Corriere della Sera - La Lettura
Tante quartine fanno una vita
In rima Patrizia Valduga torna alla sovrapposizione tra confessione e artificio, sincerità e gusto per la citazione, autobiografia ed esibizione. Lo fa in «Belluno», dove si concede slanci civili («capetti del PD, vi maledico!») e il ricordo di Giovanni R
Non è facile parlare della poesia di Patrizia Valduga, inclusa quella recente e ultima, per il sovrapporsi in essa di autentica confessione e di artificio, di sincerità e di gusto citatorio. Si potrebbe dire che il principale ancoraggio di questa scrittura sia il cordone ombelicale con l’«io»: tale poesia vale cioè come una costante autobiografia o meglio come un’autoanalisi sentimentale e psicologica, fino all’esibizione. Da luogo di distillazione e discernimento, il testo poetico si fa piuttosto autodemolizione del soggetto e, insieme, sua autoedificazione in forma di personaggio culturale e letterario. Così si torna al punto di partenza: la verità e l’artificio si toccano, rendendo ardua la decifrazione.
La conferma viene dal nuovissimo poemetto dell’autrice: Belluno. Andantino e
grande fuga (Einaudi). Sono per lo più quartine, di solito di endecasillabi (ma si danno eccezioni, riguardanti la misura dei versi, il raddoppio della strofa o la regolarità e la posizione delle rime). In chiusa di uno dei componimenti si legge: «Io mi edifico sulle mie rovine» (con riadattamento in tono minore da Eliot). E poco oltre, in una quartina di settenari: «Sono quello che sono:/ sono sempre la stessa;/ per essere me stessa/ divento come sono». È insomma un circolo chiuso, un’impossibilità di evasione e di crescita che vengono esibiti, quasi una tautologia. Ecco perché il libro vive di una fondamentale ambiguità. Nasce e si sviluppa a tratti come un omaggio alla memoria di Giovanni Raboni (1932-2004), che di Valduga fu a lungo compagno, con accenni che si direbbero di autocoscienza: «Ma cosa ho fatto in questi quindici anni?/ Mi pare di esser stata sempre sola…/ a infracidire… fradicia di affanni…/ Dilla per me, Johannes, la Parola!». Ma poi intorno al tema, sfruttato anche in modo un po’ giornalistico (col riferimento alla petizione che propone di intitolare a Raboni un centro culturale nella zona che fu del Lazzaretto di Milano), si sviluppa una sorta di aneddotica erotico-sentimentale.
È la porzione (incardinata sullo sfondo di Belluno) in cui si esprime una delle vene più tenaci della poesia di Valduga: quella dell’erotismo tra sboccato e giocoso, costretto e insieme stimolato dalla chiusura metrica. Ma non è più il tempo di Medicamenta o de La tentazione, con
quel tanto di saporito, se pure a rischio di maniera, che poteva trovarvisi: il motivo si riduce al piacere della battuta esplicita e al teatro dell’«io» poetico, sempre più cinico e giudicante, con ripresa di funzioni degne dell’epigramma (come tentò in altre forme anche* Valentino Zeichen). Qualche esempio? «Ci sono stati, sì, dei fidanzati…/ con piccolo piacere e grande pena…/ Quaranta giorni al più sono durati:/ una quaresima, una quarantena:// un critico, un poeta, un giornalista,/ un impiegato, un ex-commercialista,/ un medico, un commerciante fascista,/ uno pseudo-architetto ex-terrorista». E ancora, con registrazione delle voci malevole dei fidanzati: «— Oh beato chi aveva fra le mani/ questo culo vent’anni fa! — Cretina: / tu non capisci niente di poesia./ — Tu sei nevrotica. — Tu sei psicotica». E poi: «Care montagne, siamo in alto mare./ Se niente niente il cranio si è ristretto?.../ — O vieni col mio cazzo o vai a cagare./ Caspita! Endecasillabo perfetto».
L’«io» della poetessa è insomma, in un modo o nell’altro, il despota del discorso, il suo centro, mentre proprio la riduzione o disseminazione dell’«io» è una delle costanti della grande poesia italiana del pieno Novecento. A questa dolente eppure rubizza personalità egotica tutto è ricondotto: il tema dei cari morti (tanto raboniano) e quello della fustigazione dei costumi culturali, con la presa in giro dei critici più enfatici o con le battute sulla politica («Di tutto quello che succede al mondo/ pare che a loro non importi un fico./ Capetti del PD, vi maledico!»). Bel
luno, insomma, a parte le citazioni (relative a Da Ponte e Dreyer ad esempio) e il gusto costruttivo da libretto d’opera, è una satura dove tutto entra (anche i temi civili) ma solo come prova e riprova della voce d’autrice, che continuamente si edifica e si dice. Ma forse la verità possibile per questa poesia è tale, non altra. A un certo punto è citato Raboni, con dei versi da Quare tristis: la musica è diversa, più profonda, più grave; il paragone evidenzia un ammanco. E proprio nella mancanza di Parola, si direbbe, è il dramma autentico di questa poesia, col suo autobiografismo esclusivo ed eccentrico. Forse c’è del dolore in questa posa.