Corriere della Sera - La Lettura
Seguendo la scia digitale Il populismo nei Big Data
Le rilevazioni di massa consentite da internet possono aiutare le scienze sociali a decifrare i fenomeni «orizzontali» indirizzati contro le élite Attenzione però a non credere che sia il canto del gallo a far sorgere il sole
Che relazione può esserci fra le chiamate telefoniche e i messaggini che la gente si scambia sui cellulari da una parte, la diffusione della povertà dall’altra? Il ricercatore americano Joshua Evan Blumenstock ha mostrato che la relazione esiste. In un articolo su «Science» è riuscito a stimare i tassi di povertà del Ruanda senza svolgere alcuna ricerca sul campo. Ha usato i registri digitali dell’operatore telefonico, ha fatto alcune ipotesi sul nesso fra abitudini telefoniche, contenuti e linguaggio degli Sms, da un lato, e livelli di reddito degli utenti, dall’altro lato. Poi ha elaborato degli algoritmi e addestrato un computer ad analizzare milioni di dati. Alla fine ha prodotto delle stime che si sono rivelate molto accurate.
È solo un esempio delle opportunità che i cosiddetti Big Data offrono per studiare i fenomeni economici e sociali,
quasi in tempo reale. La «scia digitale» che ognuno di noi lascia quotidianamente rischia di minacciare la privacy, di renderci tutti «sorvegliati speciali». Ma apre anche straordinarie possibilità di conoscerci meglio, di capire le nostre dinamiche interattive, di predirne gli effetti e dunque di impostare politiche pubbliche più efficaci. Di questi temi si è recentemente discusso alla Statale di Milano, in occasione del lancio del nuovo laboratorio di sociologia sperimentale Behave.
Il dibattito che segue offre un giro d’orizzonte con studiosi qualificati sulle prospettive della ricerca sociale nella nuova era digitale. Il sociologo americano Matthew Salganik, professore alla Princeton University, è nel comitato di direzione di Mathematica Policy Research, una società specializzata nella valutazione delle politiche pubbliche. Andreas Flache, nato in Germania, insegna attual
mente Sociologia all’Università di Groninga, in Olanda, ed è tra i pionieri dell’applicazione di modelli di simulazione al computer alle scienze sociali. È un esperto in quel campo anche Flaminio Squazzoni, ordinario di Sociologia all’Università degli Studi di Milano, che dirige il laboratorio Behave.
MAURIZIO FERRERA — La democrazia è oggi sottoposta a forti pressioni. Le piattaforme digitali e la comunicazione sui social media stanno creando «società orizzontali», sempre meno tolleranti rispetto ai principi gerarchici (in particolare la distinzione tra governati e governanti) su cui si basa la rappresentanza. È una fase di rapidi cambiamenti, affascinante per la ricerca sociale. Ma gli scienziati sociali sono pronti ad affrontarla?
MATTHEW SALGANIK — Credo di sì. Con l’analisi dei Big Data le scienze sociali passeranno dalla fotografia alla cinema
tografia, dalla statica alla dinamica. Per ora il principale ostacolo è che i Big Data non sono posseduti da università e centri di ricerca, ma da imprese e istituzioni pubbliche. Bisogna allargare e garantire l’accesso diretto e su vasta scala a questi dati.
FLAMINIO SQUAZZONI — Per comprendere come funziona la nuova «società orizzontale» — anche nei suoi rapporti con la politica — abbiamo bisogno di lavorare con dati particolareggiati a grana fine e di elaborare nuove teorie e ipotesi. Sono d’accordo con Salganik: per vedere progressi significativi, l’accesso e la condivisione di dati sono cruciali.
