Corriere della Sera - La Lettura
Nel nome di Ronconi Il maestro, gli allievi
La lezione ininterrotta di Ronconi: imparare è il carburante della vita
Qu a ndo L u ca Ronconi , a metà degli anni Novanta, appena raggiunti e superati i sessant’anni, inizia a raccontare a Maria Grazia Gregori i fatti più notevoli della sua carriera artistica, è già il mostro sacro che tutti sappiamo, ma ha ancora davanti un bel pezzo di strada: più o meno vent’anni di una splendida vecchiaia fatta di esperimenti, scoperte, collaborazioni sempre intense e avventurose, che si tratti di persone mai conosciute prima o di vecchi e fidatissimi amici.
Quando il progetto di un libro autobiografico venne interrotto, il lavoro era già abbastanza avanzato. Nonostante l’incompiutezza, si trattava di un documento troppo prezioso perché Roberta Carlotto, erede dell’archivio del maestro, non si decidesse a renderlo pubblico.
Scelta che non va lodata solo perché queste pagine contengono una quantità inestimabile di informazioni su Ronconi e più in generale sul teatro italiano del secondo Novecento. Ancora più importante, mi sembra, è la qualità letteraria di queste Prove di autobiografia: Maria Grazia Gregori era riuscita, trascrivendo i materiali delle conversazioni, nel compito più difficile in questo genere di lavori, che è quello di dare una forma scritta a una voce senza mai rinunciare ai pregi particolari dell’oralità e all’efficacia narrativa di un tono confidenziale che risulta straordinariamente efficace e coinvolgente.
Se lo stile è l’uomo, potremmo dire che la voce è la sua anima, la manifestazione sensibile della sua psiche. E chi
l’America mi ha fatto pensare per la prima volta che oltre all’attore avrei potuto fare il regista. Ammiro molto anche Emma Dante, Massimiliano Civica, Arturo Cirillo». Lo spettacolo del cuore? « Five Easy Pieces di Milo Rau, visto a Roma, e What if They Went to Moscow? di Christiane Jatahy, per il quale andai fino a Udine: più che uno spettacolo un’esperienza teatrale. A cui, dopo, ho ripensato per giorni...».
Filippo Renda, 30 anni il 15 maggio, ha deciso quando ne aveva 21 «di fare un mestiere dato per morto. Intendo la regia come uno strumento per mettere alla prova un testo, per capirne dinamiche e potenzialità, su cui poi intervenire mediante il lavoro con gli attori: solo grazie a loro il regista può capire se i fili che intende tirare dal testo, dal suo significato anche “politico”, possono avere un’aderenza con le parole che verranno dette sul palco. Il principio di realtà e logica è per me imprescindibile». Fondatore e direttore della compagnia Idiot Savant, con cui ha firmato, tra gli altri, Il mercante di Venezia e il recente Circeo. Il massacro, Renda osserva: «Oggi le scelte di regia sono, a mio parere, sempre meno orientate a un “teatro della virilità”, teso a dimostrare le proprie capacità, a vantaggio di una “linea chiara del teatro”, in cui prevale la volontà di raccontare una storia mediante scelte che vanno l’una in conseguenza dell’altra». Un esempio? « Il ragazzo dell’ultimo banco, di Jacopo Gassmann, che si è messo al servizio del pensiero e dei contenuti della drammaturgia di Juan Mayorga. Penso anche al lavoro di Massimiliano Civica o Silvio Peroni, che raccontano la realtà attraverso i vuoti contenuti nelle biografie dei personaggi e non attraverso le loro prove di forza». Renda ha studiato da attore alla scuola del Piccolo: «Ronconi capì che ero interessato anche alla regia e mi chiamò come assistente in due sue produzioni. Devo a lui la capacità di scavare nel testo, di organizzare la sala prove: il lavoro delle maestranze è importante tanto quello degli attori. Un insegnamento appreso anche dalla famiglia dell’Elfo, capitanata da Elio De Capitani e Ferdinando Bruni. In De Capitani il riferimento diventa anche politico». Da spettatore vota come «indimenticabile» l’Orestea di Romeo Castellucci («Mi fece capire che il teatro può dare emozioni primitive, non traslate dalla razionalità: non lo credevo possibile») e due spettacoli del Teatro delle Albe, Ubu Buur e Stranieri: «Hanno segnato il mio percorso di artista. In essi ho intravisto la precisa volontà di Marco Martinelli e Ermanna Montanari di rendere il teatro un luogo di riflessione sulla polis».
