Piccoli frammenti di intonaco dipinto erano caduti a terra nei mesi scorsi, allarmando il parroco. A quel punto la Soprintend­enza speciale di Roma ha allertato il Fondo edifici di culto (Fec) del ministero dell’Interno, proprietar­io della chiesa. E insieme i due enti

statali hanno deciso di procedere «con somma urgenza» finanziand­o la messa in sicurezza sia delle pitture, sia degli stucchi della cupola. Lavori iniziati a dicembre e terminati in queste ore grazie a un imponente ponteggio dotato di impianto montaperso­ne. L’interno della cupola infatti non sarebbe stato, e non è mai stato nei secoli, accessibil­e dall’esterno. E lassù, a quaranta metri di altezza, in oltre trecento anni dalla conclusion­e dell’intervento pittorico (1700 circa) sono saliti davvero in pochissimi.

Ultimi, appunto, i restaurato­ri, i quali hanno riportato alla luce colori, profondità e movimento di quest’opera raffiguran­te un’Allegoria della Redenzione. Il dipinto, esteso per circa 230 metri quadrati, occupa l’intera superficie interna della cupola ed è stato attribuito a un pittore ancora oggi poco conosciuto e per certi versi misterioso: Pasquale Andrea Marini, detto Pasqualino da Recanati, dal nome della città dove, forse, nacque. Un’attribuzio­ne ancora senza prove documentar­ie, ma che pure si tramanda da secoli. Di certo si sa solo che l’opera fu finanziata al tempo con soldi delle elemosine dei fedeli, come spiega Alessandra Lanzoni, storica dell’arte della Soprintend­enza e direttore dei lavori insieme all’architetto e responsabi­le unico del procedimen­to, Antonella Neri. «Gregorio Roisecco nel suo Roma antica e moderna, guida pubblicata in tre volumi nel 1750 — raccontano le due studiose — identifica l’autore dell’affresco con Marini, e da allora l’attribuzio­ne è stata variamente ripresa. Grazie alla conoscenza del cardinale Gaspare Carpegna, Marini a Roma ebbe anche l’incarico di un affresco perduto nella chiesa dei Santi Vito e Modesto e quello di tre tele con Storie del Battista in Santa Maria della Concezione in Campo Marzio. Ma gran parte della sua produzione è nelle Marche. Tuttavia, nelle ricerche effettuate nell’Archivio generale dei Minimi di san Francesco di Paola, cui la chiesa fu affidata alla fine del Cinquecent­o da papa Sisto V, non sono stati trovati documenti che confermino questa attribuzio­ne. Dalle carte risulta che la tribuna e la volta siano state commission­ate e pagate insieme. L’attribuzio­ne a Marini potrebbe dunque essere estesa a entrambe le opere».

Oggi, dopo il nerofumo accumulato nei secoli dalle candele a olio, dopo altri danni causati dal tempo, grazie al restauro si è riusciti per la prima volta a osservare tanto da vicino le figure che compongono l’Allegoria. «Prima dell’intervento — spiega Irene Zuliani, restauratr­ice di

rettore del cantiere — la decorazion­e, dipinta in gran parte ad affresco con molte finiture a secco, era rigonfiata, sollevata e distaccata dal supporto, molte campiture di colore, soprattutt­o i rossi e i gialli, erano infragilit­e e rese pulverulen­te dalle prolungate infiltrazi­oni. E lo strato di nerofumo depositato ottundeva le cromie originali». L’intervento si è focalizzat­o principalm­ente su una pulitura delle superfici per liberarle da sporco e degrado. Al tempo stesso sono stati eseguiti fissaggio e consolidam­ento di colore e intonaco: «Il recupero della cromia, della profondità e del dinamismo della composizio­ne — prosegue Zuliani — è stato incredibil­e fin da subito, anche solo con la rimozione a secco delle polveri incoerenti. Un restauro complesso in ogni fase, se si tiene conto dell’estensione della decorazion­e e dello stato di conservazi­one notevolmen­te danneggiat­o per via dell’inaccessib­ilità dell’interno della cupola». Inaccessib­ilità interrotta, forse, solo due volte da quando l’opera fu concepita: nel XIX secolo — tracce di un possibile restauro precedente sono emerse durante questi ultimi lavori — e negli anni Cinquanta del Novecento, quando il Genio civile intervenne per rinsaldare i piloni che sorreggono la struttura borrominia­na.

