Corriere della Sera - La Lettura
L’architettura sconfigge il tempo
L’incontro Tadao Ando è a Milano per «The Challenge», monografica dedicata al Premio Pritzker al Silos Armani. Con «la Lettura» parla di sogni, bellezza e gioia di vivere
Come un samurai di Akira Kurosawa, come uno dei suoi guerrieri o come uno dei suoi piccoli uomini delle grandi pianure, anche Tadao Ando ama guardare fisso negli occhi chi ha davanti. Anche quando, aspettando le domande, apre in silenzio un piccolo astuccio di plastica colorata dall’apparenza ipertecnologica, lo appoggia sul piano di un elegante tavolo di legno chiaro, prende un minuscolo apparecchio affilato, si punge il dito e poi resta in attesa, guardando sempre fisso negli occhi chi ha davanti. «È sorpreso? — chiede — Sto solo facendo dei controlli: ho fatto un’operazione, ho tolto cinque organi, tra cui il pancreas. In tutto il globo terrestre di persone che non hanno più cinque organi ci sono soltanto io, per questo vengono tanti studiosi di medicina a intervistarmi, per cercare di capire come e perché possa essere così vispo, nonostante mi manchino cinque organi. Il mio segreto? Ho molte cose da fare, ho un obiettivo da raggiungere: vivere, creare qualcosa che sia capace di rimanere nel cuore degli uomini e di renderli felici»
Questo non è il set di Rashomon o Dodes’ka-den, ma il Silos Armani di Milano, dove fino al 28 luglio va in scena The Challenge, bellissima monografica dedicata all’architetto giapponese più conosciuto al mondo (già passata lo scorso anno, ma con meno efficacia, al Centre Pompidou di Parigi): il progettista dell’Azuma House a Sumiyoshi, nella prefettura di Osaka (1976) e di Casa Wabi a Puerto Escondido, Messico (2014); il vincitore del Pritzker nel 1995 che donò il premio di centomila dollari
agli orfani del terremoto di Hanshin; l’architetto selfmade che nel 2001 ha creato l’Armani Teatro («Di Tadao Ando — ha commentato lo stilista — mi piace l’abilità con cui riesce a trasformare materiali pesanti come il cemento e il metallo in qualcosa di poetico, mi piace come usa la luce per definire gli spazi»); l’uomo che in una vita precedente era stato prima camionista e poi boxeur fino a quando non aveva scoperto l’Imperial Hotel di Tokyo progettato da Frank Lloyd Wright, una visione che l’avrebbe costretto a iniziare a studiare architettura da autodidatta, «guardando e visitando gli edifici di Le Corbusier e Mies Van der Rohe», fino ad aprire (nel 1998) un suo studio a Osaka.
Il 13 settembre Tadao Ando compirà 78 anni: «È passato più di mezzo secolo da quando ho iniziato a progettare, ma resto ancora e sempre impaziente di affrontare la sfida infinita di creare architetture». Con una determinazione degna di un monaco zen che si traduce in forme essenziali, spesso giocate su elementi naturali come la luce e l’acqua, guardando in continuazione alla tradizione religiosa e alla cultura del suo Giappone. Cercando di superare i limiti del tempo. «Quando avevo vent’anni sono venuto in Europa — si confessa a “la Lettura” —, a Roma ho visto il Pantheon e sono rimasto commosso, impressionato dalla luce che cambiava con il trascorrere delle ore. Così ho scoperto come la luce possa trasformare un edificio, come possa mutare con il tempo. Trovando conferma a quello che diceva Le Corbusier: l’architettura è uno spazio all’interno della luce». Quella stessa luce che definisce (insieme con l’elemento ascetico) uno dei progetti più affascinanti di Ando: la Chiesa della Luce di Ibaraki, nella prefettura di Osaka.
