Corriere della Sera - La Lettura
Ovunque sia, io sono ciò che manca
Mark Strand, di cui escono ora i versi completi, è un autore che ha molto amato, viaggiato, vissuto. I due suoi temi che ritornano sono la dedizione al paesaggio e il trionfo dell’assenza
Se si volesse ricondurre a un’unità anche minima la poesia di Mark Strand, i suoi caratteri distintivi potrebbero forse essere questi: il sentimento di non appartenenza nei confronti del mondo e della vita, l’attenzione continua al paesaggio, soprattutto naturale, e infine uno sguardo insieme attento e distratto, come se in qualche misura il poeta si trovasse sempre in una condizione di dormiveglia. Non si tratta, in ogni caso, di semplificare un’opera poetica dallo svolgimento ampio e complesso, quanto di sottolineare la presenza di rovelli esistenziali e di forma percettive che la percorrono dall’inizio alla fine. Il discorso poetico di Strand, che pure risulta sempre piuttosto elegante, civile, equilibrato, possiede al fondo un nucleo ossessivo che pare inamovibile. Si ripete spesso che certi scrittori non fanno che scrivere e riscrivere il loro primo libro. Se questo è vero, il poeta canadese-americano potrebbe davvero essere uno di questi scrittori.
L’intera opera poetica di Strand è stata riunita adesso nel volume Tutte le poesie (Mondadori), nella traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan (era stato il poeta stesso a porre come condizione che fosse Abeni a tradurre la raccolta completa della sua poesia). Guardando subito a certe asserzioni, molto dure per altro, di Dormire con un occhio aperto, il primo libro uscito nel 1964, non si può non riconoscere come assumano il valore di un oroscopo, o meglio di una condanna, come una specie di stigmate. Ad esempio: «Niente è chiaro;/ non siamo nemmeno sicuri/ se la vita che viviamo qui/ ci appartiene»; oppure: «Non esiste luogo in cui possiamo andare»; ma soprattutto: «Potresti andare avanti per anni/ senza mai avvicinarti affatto/ all’ovvio fondo della cosa». Infatti, se si traguardano queste constatazioni, che assomigliano già a punti fermi, con quello che Strand — questo poeta che comunque ha molto amato, viaggiato, vissuto (il che certamente non è senza significato) — scriverà alcuni decenni più tardi, si potrebbe dire che niente è cambiato. «È vero, come ha detto qualcuno, che/ in un mondo senza paradiso tutto è addio», scrive ancora in Porto oscuro, raccolta del 1993.
Così, si può leggere la sua parabola non solo poetica ma esistenziale come il continuo, ripetuto tentativo di mettere alla prova e, se possibile, sconfessare questi suoi primi convincimenti, cioè quei dati elementari in cui si definisce per la prima volta il nostro rapporto con la vita e con noi stessi: percezioni, sentimenti, pensiero, tutti insieme. L’impressione è che abbia voltato le pagine dei tanti paesaggi della sua vita e della sue poesie insieme inseguendo e fuggendo qualcosa d’essenziale: raggiungere un sogno di un mondo e di un sé stesso non ancora dati, e nello stesso tempo superare la propria lacuna di realtà, quel senso d’evanescenza, di distacco, di alterità che lo faceva sentire irrimediabilmente distante (salvo rarissime eccezioni) dal qui ed ora in cui pure di volta in volta sembrava avere i piedi. È difficile immaginare un poeta così attento, così fedele e partecipe alla svolgimento del paesaggio sotto i suoi occhi, e insieme più distante, più sradicato, più al di là. Le poesie di Strand rendono conto essenzialmente di questo processo, di questa tensione. Nella sua poesia è presente dunque un elemento drammatico fortissimo, e una sofferenza forse addirittura insospettabile.
Non si può non pensarlo. Basta una semplice ricerca su internet per trovare molte fotografie di Strand. Quest’uomo così bello, vivo, che non si poteva non notare, quest’uomo circondato da amici e interlocutori intelligenti, sempre nei luoghi giusti, sempre con quel sorriso aperto e un poco ironico, sempre così presente a sé stesso, in realtà non era soltanto lì, e anzi era tutto preso, proprio in quel momento, ad agganciarsi alla situazione e a reggersi, a tenere insieme le cose, come dice il titolo di una poesia. Forse addirittura nella sua mente stava di nuovo scappando. «Ogni attimo è un posto/ dove non sei mai stato», ha scritto ad esempio; o ancora, in modo anche più eloquente: «In un campo/ io sono l’assenza/ del campo./ È/ sempre così./ Ovunque sia/ io sono ciò che manca».
In fondo, è quello che accade nelle sue poesie. Lo sguardo, l’attenzione, la cura sono rivolte con straordinaria dedizione al paesaggio, a una scena determinata, al mondo visibile, o anche, come nelle numerose poesie in prosa, a qualche accadimento o aneddoto particolare; eppure, a contrasto, ciò che più colpisce è la condizione di latitanza e disorientamento dell’io poetico, il cui pensiero e le cui attese procedono sempre lontano e oltre. Forse è anche per questo che la determinazione esatta dei nomi e dei luoghi sia qui davvero sporadica. Si è parlato spesso di una vocazione metafisica, al riguardo. Certo è che lo sguardo e il pensiero non si fermano mai sui luoghi e le immagini su cui pure ambirebbero fermarsi e ritrovarsi. Di fatto, non stanno di casa lì, come da nessun’altra parte, del resto.
Come definirla? Un’assenza di gravità, d’orientamento, di presa, o come detto di radice? Oppure ancora come un trionfo dell’assenza, di ciò che non è dato e che manca? Certi titoli sembrerebbero confermarlo. Si trova ad esempio Una suite di apparenze, mentre il titolo dell’ultima raccolta è addirittura Quasi invisibile. In realtà, è proprio dall’azione reciproca tra la vocazione al paesaggio, la percezione della bellezza e insieme dei limiti della natura, il riconoscimento della necessità delle proprie aspirazioni, che si genera il fuoco di questa poesia. Sono versi ricchissimi di apparizioni, movimenti, trasparenze, rispecchiamenti, fluttuazioni, non a caso. Qui tutto davvero si muove, tutto viene colto nel suo risplendere e trascolorare e spegnersi, soprattutto nelle sequenze poetiche a cui tante volte viene fatto ricorso. Ma è come un fiume d’immagini che ci venga restituito nel suo stesso sottrarsi. In sostanza, è come se Strand fosse costretto a restituire la presenza del mondo nel momento stesso in cui desidera cantarne il congedo, la perdita, la natura effimera, l’inganno (il nostro Vittorio Sereni parlava di versi scritti «in negativo», cosa che sembra valere anche qui). Come se questo poeta fosse il servitore più fedele al tradimento del paesaggio e della vita. Anche per questo, in molte sue poesie (di cui tante d’ambientazione notturna) è impossibile distinguere la veglia dal sogno, l’attenzione analitica dagli scenari dell’immaginazione. In ogni caso, le sue mappe nere, come le chiama in un’occasione, sono sempre accese, dinamiche, aperte.
A libro finito sembra davvero che un periplo si sia concluso, esattamente come doveva essere: «E io,/ liberato da tutti i luoghi/ in cui non sono davvero mai stato,/ andrò altrove dietro il sipario,/ la sera dell’ultima rappresentazione». Questa fine, del resto, Strand l’aveva già scritta all’inizio, in una delle sue primissime poesie.