Corriere della Sera - La Lettura
L’ossessione di Sartre per il borghese Flaubert
Perché l’intellettuale che ha marciato per qualsiasi causa (anche la più ridicola), il mandarino grafomane che ha guerreggiato con borghesi, disfattisti ed esteti, ha dedicato formidabili energie al re del romanzo borghese? Ora, non ci sono dubbi: l’autor
Poche cose mi affascinano più dell’ossessione che Sartre coltivò per Flaubert nel corso di tutta la vita. Una fissazione che ricorda quella di un adolescente perbene innamorato della ragazza sbagliata. Eccolo qui, povero piccolo, preda del dubbio, non sa come staccarsi: teme che quel sentimento possa prendergli la mano, non venir mai meno, e pian piano, tra alti e bassi, condurlo alla tomba.
Mi rendo conto che paragonare Sartre a un adolescente perbene suona altrettanto sconsiderato che immaginare Flaubert nei panni della ragazza sbagliata; e che occorre uno sforzo di fantasia per prendere sul serio una similitudine incongrua e scostumata. Mettiamola così allora: Flaubert dovrebbe essere per Sartre lo scrittore da esecrare per antonomasia (e in un certo senso lo è, lo è sempre stato, come non si stancherà mai di ripeterci). E ciò non di meno è impossibile per lui non chiamarlo continuamente in causa.
Se deve citare uno scrittore influente — anche solo per biasimarlo, irriderlo, insolentirlo — è Flaubert il primo nome a venirgli in testa. Nel mezzo di un libretto dedicato a Baudelaire non si fa scrupoli ad aprire una cospicua parentesi flaubertiana, salvo poi chiuderla con la morte nel cuore. Mentre ci spiega che cos’è la letteratura e a cosa serve, è ancora una volta Flaubert a reclamare il suo spazio sin dalle prime righe. E persino quando Sartre scrive di sé, nella sua strana autobiografia, ecco di nuovo fare capolino Flaubert: a quanto pare, Charles Bovary dominò la scena interiore del piccolo Jean-Paul, lettore alle prime armi.
Come spiegare una così remota e longeva fedeltà a uno scrittore che è tutto fuorché il suo tipo?
In Che cos’è la letteratura — geniale manifesto di faziosità, capziosità e arroganza — Sartre scrive: «Quanto a Flaubert, che non s’impegnò, sembra che mi perseguiti come un rimorso». Allora è questo il punto? Si tratta di rimorso? Sartre vede in Flaubert la proiezione di ciò che lui sarebbe potuto essere se avesse scelto un’altra strada? Flaubert è il fratello maggiore che ha sbagliato? Che non ha capito? Che si è lasciato tentare dalla letteratura fino a farsene fagocitare e distruggere? Il borghese che ha creduto di combattere la borghesia mentre ne perpetuava privilegi, inerzia e ipocrisia? O forse no, è lui, Sartre, il fratello minore che sta sbagliando? Vedremo.
La vita esemplare di Flaubert
In uno dei suoi incantevoli saggi-racconto, Borges sostiene che il miglior personaggio che Flaubert è stato in grado di inventare si chiama Gustave Flaubert: non Emma Bovary, non Frédéric Moreau, non Félicité, e neppure quel deficiente patentato di Bouvard, bensì Gustave Flaubert: il solitario scrittore normanno. Di che personaggio parliamo? Di quello capace di incarnare l’immagine del romanziere-asceta che così tanta fortuna avrebbe avuto tra i numerosi epigoni. «Pensare all’opera di Flaubert — scrive Borges — è pensare a Flaubert: all’ansioso e laborioso lavoratore dalle molte ricerche e dagli abbozzi inestricabili. Don Chisciotte e Sancho sono più reali del soldato spagnolo che li inventò, ma nessuna creatura di Flaubert è reale quanto Flaubert».
