Corriere della Sera - La Lettura
È una farfalla persa in un bicchiere
Valerio Binasco porta in scena a Torino il capolavoro «In questo testo ho visto un figlio e la perdita di un padre»
Amleto di William Shakespeare è stato paragonato a un famoso giardino zen di Kyoto composto da sette pietre fissate nella sabbia, da qualsiasi angolo lo guardi, non vedrai mai tutte e sette le pietre che lo compongono, una sfuggirà allo sguardo e quella vista sottratta sarà, cambiando posizione, la tua scoperta. Così ogni regista ha il suo sguardo, la sua posizione, la sua chiave di lettura che rivela qualcosa e altro nasconde. Amleto ha un volto che è un volto sempre diverso che mai si svela nella sua interezza, insomma mille volti ma mai un volto di un uomo dei tempi di Shakespeare, sempre un volto che è un affanno dell’oggi.
Dice Peter Brook che «dalle profondità dei miti — e Amleto è un grumo di miti — vengono sempre a galla novità. Ogni dieci anni Amleto ci racconta qualcosa di nuovo». Per questa ragione abbiamo incontrato Valerio Binasco, che torna ad Amleto da regista dopo averlo incontrato come interprete e protagonista. Lo spettacolo sarà dal 30 aprile al 19 maggio alle Fonderie Limone di Moncalieri - Teatro Stabile di Torino che l’ha prodotto. La compagnia è composita, accanto a giovani e giovanissimi, come Gabriele Portoghese, Amleto, attori di buon livello come Michele Di Mauro, dolente re Claudio, o Mariangela Granelli, la Regina, o Fabrizio Contri, lo Spettro.
«Ho un paragone di più basso livello rispetto al giardino zen e le sue sette pietre — esordisce Binasco —. Amleto lo paragono spesso al tiro ai barattoli: miri, lanci e non riesci mai a prenderli tutti. La prima cosa che devo fare per accostarmi ad Amleto è dimenticare che sia una storia mitica, fare finta che non sia mai esistita prima; è chiaro che poi magari scontento molti punti di vista critici o culturalmente più raffinati, ma io non posso farmi condizionare da niente. È una storia che continua a emozionarmi profondamente, e al centro di questa storia è difficile trovare un’identità a qualcuno che è in una disperata, lancinante, dolorosissima ricerca della propria identità: per lui stesso queste sette pietre, questi sette barattoli, costituiscono un tragico mistero». Quindi c’è un nucleo palpitante che tocca nel profondo. Si interroga il regista: «Mi commuove la storia di questo ragazzo, Amleto, se è legata alla sua lotta contro il potere? La risposta purtroppo è: non mi commuove. Mi commuove che sia legata a problemi profondamente connessi alla sua indole di ribelle? Purtroppo no! Credo che questa storia abbia un grande potere, ancora oggi, perché fa leva su alcuni sentimenti archetipici, il rapporto del figlio con il padre, il rapporto del figlio con la madre; questa sorta di ricerca d’identità disperata da parte di un figlio. Mentre sono così certe le identità genitoriali, sono così certe le identità esterne, sempre più incerto è l’abisso nel quale Amleto sprofonda con i suoi interrogativi su sé stesso».
Amleto una volta è pazzo e l’altra no, una volta vede davvero lo spettro del padre, un’altra volta se lo inventa di sana pianta o è una proiezione del suo immaginario. Ora è un eroe, un vendicatore, ora un paranoico, ora la sua è consapevole follia, ora è rabbia incontenibile, ora è «giovanottistico», brillante e allegro, ora invasivo, quasi prepotente, ora intellettuale macerato e emaciato, ora atletico, ora sorridente killer a