Corriere della Sera - La Lettura
L’Algeria vista da Orano: una famiglia, tre rivoluzioni
Ai tempi in cui Albert Camus fumava Gauloises, affacciato alla ringhiera di ferro battuto sulla rue d’Arzew, prendeva appunti tra i velluti rossi del Cintra e — a quanto dicono — s’annoiava, nel 1941, Yamina era appena venuta al mondo tra gli arabi di Orano, colonia francese d’Algeria: il «Villaggio Negro», così lo indica lo scrittore ne La peste, oggi un intricato mercato popolare di tovaglie di plastica, guanti per l’hammam fatti in Cina, spezie, tuniche, ceste di paglia, lumache e galline vive; M’dina jdida, la città nuova, allora il ghetto in cui gli europei avevano confinato gli «indigeni». «Non ci chiamavano algerini — racconta Yamina —, ma indigènes »: la popolazione autoctona diventata minoranza e tenuta alla larga dal centro liberty degli europei. «C’era una demarcazione e non potevamo superarla. Vivevamo tra di noi, ridotti ai nostri vicoli».
Comincia da qui una storia di umiliazioni e scatti d’orgoglio che arriva fino ai giorni nostri, con un presidente costretto a ritirarsi, una piazza che ogni venerdì grida «Abbasso il sistema», l’annuncio di nuove elezioni che non ha placato la protesta. Comincia da un quartiere di segregazione, sulla costa occidentale algerina, in cui a metà degli anni Cinquanta arrivarono venti di sommossa. «Io ero adolescente — ricorda Yamina —, sentivamo dire che c’erano i ribelli sulle montagne. “Fuorilegge” li definivano i francesi. Non capimmo subito che era una rivoluzione». Ma presto ne subirono le conseguenze: «I militari ci entravano in casa, svuotavano gli armadi, mettevano tutto sottosopra ...». Ogni volt achei mujaheddin, i «partigiani», calavano in città attaccando i francesi, la rappresaglia colpiva il Villaggio Negro. «Sparavano su tutti, a caso. Una mattina la figlia di mia sorella, aveva 11 anni, non tornò da scuola: un proiettile l’aveva colpita alla nuca. Andammo a cercarla, alcuni vicini ci raccontarono che il corpo era stato portato via dai soldati. Mia sorella corse all’obitorio: le consegnarono solo il vestitino sporco di sangue. L’avevano seppellita con gli altri morti sul ciglio di una strada, il nome scritto
Le immagini In alto, da sinistra: Reda, 58 anni, con sua madre,
Yamina, 78, e con suo figlio, Mehdi, 21. A destra, dall’alto: giovani giocano nella place d’Armes (ufficialmente place du 1er novembre) a Orano, con la statua dell’emiro Abd elKader, fondatore del sultanato di Algeria (1837), il Municipio sullo sfondo. Nonno e nipote durante una delle manifestazioni «contro il sistema»; una ragazza che cammina davanti alla bandiera con lo slogan da stadio: «One two three viva l’Algerie»; bambine durante il venerdì di protesta, davanti al Teatro di Orano su un foglietto tenuto da una pietra. Io smisi di studiare, non uscivamo più di casa, chiudevamo le finestre: furono anni di angoscia». Finché la rivoluzione esplose. «A quel punto non avevamo più paura, scendevamo in strada con le bandiere, ci dicevamo: “Meglio morire che vivere da schiavi”. La Francia tentò di recuperare riconoscendoci la nazionalità, ma era troppo tardi». Il 5 luglio 1962 l’Algeria proclamò l’indipendenza.