Il saggio di Borges è intitolato Flaubert e il suo destino esemplare: non so se Sartre abbia avuto modo di conoscerlo, ma posso ipotizzare che ne avrebbe condiviso, se non lo spirito, di certo le conclusioni. Nell’Essere e il nulla — la bibbia dell’esistenzialismo che chiude la prima stagione filosofica sartriana — troviamo un’idea non troppo dissimile da quella espressa da Borges. Auspicando un nuovo tipo di psicoanalisi, Sartre scrive: «Questa psicoanalisi non ha ancora trovato il suo Freud; tutt’al più si può trovarne il presentimento in certe biografie particolarmente riuscite. Speriamo di poter darne altrove due esempi, a proposito di Flaubert e di Dostoevskij». Insomma, se per Borges quello di Flaubert è un destino esemplare che trascende persino la sua opera, per Sartre la biografia flaubertiana è particolarmente riuscita. E lo è, verrebbe da dire, proprio in virtù del suo fallimento. Già, ma come si può definire riuscita una biografia fallita? Ciò non implica forse che ce ne siano di fallite che sono riuscite? Che razza di idea è mai questa? Diciamo che per Sartre una biografia riuscita è quella che dà conto di un’esperienza di vita esemplare.
La scelta di Flaubert
Pochi anni dopo, nel saggio su Baudelaire, Sartre chiarisce ancor meglio il suo punto di vista sulla faccenda. Parlando del ruolo dell’artista borghese nel XIX secolo (una tipica ubbia sartriana), sentenzia: «Flaubert, ad esempio, pur facendo la vita d’un ricco borghese di provincia, dà come indiscutibile che lui non appartiene alla borghesia; effettua con la sua classe una rottura mitica, che appare come un’immagine impallidita delle rotture effettive prodotte, nel Settecento, dall’introduzione dello scrittore borghese nel salotto della marchesa Lambert». È a questo punto che Flaubert fa la sua scelta (e com’è noto, per Sartre, vivere significa scegliere). Ebbene, Flaubert sceglie di chiamarsi fuori e di non appartenere alla sua epoca, di venire meno ai doveri civili. Il suo disincanto è tale da impedirgli di adempiere alle consegne imposte dal suo ceto: sposarsi, procreare, investire su una professione redditizia. Ecco il romanziere meno romantico dell’Ottocento francese fare la scelta più romantica che un artista possa concepire: «Dare la mano, scavalcando i secoli, a Cervantes, a Rabelais, a Virgilio; sa che fra cent’anni, fra mille anni, altri scrittori verranno a dargli la mano; ingenuamente se li figura come l’autore di Don Chisciotte parassita della Spagna monarchica, come l’autore di Gargantua parassita della Chiesa, come l’autore dell’Eneide parassita dell’Impero romano; non gli passa per la mente che la funzione dello scrittore possa mutare nel corso dei secoli a venire». Con tutta evidenza, pur senza nominarsi, Sartre sta pensando a sé stesso. È lui lo scrittore venuto dopo Flaubert che Flaubert non ha saputo immaginare. Lo scrittore che non si contenta di essere un
parassita di un potere costituito, lo scrittore che s’impegna contro ogni potere. Temo che Sartre enfatizzasse il proprio ruolo in modo piuttosto ridicolo, ma questo è un altro discorso. Resta comunque il fatto che il suo biasimo nei confronti della scelta di vita flaubertiana è implacabile. A questo punto, l’obiezione più naturale che potrebbe fare un lettore di buonsenso suona pressapoco così: va bene, tutto giusto, ma cosa diavolo gliene importa a Sartre di come visse Flaubert? Perché è così ossessionato da come hanno vissuto gli scrittori che dovrebbe disprezzare? Perché sta lì a rimuginare sulle scelte operate da Baudelaire, Mallarmé e Flaubert? Non sarebbe più sano e onesto occuparsi dei pochi libri che ci hanno lasciato?
Come si parla di autori e di libri?
