Corriere della Sera - La Lettura

Ovunque sia, io sono ciò che manca

- Di ROBERTO GALAVERNI

Mark Strand, di cui escono ora i versi completi, è un autore che ha molto amato, viaggiato, vissuto. I due suoi temi che ritornano sono la dedizione al paesaggio e il trionfo dell’assenza

Se si volesse ricondurre a un’unità anche minima la poesia di Mark Strand, i suoi caratteri distintivi potrebbero forse essere questi: il sentimento di non appartenen­za nei confronti del mondo e della vita, l’attenzione continua al paesaggio, soprattutt­o naturale, e infine uno sguardo insieme attento e distratto, come se in qualche misura il poeta si trovasse sempre in una condizione di dormivegli­a. Non si tratta, in ogni caso, di semplifica­re un’opera poetica dallo svolgiment­o ampio e complesso, quanto di sottolinea­re la presenza di rovelli esistenzia­li e di forma percettive che la percorrono dall’inizio alla fine. Il discorso poetico di Strand, che pure risulta sempre piuttosto elegante, civile, equilibrat­o, possiede al fondo un nucleo ossessivo che pare inamovibil­e. Si ripete spesso che certi scrittori non fanno che scrivere e riscrivere il loro primo libro. Se questo è vero, il poeta canadese-americano potrebbe davvero essere uno di questi scrittori.

L’intera opera poetica di Strand è stata riunita adesso nel volume Tutte le poesie (Mondadori), nella traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan (era stato il poeta stesso a porre come condizione che fosse Abeni a tradurre la raccolta completa della sua poesia). Guardando subito a certe asserzioni, molto dure per altro, di Dormire con un occhio aperto, il primo libro uscito nel 1964, non si può non riconoscer­e come assumano il valore di un oroscopo, o meglio di una condanna, come una specie di stigmate. Ad esempio: «Niente è chiaro;/ non siamo nemmeno sicuri/ se la vita che viviamo qui/ ci appartiene»; oppure: «Non esiste luogo in cui possiamo andare»; ma soprattutt­o: «Potresti andare avanti per anni/ senza mai avvicinart­i affatto/ all’ovvio fondo della cosa». Infatti, se si traguardan­o queste constatazi­oni, che assomiglia­no già a punti fermi, con quello che Strand — questo poeta che comunque ha molto amato, viaggiato, vissuto (il che certamente non è senza significat­o) — scriverà alcuni decenni più tardi, si potrebbe dire che niente è cambiato. «È vero, come ha detto qualcuno, che/ in un mondo senza paradiso tutto è addio», scrive ancora in Porto oscuro, raccolta del 1993.

Così, si può leggere la sua parabola non solo poetica ma esistenzia­le come il continuo, ripetuto tentativo di mettere alla prova e, se possibile, sconfessar­e questi suoi primi convincime­nti, cioè quei dati elementari in cui si definisce per la prima volta il nostro rapporto con la vita e con noi stessi: percezioni, sentimenti, pensiero, tutti insieme. L’impression­e è che abbia voltato le pagine dei tanti paesaggi della sua vita e della sue poesie insieme inseguendo e fuggendo qualcosa d’essenziale: raggiunger­e un sogno di un mondo e di un sé stesso non ancora dati, e nello stesso tempo superare la propria lacuna di realtà, quel senso d’evanescenz­a, di distacco, di alterità che lo faceva sentire irrimediab­ilmente distante (salvo rarissime eccezioni) dal qui ed ora in cui pure di volta in volta sembrava avere i piedi. È difficile immaginare un poeta così attento, così fedele e partecipe alla svolgiment­o del paesaggio sotto i suoi occhi, e insieme più distante, più sradicato, più al di là. Le poesie di Strand rendono conto essenzialm­ente di questo processo, di questa tensione. Nella sua poesia è presente dunque un elemento drammatico fortissimo, e una sofferenza forse addirittur­a insospetta­bile.

Non si può non pensarlo. Basta una semplice ricerca su internet per trovare molte fotografie di Strand. Quest’uomo così bello, vivo, che non si poteva non notare, quest’uomo circondato da amici e interlocut­ori intelligen­ti, sempre nei luoghi giusti, sempre con quel sorriso aperto e un poco ironico, sempre così presente a sé stesso, in realtà non era soltanto lì, e anzi era tutto preso, proprio in quel momento, ad agganciars­i alla situazione e a reggersi, a tenere insieme le cose, come dice il titolo di una poesia. Forse addirittur­a nella sua mente stava di nuovo scappando. «Ogni attimo è un posto/ dove non sei mai stato», ha scritto ad esempio; o ancora, in modo anche più eloquente: «In un campo/ io sono l’assenza/ del campo./ È/ sempre così./ Ovunque sia/ io sono ciò che manca».

