Corriere della Sera - La Lettura
Vinco la guerra in Siria preparando sottaceti
Un infarto ha suggerito a Khaled Khalifa la trama del nuovo romanzo: il viaggio per seppellire un uomo morto di malattia. Un’assurdità in un Paese assurdo
«Questo romanzo nasce da un evento personale. Nel 2013 ho avuto un infarto e sono stato ricoverato in terapia intensiva. Quella sera ho immaginato che cosa sarebbe successo se fossi morto in quel momento: i miei cari avrebbero trasportato il mio corpo fino alla tomba di famiglia, nel nostro villaggio a nord di Aleppo. Erano giorni terribili. Non si poteva raggiungere il centro della città senza transitare attraverso diversi posti di blocco. Nell’arco di 5 minuti ho visto passare nella mia immaginazione gli elementi del romanzo. Poi l’ho scritto per non morire. Sentivo che questo romanzo mi avrebbe ucciso se non lo avessi narrato ». Morire è un mestiere difficile( Bompiani)d ello scrittore Khaled Khalifa è la storia di Bulbul che, nella Siria sconvolta dalla guerra, trasporta in minibus il cadavere del padre fino al villaggio natale, in compagnia del fratello e della sorella. Nessuno li compiange perché è deceduto per cause naturali: sono dei privilegiati in un Paese in cui le morti violente sono ormai eventi ordinari.
Sul «New York Times» il libro è stato paragonato alle opere di Faulkner «perché lui non si limitava a scrivere del Sud, scriveva anche della guerra civile».
«Ammiro Faulkner: per me è un maestro, perciò sono felice di questo paragone. Ma qui tutto è diverso. Ciò che è avvenuto in Siria non è una guerra simile alle altre».
Perché ha trasformato il rito di sepoltura in un’odissea surreale?
«Durante questa guerra i siriani hanno sepolto i loro cari nei giardini, nelle strade, nei boschi. Non abbiamo ancora affrontato la questione delle decine di migliaia di corpi dispersi dei morti sotto tortura nei campi di detenzione. Allo stesso tempo ho voluto scrivere un romanzo che non riproduca i fatti della guerra ma esplori in profondità l’ipocrisia della famiglia e della società, che è stata la prima cosa a soccombere nella rivoluzione. Uso l’immaginazione perché per me la scrittura che ne è priva è nata morta».
Come Bulbul lei ama preparare sottaceti: un modo di preservare la vita in un tempo di morte?
«Ho aspettato un quarto di secolo prima di raccontare Bulbul. Quanto ho riflettuto su questo personaggio, su come e dove avrei dovuto tratteggiarlo! Forse La morte è un mestiere difficile è semplicemente un pretesto per creare Bulbul, che non si limita a essere una caratterizzazione del siriano, ma dell’essere umano in ogni luogo del pianeta. È una persona che ha paura di tutto: dell’amore e del matrimonio, del passato e del futuro... Sicuramente ci sono molte questioni mie, che appartengono al profondo della mia personalità, che si incrociano con quelle di Bulbul. Durante la guerra abbiamo inventato tanti modi per vivere: uno di questi, per me, è stato tornare con la mente ai tempi dell’infanzia, quando si facevano i sottaceti e le marmellate. In guerra la vita diventa più assurda».
Lei scrive che c’è qualcosa di più terribile della paura: il desiderio di vendetta. È questo il sentimento dominante in Siria oggi?
«I siriani hanno vissuto all’ombra di una spaventosa paura per 50 anni. Una paura motivata. La repressione che abbiamo vissuto è senza precedenti. Per quanto ne so io, non credo che la vendetta sia l’aspirazione dei siriani. Non sappiamo tuttora in che mo dosi concluderà questa guerra. Quel che so è che, se ci sarà giustizia e i criminali verranno processati, la volontà di vendetta sarà meno impellente o addirittura sparirà. Non escludo che ci potranno essere vendette personali ma non rappresenteranno un fenomeno sociale o legato a un gruppo etnico o confessionale. I siriani sono, storicamente, un popolo pacifico e si daranno da fare per il futuro dei loro figli e la rinascita del Paese».
Che cosa pensa delle proteste in Algeria? È una vera rivoluzione?
«Non ho mai perso la speranza nelle rivoluzioni arabe, malgrado gli eventi negativi che le hanno stravolte e le controrivoluzioni, come in Egitto, o le guerre come in Siria e Libia. Per questo è importante la rivoluzione algerina. Io la chiamo rivoluzione e anche per la Siria respingo la denominazione di guerra civile. Quel che sta avvenendo in Algeria e Sudan rinnova la speranza nella Primavera araba. È la seconda ondata, più forte e più pericolosa. Quel che è avvenuto in Siria serviva a spaventare gli altri Paesi arabi. Ma l’effetto è stato opposto: ad avere paura ora sono i dittatori. Queste rivoluzioni continueranno. I popoli arabi non possono tornare indietro. È finito il tempo dei generali e si concluderà anche il ruolo dell’islam politico».
Continuerà a vivere a Damasco?
«Non ho intenzione di abbandonare la mia città e il mio Paese. Sono capace di sopportare e di condividere la pessime condizioni di vita della mia gente, benché questo romanzo sia stato pubblicato all’estero e come al solito censurato in Siria».