ANDREAS FLACHE — La sfida richiede prospettive interdisciplinari e nuove metodologie di ricerca. Nel nostro gruppo di ricerca, abbiamo usato i Big Data per analizzare, ad esempio, l’emergere della polarizzazione dell’opinione pubblica su te
matiche divisive, come l’immigrazione. La disponibilità di dati dalle piattaforme digitali rivoluziona anche il modo in cui calibriamo e verifichiamo i nostri modelli teorici. MAURIZIO FERRERA — Quando la massa di dati disponibili è così ampia, viene la tentazione di «far parlare» i dati da soli, estraendo regolarità e associazioni per via induttiva, tramite formule e algoritmi. Non si corre però il rischio di arrivare a conclusioni superficiali, non suffragate da ipotesi causali?
MATTHEW SALGANIK — Il rischio c’è. Supponiamo di osservare che il canto di un gallo al mattino predice sempre il sorgere del sole e così per vari giorni. Da tale osservazione potremmo sviluppare un modello predittivo: questa è, semplificando, la logica delle regolarità basate su correlazione. In questo modo però non riusciamo affatto a capire perché sorge il sole. Le (buone) decisioni della politica presuppongono la comprensione dei meccanismi di fondo dei fenomeni su cui si deve decidere. Se trovassimo un modo per evitare che il nostro gallo cantasse al mattino, il sole continuerebbe a sorgere comunque. Detto questo, è però vero che la ricerca sistematica di correlazioni su grandi insiemi di dati è spesso un utile punto di partenza: può generare associazioni interessanti tra fenomeni, che possono rivelarsi preziose per identificare nuovi meccanismi causali.
ANDREAS FLACHE — Ecco un altro esempio significativo. In parecchie città americane si notano fenomeni di segregazione razziale fra diversi quartieri. Eppure le ricerche segnalano che molti cittadini non sono ostili a vivere in quartieri multietnici. Se anche continuassimo a raccogliere dati sulle preferenze per anni, non riusciremmo a ricostruire i meccanismi che determinano la distribuzione nello spazio urbano delle famiglie appartenenti a varie etnie. Di conseguenza è fondamentale sviluppare modelli che riproducano l’interdipendenza delle scelte individuali. FLAMINIO SQUAZZONI — La disponibilità di grandi masse di dati è una grande opportunità per capire l’aggregazione
delle scelte individuali. Ma abbiamo ancora bisogno di modelli, ipotesi e test. Non possiamo lasciare nelle mani di informatici e fisici, più in generale degli esperti della cosiddetta data science, la ricerca sociale del futuro. MAURIZIO FERRERA — Torniamo al tema dell’immigrazione, alla rapida diffusione di credenze che oppongono in maniera frontale «noi» e gli «altri». In che modo le «scie digitali» oggi disponibili consentono di comprendere in modo più preciso le dinamiche di polarizzazione in questo campo?
ANDREAS FLACHE — Sappiamo che c’è una relazione fra i sentimenti anti immigrazione e le condizioni di insicurezza e di bassa istruzione. Ma non conosciamo bene le condizioni che idealmente trasformano tali fattori in un movimento collettivo anti immigrati. Anche qui, tracciare la formazione di tali gruppi su Twitter, ad esempio, potrebbe essere utile a confermare l’importanza dei fattori contestuali, considerando anche la suscettibilità che ognuno di noi ha rispetto alle opinioni degli altri soggetti con cui interagiamo. FLAMINIO SQUAZZONI — Come hanno ben mostrato Robert Sapolski nel saggio Behave («Comportarsi», Penguin Books, 2017) e Joshua Greene nel suo Mo
ral Tribes («Tribù morali», Penguin Books, 2014), nel corso dell’evoluzione sociale siamo stati in grado di regolare le nostre interazioni in gruppi sociali di scala relativamente elevata (il famoso numero di Dunbar, circa 150 soggetti). Tuttavia, abbiamo difficoltà a regolare la relazione tra «noi» e «loro», la relazione tra gruppi. A volte sviluppiamo istituzioni che ci
aiutano a ridurre la probabilità di conflitti inter-gruppo, altre volte non ci riusciamo. Sostituiamo la parola «gruppo» con la parola «nazione» e l’equazione assomiglia molto a quello che accade oggi. In sostanza, in quella «lunga durata» su cui insisteva il grande storico francese Fernand Braudel, la relazione tra «io» e «noi» è più radicata nella nostra storia evolutiva. Creare relazioni pacifiche tra «noi» e «loro» risulta più difficile e gli equilibri che costruiamo sono più fragili. MAURIZIO FERRERA — In alcune sue ricerche, Flache ha mostrato che la polarizzazione di opinioni (pro/contro gli immigrati, pro/contro i diritti delle minoranze) è più probabile quando gli individui sono segregati in reti sociali dove i segnali di «orgoglio» e «stigma» hanno connotazioni etniche o religiose. È un destino inevitabile?