A differenza di molte superstar dell’architettura, Tadao Ando non ha paura di confrontarsi, di ispirarsi e di citare modelli più eccellenti, andando al di là della tradizionale idea di progetto per cercare una lettura in qualche modo diversa: se la Torre Eiffel è così «la modernità che prende forma», la Cupola di Brunelleschi è la dimostrazione di come «l’impossibile possa diventare realtà»; se Casa Rietveld Schröder di Utrecht (Paesi Bassi) è importante «per aver saputo prendere ispirazione dall’arte» (quella di Piet Mondrian e del movimento De Stijl), il progetto per la nuova città di Chandigarth rappresenta «la capacità di saper coglier l’occasione giusta», quella che Pierre Jeanneret avrebbe avuto nel 1951 per collaborare con Le Corbusier. «Il più importante problema dell’architettura è quello di rimanere all’interno del cuore delle persone, la luce non deve illuminare solo lo spazio architettonico, ma anche il cuore degli uomini — spiega —. Come architetto penso che l’architettura debba far percepire la gioia di vivere, una gioia che ho provato entrando nella cappella di Notre Dame du Haut a Ronchamp», l’unica chiesa progettata da Le Corbusier. «Ecco — conclude —: io creo architettura perché voglio rimanere nel cuore degli uomini».
Muovendo le piccole mani qua e là macchiate di inchiostro azzurrino (quello stesso inchiostro con cui ha voluto «autografare» le installazioni della mostra al Silos Armani), Tadao Ando racconta la sua idea di bellezza, un’idea molto precisa: «Non penso di aver mai fatto un progetto solo per business, ho sempre cercato di creare un ambiente bello, esteticamente interessante, spazi dove si possa vivere bene, dove si possa percepire la gioia di vivere, fare cose belle».
Per questo si augura che «il maestro Armani continui fino a cent’anni a seguire questa sua via e io con lui». Per questo gli ha regalato una piccola mela verde: «Il simbolo di quello che a vent’anni si può fare per la società, ma anche di quello che si può fare quando di anni ne abbiamo cento e più». A quella mela verde (unica nota di colore di una mostra rarefatta, essenziale, affascinante) Tadao Ando ha voluto affiancare una lunga citazione da
Youth di Samuel Ullman (1840-1924): «Al centro del tuo cuore, al centro del mio, c’è una radio senza fili: fino a quando quella radio continuerà a ricevere messaggi di speranza, bellezza, allegria, coraggio e forza dagli uomini e dal mondo, tu resterai giovane».
L’idea di un tempo «circolare» torna in continuazione nelle parole di Ando: «Chi vive nel presente, deve sempre tenere presente la storia. Perché ci possa essere un futuro, ci deve essere sempre un grande passato». L’Italia con i suoi edifici antichi dimostra proprio come «gli italiani abbiano consapevolezza della loro storia, di un passato che deve essere mantenuto, di un futuro che solo da quel grande passato può scaturire». Da questo punto di vista, aggiunge, «metropoli come Tokyo o New York che hanno cancellato questo loro passato, non possono essere più di esempio». Un peso, quello dell’Italia («Nell’architettura come nel design, molto è partito da qui») che Ando sintetizza nel segno lasciato da una rivista come «Domus» («che trasmette in tutto il mondo l’idea di bellezza»), dal Pirellone o da Ettore Sottsass: «Sul mio tavolo, nel mio studio, c’è una Olivetti rossa. L’ho presa quando ero giovane perché sognavo di diventare un bravo architetto, ora mi ricorda l’importanza di questo mio impegno»
La Fondazione Pulitzer a Saint Louis come Punta della Dogana a Venezia: da sempre Tadao Ando è grande inventore di musei e spazi dell’arte. Impegno ben riassunto nel Benesse Art Site sulla piccola isola di pescatori di Naoshima con le opere che invadono lo spazio circostante al museo: «Per un architetto contano i clienti, a Naoshima il mio committente aveva alle spalle soldi, volontà, studio, consapevolezza dell’arte contemporanea. Così ha creato una collezione perfetta, io sono solo andato dietro di lui. Sono trent’anni che mi occupo di Naoshima, ora sto lavorando a due progetti. Ripeto: il mio cliente è molto motivato. E anche molto egocentrico. Per questo, vivrà più di tutti noi. Probabilmente»