Corriere della Sera - La Lettura
Rugoff: la Biennale merita Venite, sarà sempre Natale
Ralph Rugoff, americano, 62 anni, è il curatore della 58ª Biennale di Venezia che apre sabato 11 maggio. Qui spiega perché l’ha intitolata «May You Live in Interesting Times» (perché questi sono tempi sorprendenti, rivoluzionari, e certo un po’ confusi), qual è il compito dell’arte (aprire lo sguardo su certi drammi, ma soprattutto piacere) e quale la missione di un artista (colpire allo stomaco, andare al cuore, risalire alla testa). Nel padiglione centrale saranno presentate le opere di 79 artisti, i Paesi ospiti saranno 90. «Venite, sarà come se ogni giorno fosse Natale»
Ralph Rugoff ha l’aria stanca, ma soddisfatta. Come si conviene al curatore della Biennale di Venezia quando mancano ormai davvero pochi giorni al «punto di non-ritorno» dell’inaugurazione ufficiale prevista per sabato 11 maggio. Nel silenzio della grande Biblioteca del Padiglione Centrale dei Giardini, Rugoff parla a bassa voce, giocherellando con una bottiglietta di plastica, quasi a scaricare la tensione di chi fino a pochi momenti prima si stava confrontando con le esigenze dei 79 artisti invitati (per la prima volta le donne saranno in maggioranza), dei 90 Paesi ospiti, delle star (Christian Marclay, Tomás Saraceno, Rosemarie Trockel) e degli esordienti come Khyentse Norbu, primo artista del Bhutan a partecipare alla Biennale.
Lontano dagli eccessi estetici di Milovan Farronato (curatore del Padiglione Italia), Rugoff sembra puntare piuttosto su un basso profilo (giacca blu, jeans, camicia azzurra) che ben si addice alla sua fama di intellettuale fuori dagli schemi e dalle mode: americano, classe 1957, una laurea in Semiotica alla Brown University di Rhode Island, da anni trapiantato a Londra dove dal 2006 dirige la Hayward Gallery e dove ha (tra l’altro) prodotto nel 2013 The alternative guide to the universe, collettiva di
outsider che affiancava artisti, scienziati, urbanisti, architetti, tecnologi che prevedono scenari alternativi. Curatore, dunque, ma anche autore di saggi (raccolti nel 1995 nel volume Circus Americanus) e di articoli (per il «Financial Times» come per «Flash Art»).
Una scelta anomala, quella di Ralph Rugoff, dopo anni di curatori iper-protagonisti. Una scelta che il presidente della Biennale, Paolo Baratta (in scadenza a di
cembre, vent’anni dopo la presentazione della sua prima Biennale) giustifica così: «I visitatori sono diventati il nostro principale partner e vogliamo coinvolgerli sempre di più. La condivisione di questa idea è una delle ragioni per cui abbiamo chiesto la collaborazione di Rugoff». Che prendendo spunto da un falso anatema cinese ha scelto di intitolare la Biennale numero 58 May You
Live In Interesting Times: invito (a vivere in tempi interessanti) neanche tanto velato se consideriamo gli eventi umani «nella loro difficile complessità».
Come giudica, Rugoff, questi nostri tempi: molto interessanti o soltanto molto confusi?
«Dipende dalle sensazioni di ognuno. Forse oggi sarebbe però meglio parlare di “tempi sorprendenti” perché non siamo più confusi del solito, ma ci sembra di esserlo perché sono tante le cose che stanno cambiando in contemporanea e in un modo del tutto imprevedibile rispetto al passato. I nostri sono i tempi della rivoluzione tecnologica e genetica, dell’intelligenza artificiale, della robotica che sta trasformando la natura del lavoro e la società stessa, di un’idea di nazione non più tradizionale. Le nuove tecnologie ci fanno condividere queste trasformazioni “in diretta” come mai era stato possibile e questo ci fa sentire ancora più confusi».