Parlare di letteratura è sempre una cosa imbarazzante. Insegnarla è anche peggio. Quando ti trovi di fronte a platee di studenti del primo anno, imberbi e inesperti, non sai mai da dove iniziare. Invidio i docenti che sulla questione hanno idee chiare e piglio sicuro. Del resto, dacché mondo è mondo i lettori si dividono in due specie a cui corrispondono approcci critici (se ha senso chiamarli così) del tutto antitetici.
1) Da un lato ci sono quelli a cui il libro non basta. Per loro è essenziale sapere cosa e chi si nasconde dietro a qualsiasi creazione artistica: scambierebbero mezzo Amleto per una notizia in più sul suo misterioso creatore. Coltivano nei confronti dell’artista una curiosità che rischia di degenerare in morbosità o idolatria. Vogliono conoscere tutto di lui: cosa lo ha spinto a scrivere quel libro e non un altro, le intenzioni recondite che lo hanno guidato, gli elementi autobiografici, gli stimoli emotivi, i condizionamenti familiari, sessuali e sociali che lo hanno reso ciò che è. Sono i lettori ingenui, i poveri di spirito avversati da artisti inflessibili come Flaubert, Proust, Nabokov. Sono quelli che oggi affollano i festival letterari fiduciosi di trovare il segreto di un libro amato nel naso aquilino di chi lo ha scritto, o nella sua eloquenza autocelebrativa.
2) Dall’altro ci sono quelli che trovano nel libro tutto ciò di cui hanno bisogno. Talmente disinteressati al resto da sdegnare la scheda biografica nel risvolto di copertina, o qualsiasi altro fuorviante paratesto. Davanti a un pezzo di prosa, cercano il piacere nelle parole, le strutture retoriche, le similitudini, l’ordito sintattico e grammaticale. Se ne infischiano di sapere cosa pensasse l’autore mentre attendeva al suo capolavoro. Quale fosse la sua posizione in merito alla questione femminile, al colonialismo, al riscaldamento globale o all’esistenza di Dio. Questa categoria di lettori severi e raffinati, di certo meno numerosa della precedente, è anche la più motivata, ma anch’essa non è esente da difetti: a cominciare da un certo snobismo.
A costo di passare per irresoluto, vorrei dire che dopo tanti anni non ho ancora capito che partito prendere. Di primo acchito, direi che sono un lettore del secondo tipo: sempre più, nel tornare a un libro amato, agisco come certi feticisti dilettanti che smontano e rimontano orologi di pregio per afferrarne i segreti, traendone voluttà solitarie. Ma, mi chiedo, perché non corroborare tale indagine con qualche informazione sulla vita, sulle abitudini, sui gusti del maestro-orologiaio in questione? Non c’è limite alla nostra conoscenza di un orologio, figurarsi di un’opera letteraria. Chiusa parentesi.
Una cosa è certa: Sartre appartiene alla prima categoria fino a farsene alfiere indiscusso. «Il mio obiettivo è (…) di mostrare un uomo » scrive con impudenza e in spregio a qualsiasi formalismo. I libri per lui sono pretesti. Ad essi preferisce la vita che vi si nasconde dietro.
È opinione diffusa che «L’idiota della famiglia», monumentale biografia che Sartre dedica a Flaubert (ora riproposta), abbia la tristezza dei fallimenti titanici di grandi autori in declino. Ma...
Le poesie di Mallarmé o le opere narrative di Genet, le pale di Tintoretto come le sculture di Giacometti, sono solo sintomi di una singolarità individuale con cui vuole confrontarsi, e se necessario scontrarsi. Nient’altro.