ANDREAS FLACHE — No, ma Squazzoni ha ragione, la preferenza che abbiamo a cooperare con i membri del nostro gruppo identitario ci espone a tale rischio. Le nostre ricerche mostrano che se le persone interagiscono preferibilmente con membri del loro stesso gruppo (etnico o religioso), è probabile che emergano opinioni negative circa l’altro, con effetti di rinforzo causati dal conformismo sociale e dall’omofilia (tendenza ad interagire preferibilmente con persone simili e a divenire più simili nel corso del tempo).
MATTHEW SALGANIK — Non penso che ci sia un destino ineluttabile di polarizzazione. Ci sono stati momenti nella storia in cui la polarizzazione ha causato danni, ma abbiamo anche sviluppato degli anticorpi. FLAMINIO SQUAZZONI — Certo, ma nell’attivare questi anticorpi è fondamentale il ruolo delle élite politiche. Molti leader oggi alimentano la polarizzazione. Noi scienziati sociali abbiamo qui un compito importante. L’analisi dei Big Data fornisce un’occasione straordinaria sia per comprendere le dinamiche della «società orizzontale», per identificare le responsabilità dei leader e al tempo stesso i
loro margini di manovra per trovare equilibri virtuosi. MAURIZIO FERRERA — Molte nostre scelte lasciano tracce digitali, ma anche le non-scelte sono importanti. Come ha osservato Jon Elster in La spiegazione del
comportamento sociale (il Mulino, 2011), il nostro comportamento (i nostri desideri, le nostre credenze, i nostri scopi) non si esaurisce nelle scelte esplicite.
ANDREAS FLACHE — Sono d’accordo. I tweet o qualsiasi altra traccia digitale non dicono molto circa i processi cognitivi ed emotivi alla base delle nostre decisioni. Bisogna identificare tali processi e i loro legami causali con le tracce che le persone lasciano. MATTHEW SALGANIK — Concordo. Fortunatamente, la scienza sociale ha sviluppato da tempo strumenti per identificare questi processi. La mappatura delle tracce e l’analisi basata su meccanismi sono complementari, non alternativi, come ho mostrato nel mio libro Bit by Bit (di prossima uscita dal Mulino).
FLAMINIO SQUAZZONI — Aggiungo una sola osservazione: per spiegare il comportamento sociale abbiamo bisogno di strumenti avanzati di osservazione sperimentale. MAURIZIO FERRERA — Su quali fattori bisognerebbe puntare per migliorare la qualità della ricerca sociale del futuro?
ANDREAS FLACHE — Formazione di qualità e addestramento all’uso dei modelli computazionali e degli esperimenti in un’ottica interdisciplinare.
MATTHEW SALGANIK — Una formazione che integri i vari campi che abbiamo toccato qui. Capace di fornire strumenti di comprensione in qualsiasi attività o settore professionale. FLAMINIO SQUAZZONI — Aggiungerei un pizzico di interdisciplinarità: credo nella «sociologica comportamentale» come un terreno di coltura per studiosi d e l c o mpor t a mento i n d i v i d u a l e e d esperti di evoluzione antropologica e socio-biologica. Di nuovo, l’attenzione al lungo periodo è fondamentale. Dopotutto, la società esisteva anche prima di Twitter.
La xenofobia cresce tra gli individui segregati in reti dove i segnali di orgoglio e stigma si connotano in senso etnico o religioso