Corriere della Sera - La Lettura
Mi chiamo Shakespeare, Richard Shakespeare e non rubo a mio fratello
Isuoi romanzi hanno titoli come Il signore della guerra, L’ultima fortezza, Il cavaliere nero, Re senza Dio. Quasi tutti «sono essenzialmente storie d’avventura scritte sullo sfondo di una guerra». Con circa 30 milioni di libri venduti, tradotti in più di venti lingue, Bernard Cornwell è considerato il romanziere storico di maggior successo del mondo. Con La congiura dei fratelli Shakespeare, il suo 55° romanzo, lo scrittore abbandona le campagne militari per volgere lo sguardo al mondo del teatro elisabettiano. Protagonista della storia è Richard Shakespeare, attore in cerca di fortuna in un mondo dominato dalla fama schiacciante del fratello maggiore. Il giovane sbarca il lunario soltanto grazie alla bella presenza, alla lingua tagliente e a piccoli furti. Così quando un prezioso manoscritto ( Sogno di una notte di mezza estate) sparisce, Richard è il principale sospettato...
Mister Cornwell è davvero esistito un Richard Shakespeare?
«Shakespeare aveva tre fratelli: Gilbert, Edmund e Richard. Sappiamo qualcosa, non molto, dei primi due (Edmund, il più piccolo, è diventato attore, probabilmente nella compagnia del fratello, ed è morto giovane. È sepolto nella cattedrale di Southwark), ma quasi nulla di Richard. Un personaggio assolutamente meraviglioso per un romanziere storico! Ho pensato che se mi fossi occupato di Edmund mi sarei fatto influenzare dal fatto che facesse l’attore; volevo invece dare briglia sciolta all’immaginazione. Così, per così dire, ho traslato il lavoro di Edmund su Richard, di cui non si sa nulla, per poter inventare di sana pianta la sua vita. Un espediente che mi ha divertito moltissimo».
Che tipo di personaggio ha immaginato?
«È un ragazzo che sta diventando uomo, un giovane che attraversa quella delicata fase di passaggio in cui non si ha ancora la piena consapevolezza delle proprie capacità, del proprio potenziale. Richard sa di essere un bravo attore, di poter ambire al successo. È di bell’aspetto e ha un talento naturale, ma gli servirà quello di cui tutti gli attori hanno bisogno: un po’ di fortuna».
La relazione dei fratelli è tesa, ostile, conflittuale. William è scostante e crudele: un ritratto che, ovviamente, riflette il punto di vista di Richard. Perché ha scelto di presentarlo in questo modo?
«Non penso che William sia cattivo, solo non è particolarmente affezionato al fratello: Richard gli ricorda Stratford, di cui William ha una visione ambivalente. Da un lato è dove ha cominciato, dove probabilmente non ha avuto grande successo, dove le sue ambizioni hanno superato di gran lunga le apparenti opportunità, e dove con ogni probabilità ha contratto un matrimonio meno che soddisfacente. Sono tutte, naturalmente, supposizioni basate su esili prove, ma sulle quali i romanzieri prosperano. Dall’altro lato Stratford è anche casa, come testimonia l’acquisto di New Place, la residenza dove visse dal 1597 fino alla morte, nel 1616. Richard è un promemoria di ciò da cui è fuggito — e pure una seccatura, visto che gli chiede continuamente favori. È un uomo impegnato: imprenditore, scrittore, attore, probabilmente regista. La presenza del fratello minore è una fastidiosa distrazione».
Ha dedicato il libro «a tutti gli attori e le attrici, i registi, i musicisti e i tecnici del Monomoy Theatre». Perché?