Per Messaoud Bellemou la festa stava per cominciare. È vero che con la partenza dei francesi venne chiusa la scuola di musica di Aïn Témouchent, 80 chilometri da Orano, dove aveva appreso tutto quello che sapeva, e in particolare a soffiare nella tromba meglio di chiunque altro nelle regioni dell’Ovest. Ma al tempo stesso s’aprivano nuove occasioni: «Mi misi a suonare folclore algerino». Lo racconta passo a passo, consapevole di aver assistito alla nascita di un mito: quest’uomo abbronzato, più giovane dei suoi 72 anni, accolto con deferenza al Teatro di Orano, istituzione culturale del Paese, è il padre del pop-raï. «L’ho trovato io il nome. Al principio avevo pensato a trab, terra in arabo, perché è musica che viene dai campi. Poi m’è venuto in mente raï, opinione, pensiero, una parola che torna spesso nei testi». La novità sta soprattutto nella strumentazione, mai tentata prima: non solo flauti tradizionali. «Perché non aggiungere la tromba?». Dai mambo e i cha-cha-cha sperimentati con i francesi, Bellemou cominciò ad animare con il suo ritmo misto partite di calcio, ricorrenze private e cortei nuziali, uno celebre proprio sulla rue d’Arzew, il debutto del raï in città. La svolta arrivò con l’incisione dei primi dischi negli anni Settanta, la fama nell’Algeria intera e anche oltre, i numerosi discepoli. Tra tutti, negli anni Ottanta, Cheb Khaled, oranese pure lui.
Il fenomeno è alle stelle quando cala improvviso il sipario. Siamo tra la fine del 1991 e il principio del 1992, il Paese si è aperto al multipartitismo e il Fronte islamico di salvezza, il Fis, ha vinto il primo turno delle elezioni nazionali; per bloccarne il successo certo al ballottaggio, l’esercito prende il potere con un golpe. E gli algerini re
Yamina, la nonna di Orano, ha vissuto gli anni della guerra d’indipendenza: «I francesi sparavano su tutti, a caso. Una mattina la figlia di mia sorella, 11 anni, non tornò a casa da scuola; andammo a cercarla; corse all’obitorio: le riconsegnarono un vestitino sporco di sangue». Reda, figlio di Yamina, è il testimone del «decennio nero»: il golpe militare che impedisce la vittoria del Fronte islamico di salvezza apre una stagione spaventosa: «Una mia cugina venne a operarsi in città. Sulla via del ritorno fu fermata a un finto posto di blocco e sgozzata». Mehdi, figlio di Reda e nipote di Yamina, è sceso in strada a febbraio: «Basta, voglio un Paese migliore». Da qui, da «Orano la radiosa», passa di nuovo la storia; da qui si può osservarla bene
stano nel mezzo. «Molto peggio della guerra di liberazione — dice Yamina — perché allora era chiaro chi fosse il nemico. Nel “decennio nero” invece non sapevamo chi odiava chi, i fratelli uccidevano i fratelli, non potevamo fidarci più di nessuno, era il terrore assoluto». Difficile farsene una ragione. Cheb Hasni, per esempio, davvero è stato ucciso nel quartiere Gambetta di Orano per una canzone? Bellemou sgrana gli occhi: «Mi credi? Dopo tanti anni io ancora non l’ho capito. Che cosa avevano contro la musica? Non gli piaceva?».
