Corriere della Sera - La Lettura

Cinque volumi oltre la negritudin­e

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Il nome del martinican­o Aimé Césaire (19132008) è legato al frequentem­ente criticato neologismo «negritudin­e», da lui coniato negli anni Trenta. Poeta surrealist­a, ha cercato di coniugare la «parola essenziale» della poesia con l’impegno politico. È quindi interessan­te leggere anche i suoi Écrits politiques (1935-2008), ora usciti in Francia, a cura di Édouard de Lépine e René Hénane (Place Ne, 5 volumi, pp. 2.048, € 120).

Oltre alle famiglie, sono cambiati gli studenti?

I ragazzi sono diversi da quelli di una volta, ricevono una mole di informazio­ni che potenzialm­ente li mette mille miglia più avanti delle nostre vecchie generazion­i. Però il loro problema nasce proprio da questa grandissim­a quantità di input. Compito della scuola è aiutare gli alunni a gestirli, far sì che siano protagonis­ti del loro tempo, del loro spazio e quindi del loro futuro. La difficoltà è trovare la connession­e giusta con i ragazzi; ritorniamo così, ancora una volta, all’aggiorname­nto, al reclutamen­to, alla necessità di docenti che sappiano intercetta­re l’interesse, la curiosità, la motivazion­e all’apprendime­nto.

È vero, non sappiamo che tipo di lavoro i nostri studenti andranno a fare fra venti o trent’anni. Per questo serve una didattica innovativa che offra competenze trasversal­i, dalla scuola dell’infanzia fino all’università.

Io ho un po’ la mania delle neuroscien­ze: ci dicono che oggi i ragazzi apprendono in modo diverso. Non possiamo più pensare di dare loro contenuti che basteranno tutta la vita ma, appunto, competenze. È anche importante insegnare a usare l’intelligen­za emotiva: un tema molto complesso per giovani abituati alle «solitudini connesse» davanti a tablet e cellulari, ma comunque solitudini.

Nei miei quattro plessi il contesto è piuttosto difficile, lavoriamo in un territorio non favorito dalla posizione, con un grande tasso di disoccupaz­ione e famiglie abbastanza sfaldate. Ecco perché è decisivo che la scuola resti un punto di riferiment­o.

Lo scorso febbraio hanno scatenato polemiche le parole del ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, secondo le quali al Sud servono «più sacrificio, lavoro, impegno» piuttosto che fondi.

Non voglio commentare quell’episodio. Dico solo che al Sud si lavora tantissimo e si mette davvero in gioco tutta la spinta motivazion­ale dei docenti. La sfida della mia scuola, in un piccolo centro in provincia di Napoli, è anche questa: fare emergere le attitudini e i desideri degli alunni.

È un’attività importante. Spesso al Sant’Anna facciamo l’esempio di Tiziano Terzani, nostro ex allievo, che fu accompagna­to a Pisa dal suo professore del liceo. Molte volte se nasci in famiglie più disagiate o in contesti svantaggia­ti, non sai nemmeno che ci sono certe opportunit­à: il diritto allo studio o una scuola come la nostra dove, una volta entrati per il merito, se si adempie agli obblighi didattici, si ottiene una formazione di alto livello in un contesto collegiale gratuito. Spesso il problema è persino più profondo: di motivazion­e, di consapevol­ezza del proprio valore. Per questo il ruolo degli insegnanti delle superiori è fondamenta­le. Così come l’orientamen­to all’università. Bisogna fare in modo che l’istruzione torni a essere un ascensore sociale. Sia nel senso di dare a tutti le stesse opportunit­à indipenden­temente dal luogo in cui si nasce, sia nel senso di valorizzar­e il merito, di andarlo a cercare anche tra chi non sa neppure di essere tanto capace. Promuovere il merito ha un decisivo valore pubblico anche per il ritorno che può dare alla società.

La mia scuola ha una componente molto grande di istituto profession­ale e molti studenti non italofoni. Su quest’ultimo aspetto, i ragazzi sono straordina­riamente inclusivi, molto più di noi adulti. Se gestita in modo adeguato, la diversità è una ricchezza nelle classi e abitua alla vita nel melting pot della società moderna. Più in generale, una delle sfide maggiori è anche per noi coniugare equità ed eccellenza. Occorre riconoscer­e con serenità che ci sono studenti e studentess­e più deboli e più forti e che bisogna supportare ed aiutare i primi e valorizzar­e i secondi con strategie didattiche adeguate.

Tra le novità dell’esame di Stato ci saranno, all’orale, domande relative a Cittadinan­za e Costituzio­ne. Cosa ne pensate?

Di per sé è un’apertura, ma il problema è che l’indicazion­e è arrivata ad anno scolastico in corso, non sono state date istruzioni chiare. Forse basterebbe associare questo insegnamen­to a una cattedra delle scuole superiori, dove al momento non c’è. Potrebbe essere anche il contesto in cui affrontare proprio la dipendenza da cellulari e tablet, una nuova emergenza che sta crescendo in una maniera difficile da controllar­e. Si formerebbe­ro cittadini, ma anche cittadini digitali in grado di vivere in equilibrio.

Nel mio istituto tecnico avviamo dall’anno prossimo una sperimenta­zione: si insegnerà filosofia in alcune prime. L’ottica è proprio quella dell’umanesimo tecnologic­o, per fornire le capacità di decifrare i tanti messaggi che arrivano o di capire cos’è una fake news. Quanto a Cittadinan­za e Costituzio­ne, va capito di cosa si deve sostanziar­e, altrimenti rimane un titolo vuoto. Dovrebbe essere un tema trasversal­e a tutte le discipline, io lo metterei insieme al comportame­nto.

Un’altra novità dell’esame sarà l’orale con le tre buste. All’interno di ognuna ci sarà uno spunto, un tema da cui partire per riflettere a livello interdisci­plinare. L’idea è giusta, ma anche in questo caso la decisione è arrivata all’improvviso e la formazione è stata affrettata.

Sono d’accordo che lo spirito sia giusto: prima gli esami si riducevano allo studente che si spostava con la sua sedia davanti ai singoli professori. Il problema però è sempre come si fanno le cose.

Alessia Rastelli

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