Corriere della Sera - La Lettura
L’opera parla da sola Chi crea parla con Storr
Il critico, curatore e pittore raccoglie in un volume le sue interviste ad artisti anche lontani dalla propria sensibilità. Ne emergono tristezze e slanci, opinioni politiche e accenni di poetica. Una ricognizione del contemporaneo
C’erano una volta i manifesti, gli articoli, i testi teorici e quelli autobiografici. Li hanno redatti alcuni tra i maggiori protagonisti dell’arte del primo Novecento (da Kandinskij a Malevic, da Boccioni a de Chirico, da Duchamp a Mondrian). Scritture critiche corsare, capricciose ed elusive. Testi paralleli, che non offrono la chiave per penetrare il significato autentico delle opere d’arte ma suggeriscono sentieri per coglierne gli enigmi. Meditazioni asistematiche, rapsodiche ed erratiche, che accompagnano quadri e sculture, arricchendone il senso e rivelandone anfratti nascosti. Dalla seconda metà del XX secolo questa consuetudine, progressivamente, è andata declinando. È come se la maggior parte degli artisti di oggi avesse fatto proprio un provocatorio invito di Matisse: «Volete fare pittura? Allora cominciate col farvi tagliare la lingua, perché d’ora in poi dovete esprimervi unicamente con i pennelli».
Eppure, il bisogno di parlare e di confessarsi permane. Non di rado gli artisti tendono ancora a raccontarsi, in lunghe interviste, a critici e a curatori. I quali seguono sentieri diversi. In alcuni casi (come fa la maggior parte degli indipendent curator) preferiscono abdicare alla propria missione interpretativa per limitarsi ad accogliere testimonianze di poetica. In altri casi si servono delle registrazioni audio per consegnarci originali e inattese vite di artisti, sulle orme della grande tradizione vasariana (come ha fatto HansUlrich Obrist nelle Interviews e in Vite degli artisti/ Vite degli architetti, uscito
da Utet). In altri casi, infine, alcuni critici sperimentano proposte nelle quali combinano curiosità, empatia, sensibilità antropologica, attenzione al piano biografico, volontà di raccontare l’arte in presa diretta, svelando il pensiero segreto e i riferimenti sottesi a quella complessa e irripetibile drammaturgia di figure e di segni che è un’opera.
In quest’orizzonte potremmo iscrivere il lavoro di Martin Gayford ( A Bigger Mass age. Conversazione con Dav id Hockney, Einaudi), di David Sylvester ( Interviste a Francis Bacon, Skira; e Interviste con artisti americani e Interviste con artisti inglesi, Castelvecchi). E di Robert Storr. Un caso piuttosto unico. Uno tra i maggiori storici dell’arte contemporanea, critici e curatori americani, che è anche pittore. Già senior curator al Moma di New York e rettore della Yale University School of Art, direttore della Biennale di Venezia nel 2007, collaboratore di riviste e di quotidiani (anche il «Corriere della Sera» e «la Lettura»), autore di numerosi saggi (alcuni tra i più significativi sono stati raccolti in un’antologia edita da Scheiwiller nel 2011, In destinazione ostinata e contraria), di volumi e di cataloghi (su Louise Bourgeois, Robert Ryman, Tony Smith, Chuck Close, Gerhard Richter ed Elisabeth Murray), Storr sin dall’inizio degli anni Ottanta s’è dedicato in maniera costante al genere dell’intervista, confrontandosi con molti artisti.
Le sue prime interviste vengono videoregistrate dalla Video Data Bank della School of the Art Institute di Chicago. Inoltre, dal 1995 al 2011, presso il centro culturale newyorchese 92nd Street Y, nell’ambito della rassegna Artists ’ Visions Conversations Series (da lui curata), Storr coordina conversazioni pubbliche con filosofi e artisti. Un’ampia selezione di questi materiali, edita lo scorso a nno i n un l i bro us c i to da Heni Publishing, viene ora tradotta e integrata con quattro interviste inedite ad artisti italiani (Letizia Battaglia, Luca Buvoli, Paolo Canevari e Alterazioni Video) in un volume, curato da Francesca Pietropaolo, intitolato Interviste sull’arte (Il Saggiatore). Che può essere letto in diversi modi.