«Fu uno choc — ricorda Reda, figlio di Yamina, allora giovane informatico —, soprattutto per noi che abitavamo in città: gli islamisti del Fis avevano superato il 60 per cento dei consensi. Avevano già vinto in molti Comuni, è vero, ma non immaginavamo che ce l’avrebbero fatta alle politiche. Fu incredibile». Ancora di più per qualcuno di «Orano la radiosa», nello stereotipo algerino terra di bon vivant, spiagge e danze. Che ne sarebbe stato? «Una discesa all’inferno — dice Reda —. Per quanto il nostro distretto sia stato in parte risparmiato, senza il coprifuoco e alcuni locali notturni ancora aperti, furono anni tremendi». Nessuna famiglia rimase indenne. «Una cugina venne a operarsi a Orano, sulla via del ritorno fu fermata in un finto posto di blocco e sgozzata». È l’incubo del «decennio nero»: uomini armati travestiti da poliziotti fermavano il traffico sulle vie periferiche, tra i villaggi e le campagne, massacravano guidatori e passeggeri. Uscire dalla città era una sfida, un atto di resistenza. Per le donne più di tutti. Samira lo faceva per principio: «Non volevo cedere, mettevo il bikini in spiaggia e andavo a trovare mia madre anche se era in provincia, trattenendo il fiato». Femministe come Malika e Zoubida si contavano alle manifestazioni di piazza: «Eravamo poche decine e avevamo paura». Non avevano torto. È a meno di 90 chilometri a Sud che furono giustiziate le maestre di Sidi Bel-Abbes, la più giovane 18 anni, la più anziana 33, velate o meno, nubili, sposate, madri, una di loro incinta, non avevano rinunciato a insegnare in provincia: i terroristi non ascoltarono supplica. E poi gli attentati all’interno della città, oltre a Cheb Hasni, il vescovo Pierre Claverie, beatificato a dicembre con i monaci trucidati a Tibhirine; Abdelkader Alloula, il direttore del Teatro di Orano che oggi porta il suo nome, grande intellettuale di sinistra, drammaturgo studiato nei licei francesi. La sorella Dalila espone in casa le foto del funerale, una folla densa, quasi la città intera dietro al feretro. «Non riuscimmo a entrare nel foyer per allestire la camera ardente tanta era la ressa».
Perché l’hanno ucciso? Allora giovane e inesperta, «ogni volta che c’era un omicidio eccellente andavo da mio fratello a chiedere: “Che ne pensi? Hanno ammazzato questo psichiatra, per quale ragione?”. Lui mi spiegava. Per esempio: “Faceva parte dell’amministrazione”. Succedeva ancora. Decine di giornalisti, “forse davano fastidio”, mi dicevo. Poi ad Algeri venne assassinato il direttore delle Belle Arti, assieme al figlio studente. Era una mattina del mese di Ramadan e il ragazzo dormiva ancora. “Lascialo riposare”, aveva detto la madre. Ma il padre aveva insistito perché si alzasse e andasse con lui in Accademia: morirono entrambi. Perché? “Se si attacca l’arte, non lo capisco”, rispose mio fratello. Quattro giorni dopo fu ammazzato». La domanda resta sospesa. «Il lutto non è stato elaborato». Per Dalila, come per il resto dell’Algeria. La «riconciliazione nazionale» voluta dal presidente Abdelaziz Bouteflika nel 1999 non è molto più di una formula. Reda scuote la testa: «Troppo male hanno fatto. Nel modello sudafricano quanto meno i responsabili dell’apartheid hanno chiesto perdono, ma qui anche chi ha ucciso alla fine ha negoziato e non si è pentito. Solo due anni fa ho ascoltato in tv uno dei capi islamisti che raccontava come avesse disarmato un soldato di leva che implorava pietà, e l’avesse ucciso».
Una farsa, quella di Bouteflika, dice lo scrittore algerino Amara Lakhous: «Sul piano militare il terrorismo era stato già sconfitto nel 1997, ma lui ha venduto il suo referendum sulla riconciliazione come se avesse portato la pace». Se dopo vent’anni è stato costretto a ritirarsi, però, non è solo per questo. Lakhous, che ha vissuto a lungo in Italia (celebre il suo Scontro di civiltà per un ascen
sore a piazza Vittorio, edizioni e/o) e ora si sta dedicando a un noir ambientato a Orano, ha assistito da vicino e da lontano a tutti gli ultimi passaggi. «I prezzi del petrolio, in particolare nel 2003 con l’invasione dell’Iraq, erano altissimi: intorno ai 150 dollari al barile. Ma il governo non ha investito quei guadagni nel benessere degli algerini. Altro grosso errore: la riforma costituzionale che nel 2007 ha tolto il limite ai due mandati presidenziali, e ha fatto saltare la possibilità di un’alternanza al potere».