Qual è il modo giusto per reagire all’incertezza?
«Non certo con la paura come hanno fatto gli inglesi votando per la Brexit o come fanno tante persone davanti a quello che è diverso e fuori dagli schemi. Uno dei compiti dell’arte è proprio quello di aiutarci a capire e apprezzare le differenze. Perché in ogni diversità si nascondono nuovi valori, nuovi ideali, nuove sensibilità. E questi nostri tempi possono essere davvero interessanti solo se riusciamo a confrontarci in modo costruttivo con la differenza».
In che modo la Biennale può aiutare il confronto?
«Vorrei che uscendo i visitatori si sentissero meno impauriti. Ma non posso assicurarglielo, perché la Biennale non è certo una seduta di terapia e perché ognuno di noi reagisce in modo diverso. La Biennale può però essere il momento giusto per cambiare il nostro pensiero, la nostra testa. Perché se l’arte non può fermare l’avanzata dei movimenti nazionalisti e dei governi autoritari, né può alleviare il destino dei profughi, può comunque offrirci una guida per vivere e pensare».
Qual è, oggi, il compito più importante dell’arte?
«Non conosci questo? Allora guardalo con attenzione anche se non ti serve per fare soldi. A questo dovrebbe spingerti l’arte, a guardare oltre il sipario, a vedere quello che non avevi visto prima, a trovare la giusta connessione tra le cose. Niente di nuovo, in fondo: lo faceva Leonardo, che prima di ogni altro ha svelato le connessioni tra arte e scienza. Non a caso, alla Biennale, ho voluto un bellissimo lavoro di Hito Steyerl ispirato a Leonardo, già protagonista di The city of broken windows, la mostra di Steyerl alla Manica Lunga del Castello di Rivoli. Il significato del lavoro di Steyerl per la Biennale è questo: chiunque stia progettando una forma sofisticata di intelligenza artificiale è pregato di tenerla per sé per i prossimi 500 anni, proprio come aveva fatto Leonardo con i suoi modelli di sottomarino che aveva voluto tenere segreti, intuendone i possibili pericoli. Sarà un modo per riflettere sulla tecnologia: bellissima e orribile, utilissima e pericolosa. Perché, ad esempio, dovrebbe interessarci un’auto che si guida da sola se al mondo ci sono milioni di persone, dagli autisti ai tassisti, che potrebbero perdere il lavoro proprio per colpa di una macchina che si guida da sola?».
Come può l’arte avvicinarsi alle persone?
«Parlando del nostro tempo. Certo ci sono tanti modi per farlo. C’è stato quello di Leonardo, oggi c’è quello di Sun Yuan e Peng Yu, due artisti cinesi che vivono e lavorano a Pechino. Alla Biennale portano Can’t help myself, un’installazione in cui un enorme braccio robotico è sospeso su una pozza di liquido scuro, rosso e denso come il sangue; un liquido che si spande incessantemente nella sala, senza che il robot riesca in alcun modo a bloccarlo, nonostante i continui movimenti del braccio, armato di un’enorme spazzola. Un modo per farci riflettere sul nostro rapporto con la tecnologia, sulla sua imprevedibilità e su cosa fare oggi davanti a tutto quel big
mess, a tutto quel gran casino, che abbiamo combinato in questi anni».
Quali sono le doti migliori di un artista?
«L’artista deve essere prima di tutto curioso, deve aver voglia di scoprire e di far scoprire cose che non conosce, deve saper andare oltre gli schemi. Vorrei che la mia Biennale fosse piena di domande perché mi piacciono gli artisti che lasciano questioni aperte, che suggeriscono interpretazioni senza darle. E vorrei che fosse una Biennale aperta a tante letture proprio come Dante e Shakespeare non possono essere mai interpretati in un solo modo. L’idea che l’arte possa essere letta in modo univoco è terribile: l’arte non è assoluta, deve suscitarti dubbi e domande senza fornire risposte definitive. L’arte è un catalizzatore che scatena reazioni. Il bravo critico è chi ti prospetta tante risposte, non una sola».