«Questo romanzo è sostanzialmente una dichiarazione d’amore per il teatro. Dodici anni fa sono stato coinvolto nelle attività di un teatro molto particolare, il Monomoy di Chatham, nel Massachusetts: da allora ho trascorso tutte le mie estati su un palco. Durante quel periodo il Monomoy organizza lunghi seminari di recitazione per giovani attori provenienti da ogni parte d’America, sotto il tutoraggio di professionisti senior. Curano anche tutta la filiera: trucco, parrucco, costumi, scenografie. Vedere dal vivo il processo di messa in scena di un’opera teatrale, dalla lettura iniziale del copione fino alla “prima” con il pubblico, è affascinante. La gente del posto può interpretare ruoli secondari, ed è così che sono stato coinvolto. Sono stato Prospero, il duca di Milano, nella Tempesta: recitare mi è piaciuto così tanto che non ho più smesso. Sono stato Toby Belch ( La dodicesima notte), Enrico IV, Peter Quince ( Sogno di una notte di mezza estate), Frate Lorenzo ( Romeo e Giulietta). Questa esperienza mi ha spinto a leggere tutto quello che potevo su Shakespeare, sulle sue opere. Considerato il mio lavoro, il passo successivo non poteva essere che scrivere un romanzo».
Come è cambiato, oggi, il teatro?
«Il teatro non è cambiato: può essere cambiato lo stile di recitazione, può essere cambiata la sede del teatro nel corso dei secoli, ma ciò che accade dentro il teatro è esattamente quello che accadeva nel 1595. Quello che noi vediamo oggi, nel 2019, succedeva anche allora».
Perché ha scelto il «Sogno»?
«Perché, secondo me, è la più bella commedia di Shakespeare. Ho recitato due volte nel Sogno, è un testo
Bernard Cornwell, autore di romanzi storici, una passione sfegatata per il teatro, ha scritto «La congiura dei fratelli Shakespeare»: accanita ricerca delle fonti e sana invenzione. Perché è vero, dice in questa intervista: William aveva tre fratelli; e sì, è vero, uno di loro si chiamava Richard; e tuttavia...
che conosco bene, e credo lo conoscano bene anche i lettori. In un primo tempo avevo pensato a Romeo e Giuliet
ta, ma è una tragedia, e io volevo fare qualcosa di divertente. Il Sogno è comico, brioso, pieno di battute». La sua opera preferita, «Sogno» a parte?
«Senza dubbio Come vi piace, una commedia delicata e profonda. La protagonista Rosalinda è il personaggio femminile per eccellenza, non conosco nessun uomo che non ne resti affascinato. È la mia preferita in assoluto. Il Sogno invece se la vede con Macbeth, di cui è l’esatto opposto: duro, violento, dark». La vera star del libro è però il teatro elisabettiano...
«È il periodo in cui il teatro assume una forma stabile, in cui nasce l’industria teatrale — un’industria che perdura tutt’oggi. Nel 1595, l’anno in cui si svolge il romanzo, a Londra, sulla riva destra del Tamigi, ci sono giù due teatri, il Rose e lo Swan. In seguito ne sorgeranno altri, tra cui il Globe — che vedrà la luce nel 1599. Ho fatto moltissime ricerche per la stesura del romanzo, il 90% del materiale l’ho buttato via: non volevo annoiare il lettore con dettagli troppo tecnici. Ma il furto dei due manoscritti c’è stato veramente. Anche se non risulta che c’entrasse qualcuno della famiglia Shakespeare». Dove pone il confine tra finzione e realtà?
«Il confine è sempre molto fluido. Non sono uno storico né uno studioso, sono un narratore che racconta storie e si diverte a farlo. E vorrei che, leggendomi, i lettori venissero trasportati in un mondo che non esiste, ma sembra vero. Quello che conta è che lo sfondo dell’azione sia autentico. Se descrivi il XVI secolo, devi essere accurato. Non si può inventare la storia, non si può dire che i francesi vinsero la battaglia di Waterloo — anche se loro pensano di averla vinta —, sarebbe un falso. Bisogna fare in modo che gli eventi storici reali possano andare mano nella mano con ciò che il romanziere inventa, che la parte immaginata sia il più vicino possibile alla verità storica. In molti miei romanzi ho messo ampie note a piè di pagina per avvertire il lettore che il tale episodio era inventato. Non ho mai tradito la storia». In una intervista ha definito Trump un «clown». Se invece fosse un villain shakesperiano, chi sarebbe?
«Se dovessi assegnargli una parte — e non è facile! — cercherei di uscire dal cliché del cattivo. Gli darei ruoli comici, ma in Shakespeare i ruoli sono interpretati da personaggi inoffensivi. Trump si avvicina di più a Riccardo III».