Non deve sorprendere se il famoso saggio in cui Barthes auspica la «morte dell’Autore», scritto proprio negli anni in cui l’imperio di Sartre inizia a vacillare, nasconda una feroce irridente critica al metodo sartriano. Barthes, da illustre rappresentante della seconda categoria di lettori sopra descritta, avversa con tutto sé stesso l’uso che Sartre fa della letteratura: un uso pedestre e fuorviante. L’idea di Sartre, infatti, sembra sfidare tutto ciò che Barthes ritiene deontologicamente onesto ed efficace. Come fidarsi, come prendere seriamente chi in un libro su Baudelaire e in uno su Mallarmé (i massimi poeti francesi dell’Ottocento) cita una manciata di versi in tutto? Il fatto è che Sartre se ne infischia della poesia, a lui interessa il poeta.
Per lui uno scrittore è un «caso umano», immerso in un contesto psicologico e sociale del tutto peculiare, che va indagato, riportato a galla e infine smascherato esponendolo al pubblico giudizio. Neanche a dirlo, il «caso umano» per antonomasia è Gustave Flaubert. Dopotutto, è lì che fin dal principio voleva andare a parare.
C’è un idiota in famiglia
Questa dedizione maniacale lunga una vita intera trova il suo apice e il punto di svolta e di non ritorno nella monumentale biografia flaubertiana cui Sartre consacra gli ultimi anni della sua vita (sopravviverà ancora per poco alla dieta a base di anfetamine, alcol, tabacco). Il titolo è tutto un programma: L’idiota della fa
miglia. E allude senza mezzi termini al ritardo patito dal piccolo Gustave nella prima infanzia.
Eccola qui, questa gigantesca biografia: il Saggiatore la ripropone nella traduzione originale di Corrado Pavolini, con una suggestiva introduzione di Massimo Recalcati. Peccato che non si abbia avuto il coraggio di colmare il buco dell’edizione precedente: all’appello, infatti, mancano ancora due dei tre volumi complessivi. Del resto, a parziale rettifica di quanto appena detto, occorre precisare che, sebbene nella sua versione integrale sia lungo come la Recherche, L’idiota della fami
glia è un’opera assai più noiosa e ripetitiva, e assai meno felice e necessaria, dell’immenso capolavoro proustiano.
Anche se il paragone non deve scandalizzare, visto che il fine che il biografo si pone nell’Idiota della fami
glia è pressapoco il medesimo: andare in cerca della fonte della vocazione artistica. Cosa trasforma, si chiede Sartre, un bambino non voluto, innocuo, docile come un animaletto, mal sopportato dai suoi familiari, affetto da un vistoso deficit di apprendimento e da una non meglio identificata malattia nervosa, nel più influente e rivoluzionario romanziere francese del XIX secolo? «Bisogna cercare di capire questo scandalo: un idiota che diventa genio». A me pare uno scandalo che vale tremila pagine.
Sebbene Sartre avesse in mente un quarto volume (solo parzialmente scritto), la mostruosa biografia si concentra sul periodo che va dalla prima infanzia di Gustave al fatidico 1857, anno della pubblicazione della
Bovary. Lo spazio infinito concesso all’infanzia, ai rapporti di forza in casa Flaubert, al padre, alla madre, al fratello, ai primi maldestri tentativi romanzeschi, al mirabile epistolario, agli amori frivoli e alle amicizie profonde è parte integrante del metodo progressivoregressivo teorizzato da Sartre in Questioni di metodo. Nella smania di mettere insieme marxismo e psicoanalisi, sotto l’autorevole egida hegeliana, Sartre muove dal presupposto freudiano che le cose realmente importanti, le sole su cui ha senso interrogarsi, che decidono di noi per sempre, avvengono nei primi anni di vita. E che tutto quel che viene dopo è la recita a soggetto di un canovaccio scritto quando ancora ignoravamo il nostro triste destino di teatranti. Federico Leoni nel suo pregevole commento all’Idio
ta della famiglia scrive: «Gli amici maoisti di Sartre faticavano a capire il loro anziano maestro. Incomprensibile, per loro, che il maestro sprecasse tempo ed energia in un progetto come l’Idiota della famiglia. Le forze di un uomo malato, quasi cieco, distrutto dagli eccessi e dagli acciacchi, dissipate in un’opera in fondo essenzialmente borghese, dedicata a un oggetto ancor più borghese come l’autore simbolo del romanzo francese ottocentesco, Gustave Flaubert».