L’arte può essere d’aiuto per affrontare drammi come il razzismo o l’emigrazione?
«Per capire questi drammi è più utile un articolo di giornale che un dipinto, perché l’arte deve anche dare piacere e non solo verità; mentre i giornali dovrebbero prima di tutto informare. Ma l’arte può anche anticipare certe questioni, può aprire una finestra su certi drammi. Penso a Zanele Muholi, fotografa sudafricana che sarà alla Biennale e che da sempre lavora sulla violenza di genere, ma non solo, in Africa, mettendosi letteralmente in primo piano. Un’opera d’arte non può essere “solo” piacere e divertimento come un film di Woody Allen o sorpresa come un giro sulle montagne russe: deve aprire la mente verso quello che non conosci».
Quali sono oggi le tendenze dell’arte?
«Ce ne sono tante e differenti, nessuna più forte delle altre. Se dovessi invece fermare l’idea di “grande arte” mi rifarei a quello che qualche anno fa diceva un buon pittore irlandese: la grande arte deve andare dallo stomaco al cuore, alla testa, ma la testa deve essere l’ultima tappa. L’arte deve colpirti nelle emozioni e nelle sensazioni e poi deve farti ragionare, ma solo in un secondo tempo». (quel «buon pittore irlandese» era Francis Bacon e la sua idea non molto diversa da quella proposta di recente, in politica, dal neocandidato democratico alle primarie Usa Pete Buttigieg: «Mettiamoci al lavoro con le speranze nel cuore e il fuoco nello stomaco», ndr).
Quanto conta il mercato?
«Conta e deve contare, ma quando il mercato conta troppo finisce per diventare pericoloso. Per questo finora ho lavorato solo per enti pubblici: mi piace la libertà e questa libertà possono darmela solo istituzioni pubbliche come i musei o la Biennale; mi piace lavorare per il pubblico, è lui il mio padrone».
Sono sempre tanti i giovani alla Biennale. Perché?
«I giovani sono un pubblico perfetto: vivono il proprio tempo e possono capire il presente e il futuro dell’arte senza essere artisti».
E dell’arte antica cosa pensa?
«La sua è proprio una domanda da italiano. L’arte classica è necessaria per la formazione e per questo deve essere studiata. Però a me oggi interessa per quello che può ancora trasmetterci “tecnicamente”, proprio come mi interessano la realtà virtuale e la performance».
Come spiega l’unicità della Biennale di Venezia?
«La Biennale di Venezia è la più importante perché è la più grande, l’unica ad essere davvero internazionale. E sono molto eccitato dall’idea che tra i Giardini e l’Arsenale si potrà ritrovare tutto il mondo e si potranno stabilire connessioni. Sarà come se ogni giorno fosse Natale, un Natale pieno di sorprese. Rispetto alle Biennali precedenti ci saranno però meno opere: queste esposizioni sono troppo affollate anche per me, che dopo venti o trenta opere non riesco più a seguire. Per questa ragione ci saranno anche spazi dove riposarsi, staccare, magari fare persino un sonnellino. E poi ricominciare».
Si parla molto di ascesa dell’arte africana...
«È un fatto reale, ma per artisti come Michael Armitage l’Africa è uno spunto per parlare anche di altro. Armitage è andato in giro con un reporter per seguire le elezioni in Kenia e da quello ha preso ispirazione per una serie di dipinti che a Venezia faranno scoprire come quelle elezioni non siano così diverse dalle elezioni che negli Stati Uniti hanno portato alla vittoria di Trump, un vero circo con nani, clown, ballerine. Perché i dipinti di Armitage si ispirano certo a Goya, ma non parlano solo di arte. Proprio come vorrei facesse questa Biennale».