Ancora un’umiliazione: nel 2013 Boutef ha un ictus e non riesce più nemmeno a parlare. «L’ultima volta che abbiamo sentito la sua voce è stato a maggio 2012, in un discorso in cui pronunciò la frase “Il nostro tempo è finito”». Eppure, malato e semiparalizzato, il presidente era (tenuto) ancora lì. «Lo mostravano solo per pochi attimi, quando cominciava a circolare la voce che fosse morto». Per curarsi andava a Val-de-Grâce, ospedale mi
litare parigino: «Con tutti i soldi che giravano non sono riusciti a costruire nemmeno una clinica affidabile per sé stessi in Algeria...». Infine, la beffa suprema. «Era stato già rieletto nel 2014 per un quarto mandato. Si era formato il movimento Barakat!, “Basta!” ma era minoritario. In questi ultimi mesi, però, alla vigilia nella nuova campagna elettorale, abbiamo assistito a un crescendo. Dovessi scriverne un romanzo, comincerei con il sequestro di 700 chili di cocaina al porto di Orano e il coinvolgimento di figli di ufficiali. Poi alcuni casi di colera e il ministro della Sanità che afferma: “Succede anche in Congo”. Per ultima, la goccia, la candidatura al quinto mandato: non di Bouteflika, ma del suo ritratto!». L’argine s’è rotto, la rabbia, la frustrazione, persino la gioia hanno invaso le strade.
Mehdi, 21 anni, figlio di Reda e nipote di Yamina, ha sentito gridare dalla finestra della sua stanza: «Algeria libera e democratica!». Era la prima manifestazione, il 22 febbraio scorso. «Pensavo: mia nonna ha vissuto l’indipendenza, mio padre il decennio nero, che cosa toccherà a me? Con quelle parole ho capito». Il primo corteo è stato cauto, molti hanno osservato dai balconi o alle tv; le donne, in mente il precedente delle molestie in Egitto, si sono tenute alla larga. Mehdi ha fatto una passeggiata esplorativa per le vie del centro: non c’era pericolo. Il venerdì successivo, 1° marzo, sono stati molti a prendere coraggio e a incanalarsi sulla rue d’Arzew, ancora la stessa, da ogni traversa laterale, avvocati, insegnanti, studenti più di tutti gli altri in un Paese giovane e affamato. Mehdi ha incontrato «ogni persona che conosco»; ha fatto gruppo con i compagni dell’università, ha gridato: +++! al megafono. «Pacifico!», la parola d’ordine dei ragazzi algerini, buttare giù «la mafia», «i ladri», «i corrotti», senza violenza. Se individuano un facinoroso, lo invitano a lasciare il corteo. Anziani, donne, bambini, giovani con la nuca rasata, ciabatte di gomma e scarpe da ginnastica, bandiere e striscioni da stadio, jalabiya per la preghiera e occhiali da sole. Una grande festa popolare di liberazione dei corpi compressi da decenni e del pensiero gridato finalmente a squarciagola. «Voglio vivere in un Paese sviluppato — rivendica Mehdi —. Abbiamo storia, cultura, ricchezza, biodiversità: come possiamo essere ancora Terzo Mondo?».
Nell’assolata place d’Armes dove sono tutti confluiti, Kawther, 23 anni, regge il cartello «Discutiamo», invitando i manifestanti a mettersi in cerchio per condividere proposte e immaginare un dopo. Chi prende la parola usa una bottiglietta colorata come microfono, ha due minuti di tempo e non può essere interrotto. «Non avrei mai pensato che questi giovani ci avrebbero aperto la strada — confessa Samira, oggi docente all’università — non riconoscevamo loro nessuna maturità politica». «Nemmeno i miei genitori ci credevano — dice Houda, dell’associazione Bel Horizon che cura il patrimonio di Orano —: leggiamo poco, siamo sempre sui social e non conosciamo la storia. E invece li abbiamo spiazzati», sorride, con garbo.
È così che avanza — per ora — questa rivoluzione, al ritmo di Liberté, cantata dal rapper Soolking: «È finita, il bicchiere è pieno/ senti le voci che vengono da giù?/ Rendimi la libertà/ te lo chiedo con gentilezza».