Ciò che gli allievi maoisti di Sartre ignoravano (niente di strano: era così vasto il territorio della loro ignoranza) è non solo che L’idiota della famiglia era l’ultimo atto di una passione lunga mezzo secolo, ma che in essa Sartre voleva chiudere un conto aperto tanti anni prima e ancora in sospeso. A costo di fare a Sartre quel che Sartre ha fatto a Flaubert, vorrei puntualizzare che tale conto riguardava più il biografo che l’oggetto della biografia. Viene da chiedersi se non sia questo a rendere l’opera così affascinante.
La vulgata è che L’idiota della famiglia abbia l’aspetto triste dei titanici fallimenti con cui molti grandi autori, per eccesso di ambizione e deficit di ispirazione, hanno chiuso le loro carriere: il Finnegans Wake di Joyce, La morte di Virgilio di Broch, Ada di Nabokov, solo per citarne alcuni.
A tal proposito è interessante ascoltare il parere di Vargas Llosa, uno scrittore eminente che, per sua stessa ammissione, ha trascorso gli anni del suo entusiasmante apprendistato parigino a venerare lo stile di Flaubert e il carisma intellettuale di Sartre.
«La mia opinione su L’idiota della famiglia non è eccessivamente entusiasta; il libro interessa più lo studioso di Sartre che di Flaubert; e dopo i due mesi di lettura che richiede il saggio si rimane con la sensazione di un lavoro gigantesco che non arriva mai a compiere il progetto enunciato nella prefazione: spiegare le radici e la natura della vocazione di Flaubert attraverso un’indagine interdisciplinare, in cui tutte le scienze umane del nostro tempo dovrebbero concorrere per dimostrare cosa si può sapere, oggi, di un uomo. Non importa che un saggio letterario — quello di Sartre lo è per metà — si allontani dall’oggetto del suo studio per
parlare di altri temi, purché il risultato giustifichi lo slittamento. Ma ne L’idiota della famiglia non succede: alla fine, l’impressione è di frammentazione, di un arcipelago di idee sconnesse, di una sproporzione evidente tra i mezzi impiegati e i risultati raggiunti».
In un certo senso Vargas Llosa ha ragione, ma anche torto. La mia impressione è che, forse per bilanciare l’eccessivo credito da lui attribuito alle opere narrative di Sartre negli anni della giovinezza, liquidi un po’ troppo frettolosamente L’idiota della famiglia. In fondo, a questo punto possiamo dirlo certi di non scandalizzare nessuno: se non per mirabili eccezioni ( Il muro,
Infanzia d’un capo), i romanzi e i racconti di Sarte sono invecchiati male, peggio di chi li ha scritti. Tanto da ipotizzare che il suo abbandono della narrativa, ammantato da abiura ideologica, nascondesse un’incapacità di cui era il primo a essere consapevole. Nelle sue fiction c’è un eccesso di squallore, premeditazione e goffaggine. Laddove, bisogna ribadirlo, è sempre più evidente come abbia dato il meglio di sé in quelle strane, assurde, faziose biografie di cui L’idiota della fami
glia rappresenta allo stesso tempo apice, naufragio ed epilogo. Uno dei passi più famosi e commentati dell’Idiota
della famiglia è quello in cui ammette candidamente che si tratta di pura trasfigurazione fantastica. «Lo confesso — scrive — è una favola. Niente dimostra che la cosa sia andata così. E, peggio ancora, l’assenza di codeste prove — che necessariamente sarebbero dei fatti singolari — ci rinvia, anche quando favoleggiamo, allo schematismo, alla generalità».