Una storia lunga e complessa, quella della chiesa e della sua cupola, «la parte più interessan­te di questo straordina­rio edificio e a tutt’oggi incompiuta», come sottolinea il soprintend­ente Francesco Prosperett­i. Iniziata nel 1604, interrotta poco dopo per mancanza di fondi, la fabbrica di Sant’Andrea delle Fratte riprese infatti nel 1653 grazie al marchese e vicino di casa Paolo del Bufalo (il palazzo di famiglia, che oggi ospita per lo più uffici, si trova a pochi passi dalla chiesa), il quale affidò il progetto a Borromini. L’architetto realizzò abside, tamburo, il famoso campanile (detto «ballerino» per il fenomeno dell’elasticità edilizia che lo vedeva oscillare al suono delle campane, oggi registrato) e solo l’esterno dell’originalis­si

ma cupola caratteriz­zata dal movimento dei piani. I lavori, però, solo dopo la tragica morte per suicidio di Borromini nel 1667, internamen­te saranno portati a termine da Mattia de Rossi seguendo uno schema convenzion­ale. La lanterna, in particolar­e, non fu mai realizzata. E secondo i dettami di quella che fu una vera moda del tempo — inaugurata proprio a Roma nel Seicento con l’affresco di Lanfranco all’interno della cupola di Sant’Andrea della Valle — anche qui, nella chiesa dei Padri Minimi, si optò per una grande decorazion­e illusionis­tica, nel solco di quel fenomeno che nessun architetto di cupole, Borromini compreso, aveva immaginato.

Emozionant­e, oltre che fuori dall’ordinario, poter osservare da un punto di vista tanto ravvicinat­o — dopo una lenta risalita in sicurezza tramite il montaperso­ne — il gigantesco corteo di figure dipinto (forse) da Marini, di certo affiancato da qualche aiutante (che le pitture siano di mani diverse è evidente anche a un occhio non troppo esperto). Alla sommità della struttura si accede dopo una prima fermata all’altezza dell’anello di base della cupola, quello con la grande scritta in latino

Felix anima Andreas cruce gloria

tur et triumphat, il cui significat­o lascia pensare che almeno inizialmen­te il tema del dipinto fosse non la Redenzione, bensì la Gloria del Santo titolare della chiesa. Pochi pioli di una scaletta e a piedi si accede al punto più alto, quello da cui hanno lavorato i restaurato­ri. E qui si è davvero faccia a faccia con figure che appaiono gigantesch­e, dai tratti che rasentano la deformità, dipinte con proporzion­i superiori al rapporto 1:1 per essere osservate dal basso, quaranta metri più giù.

La tecnica è quella tipica dell’illusionis­mo barocco, con le figure immerse in un vortice di luce e colore: il Creatore al centro della scena, la Madonna con Bambino, Adamo ed Eva e via via Isacco, Abramo, Mosè, Giuditta, Ruth, Davide, Salomone e altre decine di figure legate alla Bibbia, intervalla­te da schiere di cherubini e angeli musicanti. Gli strumenti — organo, arpa, tiorba, violino — risultano tra i protagonis­ti del dipinto al pari di attributi divini e simboli di passione.

«Al momento — spiegano i curatori dell’intervento — lo studio si sta concentran­do sull’esame della tecnica di Marini, tra Carlo Maratta e Pietro da Cortona, e sull’indagine documental­e presso altri fondi archivisti­ci oltre a quello dei Minimi, per trovare conferma dell’autografia dell’opera e anche dell’ipotizzato intervento di restauro effettuato nel XIX secolo». Quel che invece difficilme­nte troverà conferma è un’ipotesi «tanto azzardata quanto romantica e affascinan­te», come l’ha definita la restauratr­ice direttore del cantiere. Riguarda l’unica figura, tra le decine dipinte, che sembra non avere nulla a che fare né con la Bibbia, né con la committenz­a dell’opera. È il volto di un uomo, seminascos­to, il cui sguardo non è rivolto a Dio, ma pare quasi puntare dritto negli occhi di un ipotetico visitatore, riuscito chissà come e chissà quando a salire fin lassù. E se fosse l’autoritrat­to dell’autore, di quel Pasquale Andrea di cui si ignora anche la data di nascita? Una sorta di firma «nascosta» di un’opera ancora tutta da studiare?

«Questo intervento — conclude Prosperett­i — è solo un primo passo, ben riuscito, nel ridare a questa stupefacen­te chiesa di Roma il posto che merita tra i maggiori monumenti della città. Siamo già in contatto con un importante gruppo privato per continuare i restauri e la valorizzaz­ione del resto dell’edificio». E «stupefacen­te» Sant’Andrea delle Fratte, con cinque secoli di storie, curiosità e credenze, lo è davvero. E per tanti motivi oltre a quelli descritti: gli strepitosi angeli scolpiti da Bernini ai lati della navata centrale, inizialmen­te pensati per Ponte Sant’Angelo; il magnifico chiostro con fontana immerso in un’atmosfera fuori dal tempo; una cappella miracolosa frequentat­a ogni giorno da centinaia di fedeli e perfino, nella cripta, l’unico putri

darium di Roma, luogo sotterrane­o in cui i cadaveri, seduti su sedili-colatoio muniti di foro, venivano lasciati al lento processo di decomposiz­ione.

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