Corriere della Sera - La Lettura
I «tiratori senegalesi» nel macello d’Europa
Oltre 130 mila «tiratori senegalesi» combatterono nell’esercito francese in Europa durante la Prima guerra mondiale. Reclutati in realtà in tutta l’Africa occidentale, usati come carne da cannone come e più degli altri soldati, dotati di machete per terrorizzare il nemico, i tirailleurs sénégalais sono i protagonisti del romanzo Fratelli d’anima di David Diop, vincitore del premio Goncourt des Lycéens e appena pubblicato in Italia da Neri Pozza.
La storia comincia con l’agonia di Mademba Diop, ferito a morte sul fronte e ve g l i a t o d a l l ’a mi c o d ’ i n f a n z i a A l f a Ndiaye, il suo «più che fratello». Quando Mademba si arrende, Alfa diventa un’altra persona. Decide di fare quel che il capitano Armand si aspetta da lui, ovvero invadere le trincee nemiche e terrorizzare, sgozzare, sventrare i soldati tedeschi, usando il machete per collezionare mani mozzate come trofeo di guerra.
Che cosa l’ha spinta a raccontare questo lato della tragedia della Grande guerra?
«È stato un libro uscito nel 1998, la raccolta delle lettere dei soldati francesi della metropoli nella Prima guerra mondiale, curata dallo storico Jean-Pierre Guéno. Una lettura commovente, scioccante. Mi sono chiesto, esistono lettere simili scritte da tiratori senegalesi? Ho fatto ricerche e ho trovato solo documenti amministrativi su questioni tecniche o burocratiche, richieste di pagamenti in ritardo, cose così. Ho voluto ritrovare attraverso la fiction la psicologia di un soldato senegalese, un uomo che spesso viene dalla campagna africana e finisce in una guerra industriale, come dice Blaise Cendrars».
Alfa finisce in guerra per amicizia. Il suo romanzo è anche la storia di una grande amicizia.
«Ho voluto creare un personaggio come Alfa Ndiaye che avesse sperimentato una frattura interiore prima della guerra. E questa frattura è ingrandita dalla follia delle trincee e dalla perdita del suo amico Mademba, che gli ha dato il coraggio e l’amicizia nel momento in cui aveva perduto sua madre. Ho messo in esergo una citazione dei saggi di Montaigne, il famoso capitolo sull’amicizia, nel quale Montaigne parla della sua amicizia con La Boétie: “Ci abbracciavamo attraverso i nostri nomi”».
Il fatto che Alfa Ndiaye non parli il francese rende la sua situazione ancora più surreale.
«Molti di quei tiratori non parlavano il francese e sono finiti in una guerra nella quale dovevano obbedire a ordini impartiti in francese. L’esercito aveva previsto di insegnare il francese in modo semplificato, quasi caricaturale, perché i senegalesi potessero capire gli ordini. Venne insegnato loro quel tipo di francese chiamato all’epoca petit nègre, un francese impoverito, e i tiratori capivano bene che quel modo di parlare li ridicolizzava. Ma non volevo cadere in una specie di esotismo e non ho fatto parlare i personaggi in un francese rudimentale che avrebbe tradito la loro complessità psicologica. Ho scelto di costruire il romanzo sul racconto dei pensieri di Alfa».
Una lingua particolare, ricca, piena di ritmo e di ripetizioni.
«Volevo fare capire ai lettori che il mio personaggio non parlava il francese, che ero il primo traduttore di Alfa. Io parlo anche il wolof, la lingua più diffusa in Senegal, e ho cercato di ritrovare il ritmo di questa lingua. La lingua francese è malleabile, ho lavorato sul ritmo, sulle ripetizioni, per avere il ritmo di un’eloquenza estranea al francese, che suggerisce un altro orizzonte culturale».
La dimensione politica e storica non è dominante, l’aspetto più importante è quello psicologico, intimo, letterario.
«Sì, per principio. Nel mio lavoro di ricerca avevo letto molti lavori storici, le battaglie, i massacri sono cose conosciute, ma non ho preso appunti, proprio per non farmi schiacciare. Volevo che riemergessero solo i fatti che mi avevano più toccato dal punto di vista emozionale, la vicenda storica è diventata sottofondo».
Ecco perché non ci sono indicazioni geografiche precise.
«Non si sa quale battaglia precisa stiano combattendo, in quale trincea siano rifugiati. Ho voluto raccontare la madre di tutte le battaglie».