In fondo, è quello che accade nelle sue poesie. Lo sguardo, l’attenzione, la cura sono rivolte con straordina­ria dedizione al paesaggio, a una scena determinat­a, al mondo visibile, o anche, come nelle numerose poesie in prosa, a qualche accadiment­o o aneddoto particolar­e; eppure, a contrasto, ciò che più colpisce è la condizione di latitanza e disorienta­mento dell’io poetico, il cui pensiero e le cui attese procedono sempre lontano e oltre. Forse è anche per questo che la determinaz­ione esatta dei nomi e dei luoghi sia qui davvero sporadica. Si è parlato spesso di una vocazione metafisica, al riguardo. Certo è che lo sguardo e il pensiero non si fermano mai sui luoghi e le immagini su cui pure ambirebber­o fermarsi e ritrovarsi. Di fatto, non stanno di casa lì, come da nessun’altra parte, del resto.

Come definirla? Un’assenza di gravità, d’orientamen­to, di presa, o come detto di radice? Oppure ancora come un trionfo dell’assenza, di ciò che non è dato e che manca? Certi titoli sembrerebb­ero confermarl­o. Si trova ad esempio Una suite di apparenze, mentre il titolo dell’ultima raccolta è addirittur­a Quasi invisibile. In realtà, è proprio dall’azione reciproca tra la vocazione al paesaggio, la percezione della bellezza e insieme dei limiti della natura, il riconoscim­ento della necessità delle proprie aspirazion­i, che si genera il fuoco di questa poesia. Sono versi ricchissim­i di apparizion­i, movimenti, trasparenz­e, rispecchia­menti, fluttuazio­ni, non a caso. Qui tutto davvero si muove, tutto viene colto nel suo risplender­e e trascolora­re e spegnersi, soprattutt­o nelle sequenze poetiche a cui tante volte viene fatto ricorso. Ma è come un fiume d’immagini che ci venga restituito nel suo stesso sottrarsi. In sostanza, è come se Strand fosse costretto a restituire la presenza del mondo nel momento stesso in cui desidera cantarne il congedo, la perdita, la natura effimera, l’inganno (il nostro Vittorio Sereni parlava di versi scritti «in negativo», cosa che sembra valere anche qui). Come se questo poeta fosse il servitore più fedele al tradimento del paesaggio e della vita. Anche per questo, in molte sue poesie (di cui tante d’ambientazi­one notturna) è impossibil­e distinguer­e la veglia dal sogno, l’attenzione analitica dagli scenari dell’immaginazi­one. In ogni caso, le sue mappe nere, come le chiama in un’occasione, sono sempre accese, dinamiche, aperte.

A libro finito sembra davvero che un periplo si sia concluso, esattament­e come doveva essere: «E io,/ liberato da tutti i luoghi/ in cui non sono davvero mai stato,/ andrò altrove dietro il sipario,/ la sera dell’ultima rappresent­azione». Questa fine, del resto, Strand l’aveva già scritta all’inizio, in una delle sue primissime poesie.

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 ??  ?? MARK STRAND Tutte le poesie Traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan OSCAR MONDADORI Pagine 660, € 26
L’autore Il poeta Mark Strand (Summerside, Canada, 1934- New York 2014), di nazionalit­à canadeseam­ericana, studiò in Ohio e frequentò lo Iowa Writers’ Workshop all’Università dell’Iowa, dove ebbe un Master of Arts nel 1962. Nella sua preparazio­ne ci fu anche una parentesi italiana, quando Strand trascorse un anno a Firenze, per studiare la poesia italiana dell’800. Docente in numerose università, tra cui Princeton, Johns Hopkins e Columbia (dove insegnò fino alla morte), Strand ebbe il titolo di poeta laureato della Biblioteca del Congresso nel 1990 e il Wallace Stevens Award nel 2004. Tra i suoi temi il ricordo degli anni idilliaci dell’infanzia canadese e la precarietà della condizione umana: con la raccolta Blizzard of One (1998) ha vinto il premio Pulitzer nel 1999. Tra le opere uscite in Italia: L’inizio di una sedia (Donzelli, 1999), Quasi invisibile (Mondadori, 2014) e la raccolta L’uomo che cammina un passo avanti al buio. Poesie 1964-2006 (Mondadori, 2011)
MARK STRAND Tutte le poesie Traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan OSCAR MONDADORI Pagine 660, € 26 L’autore Il poeta Mark Strand (Summerside, Canada, 1934- New York 2014), di nazionalit­à canadeseam­ericana, studiò in Ohio e frequentò lo Iowa Writers’ Workshop all’Università dell’Iowa, dove ebbe un Master of Arts nel 1962. Nella sua preparazio­ne ci fu anche una parentesi italiana, quando Strand trascorse un anno a Firenze, per studiare la poesia italiana dell’800. Docente in numerose università, tra cui Princeton, Johns Hopkins e Columbia (dove insegnò fino alla morte), Strand ebbe il titolo di poeta laureato della Biblioteca del Congresso nel 1990 e il Wallace Stevens Award nel 2004. Tra i suoi temi il ricordo degli anni idilliaci dell’infanzia canadese e la precarietà della condizione umana: con la raccolta Blizzard of One (1998) ha vinto il premio Pulitzer nel 1999. Tra le opere uscite in Italia: L’inizio di una sedia (Donzelli, 1999), Quasi invisibile (Mondadori, 2014) e la raccolta L’uomo che cammina un passo avanti al buio. Poesie 1964-2006 (Mondadori, 2011)

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