Corriere della Sera - La Lettura
Caro papà, scoprirò chi eri...
Se un padre molla tutto per inseguire l’esecuzione perfetta della «Nona» di Beethoven, e si fa sedurre dal nazismo, accade quel che Giuseppe Culicchia racconta
Si può scoprire il cuore di tenebra di un padre e continuare ad amarlo? È il principale dei nodi che Giuseppe Culicchia stringe in questo nuovo romanzo in cui si spoglia del tono scanzonato, ironico, che ha caratterizzato molti dei suoi libri (il precedente, Essere Nanni Moretti, era una cavalcata grottesca ed esilarante dentro al mondo dell’editoria), per scavare nella sostanza più intima di un uomo trovato morto per infarto dalla domestica nel suo appartamento di Berlino.
Direttore d’orchestra, Federico Rallo era ossessionato da Wilhelm Furtwängler, che nel 1942 aveva diretto la Nona Sinfonia di Beethoven per celebrare il compleanno di Adolf Hitler. Una versione perfetta, perché, a dire del maestro, quella sera del 19 aprile Furtwängler aveva già capito che la Germania aveva perso la guerra: «Fin dalle prime note, l’orchestra sembra gridare: Siamo perduti! Nell’esecuzione si avvertono distintamente il tormento ma anche il furore», troverà scritto Giulio negli appunti del padre che proprio a quella sinfonia deve
la fine della sua carriera. A lungo aveva cercato di ripeterla identica, costringendo l’orchestra a lunghe e inutili prove.
L’anima nera di quest’uomo è seppellita nel suo computer ed è lì che lo va a cercare il figlio Giulio, fotografo trentenne, protagonista e voce narrante del romanzo. Molti dei rapporti di Giulio, anche quelli più stretti, sono virtuali: apprende la notizia da Facebook (dove si accumulano Rip e faccine che piangono), la comunica via WhatsApp al fratello Pietro (che risponde laconicamente «Sì ho letto grazie») e alla madre che dal Vietnam dove vive con il nuovo compagno replica semplicemente: «Namasté». I rapporti famigliari sono ormai allentati: Pietro non ha rapporti con il padre, a cui non perdona di aver sfasciato la famiglia, vive ancora nella vecchia casa di famiglia e dorme nel letto a castello di quand’era bambino, sprofondato in un’eterna infanzia e nel rapporto simbiotico con la madre.
C’è il cuore e c’è la tenebra — riferimento non puramente evocativo al capolavoro conradiano e all’interpretazione cinematografica che ne ha fatto Francis Ford Coppola con Apocalypse Now — in questo romanzo che illumina il buio più profondo del Novecento scansando la banalità sia del bene sia del male. Il XX secolo tedesco riempie ancora gli occhi, Berlino è uno «smisurato festival a cielo aperto di urbanistica e architettura» dove convivono Jugendstil e Bauhaus, liberty e gotico, neoclassico nazista e razionalismo socialista. Nell’appartamento dove il padre viveva dopo aver ridotto all’essenziale ogni suo bisogno, Giulio trova oggetti, libri, appunti, memorabilia e scopre che la sua ossessione per l’esecuzione di Wilhelm Furtwängler ha contagiato tutto il resto diventando ammirazione per Hitler, per il nazismo «non tanto come dottrina politica ma come concezione dell’esistenza».
Un pernicioso revisionismo personale che sta accanto a lettere, registrazioni audio e fotografie traboccanti d’amore, nostalgia, senso di colpa verso i due figli lasciati da piccoli per inseguire una breve fiammata con una guardarobiera, ma sempre amati.
Culicchia tiene insieme i due piani montando materiali diversi (foto della propaganda nazista, il film di Leni Riefenstahl su Olympia, la monumentale biografia di Hitler scritta da Joachim Fest, Le Benevole di Littell, ma anche suggestioni meno esplicite), con una scrittura nitida e calda che seppellisce le ceneri e la storia privata di un uomo nelle falde del secolo breve. «Ogni tanto spunta un autoscatto. Io e te sorridenti tra i banchi del mercato della Boqueria a Barcellona. O davanti a un club di tifosi intitolato a Maradona a Napoli. Oppure sotto la neve di fronte al Lustgarten qui a Berlino. E poi di nuovo sul terrazzo della casa di Palermo: noi due seduti lì a tavola, la stessa tavola a cui nei primi scatti eravamo seduti tutti e quattro». Schiacciato da un torto che ritiene irreparabile — essere stato incapace di costruire ricordi davvero felici per i suoi figli — e dalla consapevolezza che il sogno di dirigere una Nona capace di reggere il confronto con quella di Furtwängler è naif, Federico Rallo fa della sua vita un monumento alla perdita, al fallimento, alla finitezza dell’essere umano.
Culicchia non teme di farsi carico di una fardello pesante come il fascino di un’ideologia che significa orrore. Lo fa senza ammiccamenti né indulgenza, con una storia personale che non vuole farsi paradigma, mostrando quanto possa essere breve la strada tra le vette più limpide dell’animo umano e i suoi abissi più oscuri.