Si tratta, innanzitutto, di un’involontaria autobiografia intellettuale, nella quale Storr fa confluire le sue preferenze critiche: gli artisti più amati e frequentati (come Bourgeois, Ryman e Richter) ma anche quelli forse più distanti (come McCarthy e Koons). Nei confronti di queste personalità Storr non muove mai né da pregiudizi né da posizioni astratte. Li ascolta. Tende a sollecitarli su questioni private, poetiche, culturali, politiche. Istituisce con loro una profonda sintonia, oscillando tra riflessioni teoriche e ricordi esistenziali. Animato da un gusto quasi settecentesco per l’arte della conversazione, ricerca una condivisione di idee. Il suo non è lo sguardo di chi è condannato a osservare l’arte dall’esterno (come fa un critico) ma è anche (forse soprattutto) quello di un pittore che quotidianamente usa le mani per governare colori, linee, luci. Storr pone domande brevi, asciutte, per provare a sapere qualcosa di più, non per fare sfoggio di erudizione.
Elaborare un’intervista, per lui, è un gesto maieutico o addirittura psicoanalitico, rivolto a far emergere da ciascun «amico-paziente» tensioni, ossessioni, inquietudini mai svelate: le tristezze di Battaglia, le lotte di Bourgeois, i lutti di González-Torres, le metamorfosi formali di Serra. «Per me — ha detto — l’elemento chiave nell’intervistare artisti (…) è voler sapere cosa pensano e come pensano. (…) Il mio approccio generale non è quello di fare un interrogatorio (…) ma di porre domande reali alle quali vorrei avere risposte». Due momenti esemplari. «Cosa sono gli oggetti che pendono dal soffitto?», chiede Storr a Bourgeois. Che risponde: «Sono simboli. Per simboli intendo oggetti che sono tuoi amici ma che non sono reali. (…) I simboli sono indispensabili perché ti consentono di comunicare con le persone a un livello profondo». A Richter, invece, Storr chiede: «Il dipinto ha una sua logica, un suo stato?». L’artista tedesco: «La pittura è l’unica cosa positiva che ho. Anche se considero tutto il resto in modo negativo, almeno nei quadri posso comunicare una speranza di qualche tipo. Almeno posso andare avanti».
Nate da circostanze occasionali, queste interviste sono come i tasselli di un mosaico in divenire. Collegandosi tra di loro, vanno a comporre i capitoli di un’asistematica storia dell’arte contemporanea, nella quale si transita attraverso linguaggi e pratiche (dalla pittura alla scultura, dal disegno alla fotografia, dall’installazione alla performance, dal video al film) e attraverso figure appartenenti a culture e a generazioni diverse (da Serra e Katz a Immendorf e Clemente, da Ryman e Nauman a Canevari e Kelly, fino a GonzálezTorres).
Da questo catalogo affiora una precisa idea di critica, che Storr ha enunciato nell’introduzione a In destinazione ostinata
e contraria. Lì aveva invitato i critici più giovani a scrivere solo di ciò di cui hanno fatto realmente esperienza: «Le cose che avete (…) guardato a lungo e con attenzione». Non applicate a un quadro teorie precostituite. Accostatevi all’arte come se fosse «la fonte di nuovi pensieri». Avviate conversazioni sempre insicure con l’arte, con gli artisti. Senza mai abbandonare alcune idee forti, descrivete le reazioni suscitate dell’incontro con una determinata opera. «Scrivere a qualcuno è l’essenza: resistere a ogni tentazione di avere l’ultima parola è il presupposto per mantenere vivo il dialogo e l’arte».