Così Sartre rivendica il diritto della critica alla fantasia. Quella di cui si è avvalso spregiudicatamente per allestire i medaglioni del narciso, tracotante padre di Flaubert, della madre infingarda o dell’odiato fratello. Altro che Roquentin de La nausea! Ecco i veri personaggi sartriani: vivi, biechi, indimenticabili!
La passione per la vita degli altri
Resta ancora una questione da sciogliere. È perlomeno singolare che proprio lui — il filosofo che ha ingaggiato una lotta senza quartiere contro l’idea di destino, da un lato per liberare l’individuo da qualsiasi alibi auto-assolutorio, dall’altro per offrire a ciascuno di noi una chance in più di emancipazione dal peso delle nostre origini — si sia occupato con tanta partecipazione e acribia di artisti ripiegati su sé stessi come Baudelaire, Mallarmé e Flaubert. Perché il
maître à penser per antonomasia, che da un certo momento della sua vita in poi ha fatto dell’impegno un’esigenza irrinunciabile, l’intellettuale che ha marciato per qualsiasi causa (finanche la più ridicola e trascurabile), il mandarino che ha dichiarato guerra ai borghesi, agli esteti, ai disfattisti di ogni credo e colore, si è incapricciato di un paio di poeti e un narratore intrappolati nelle maglie della propria origine borghese, dell’estetismo e del disfattismo? Perché un grafomane del genere, un poligrafo spigliato ed eclettico ha dedicato buona parte del suo prezioso tempo a tre scrittori così artisticamente rari, se non addirittura stitici? Se era in cerca di vite esemplari, perché non rivolgersi a Voltaire, a Gide o a Che Guevara? Cosa lo affascina di Baudelaire, Mallarmé e soprattutto di Flaubert? Cosa hanno in comune questi tre disadattati di genio? E cosa condividono con il loro severo biografo? L’origine borghese, certo. La passione per una causa immateriale come l’arte. Un atteggiamento antagonistico, e tuttavia passivo, nei confronti dei filistei della propria epoca. Può bastare? Direi di no.
La sola risposta che mi viene in mente è all’inizio del libro su Baudelaire. Sartre lo scrive in poche settimane nell’immediato dopoguerra. In quel momento di vita e di rinascita niente gli è più odioso di Baudelaire, e non fa nulla per nasconderlo. Il problema di Baudelaire, scrive Sartre, è aver avuto un’intuizione immediata della «propria gratuità», e quindi della gratuità universale. Sartre si esprimerà in termini non troppo diversi anni dopo, descrivendo l’ispirazione poetica di Mallarmé: «Per il nostro poeta, l’Ideale — che lo si chiami Azzurro o Assoluto — è il puro Nulla, la semplice oggettivazione del Rifiuto. Questa X perfettamente inaccessibile determinerà senza dubbio nel poeta un sentimento puro; ma il sentimento, riflesso del No, è nuda coscienza di un vuoto». Il senso di gratuità ritorna protagonista nell’Idiota della famiglia. Sartre ha l’impudenza di attribuirlo a Flaubert neonato. Una gratuità così precoce da degenerare in un nichilismo da cui il Flaubert adulto non saprà liberarsi.
Basta avere un po’ di dimestichezza con l’opera sartriana (non per forza quella filosofica) per sapere che la gratuità della coscienza è uno dei tarli che la percorre. Su di lei ha fondato il suo impero della libertà, senza mai dimenticare però che essa può condurre alla re
traite, ossia al più nero e disincantato disimpegno. E allora mi domando se non sia questo il punto; se le sue biografie di Baudelaire, Mallarmé e Flaubert, e in un certo senso anche quella di Genet, non siano per lui una forma di esorcismo. Come quei libertini che finiscono per sposarsi e, per tenere a bada il timore di aver fatto una sciocchezza, ripensano continuamente al vecchio zio che, rimasto celibe, è morto solo e disperato.