Nel lavoro di Fabio Condemi, spiega il regista classe 1988, confluisce innanzitutto «la mia prima grande passione, la letteratura, parallelamente a musica e arte visiva. Finora il confronto è stato con le scritture di Pier Paolo Pasolini ( Bestie da stile) e Robert Walser (Jakob von Gunten): attraverso e dentro di esse si è formata la mia idea di teatro. Alla regia sono arrivato dopo un breve percorso da attore, e se osservo — da un lato — che il teatro troppo spesso punta come richiamo su nomi televisivi, mi sembra — dall’altro — che stia attraversando un momento di grazia». Riflette: «Credo che una parte del merito vada alla Biennale Teatro di Antonio Latella, che con coraggio ha sollecitato una riflessione su temi precisi — cos’è oggi un regista, un performer, un testo? —, portando in scena degli esempi e mostrando il mondo degli under 30».
Tra gli incontri importanti, umani e professionali, Condemi ricorda prima di tutto quello con Giorgio Barberio Corsetti. «Sono stato suo assistente dopo la “Silvio d’Amico”: mi ha insegnato moltissimo; e moltissimo devo a Castellucci e alla Societas, di cui ricordo su tutti The Four
Season Restaurant, spettacolo di grandiosa e disturbante bellezza».
Uscita dalla scuola di recitazione dello Stabile di Genova nel 2009, Elena Gigliotti, classe 1987, si distingue come regista per la scelta di testi mai scontati, dallo studio su Ferdinando, Menzione Speciale al Premio Giovani Realtà del Teatro a
Sangue matto di Erpulat e Hillje, al recentissimo Città inferno. «Parlando di regia la prima parola che mi viene in mente è: vocazione. E responsabilità: verso gli attori, verso lo spettacolo, verso l’arte intesa come ricerca a cui non mettere mai un punto». Non sa, dice, se la sua è una scelta definitiva: «Non c’è giorno in cui non mi chieda se è davvero quello che voglio: più procedo lungo questa strada, più la scelta diventa dolorosa per tutte le responsabilità che comporta. E tuttavia, anche il dolore diventa un fatto necessario, perché sentirsi liberi di esprimersi è una conquista faticosa. Si deve essere disposti a lottare continuamente per farsi
«Il teatro è un bar, una biblioteca, una piazza». «Il teatro è un luogo politico di riflessione». «Il teatro è vocazione. E responsabilità». «Il teatro è libertà»
ascoltare, per superare la paura, per andare oltre. Mi commuove invece pensare all’atto di creazione di ogni singolo individuo all’interno di una regia. Alla felicità che invade il palcoscenico quando il regista va nella giusta direzione e tutti sono a proprio agio in ciò che si fa, come se fosse stato semplice: eppure non lo è mai stato. Sono per una regia che ricominci dalle persone, che le chiami in maniera attiva e non a subire. Per quello, basta la televisione».
A ispirarle l’idea di fare la regista è stata Emma Dante, «i suoi spettacoli intrisi di libertà, l’uso dei dialetti, della poesia. Era il contrario di quello che ci insegnavano a scuola, con lei ho imparato che il teatro è immaginazione. Ricordo il suo
Carnezzeria, sconvolgente. Da Valerio Binasco ho appreso invece come mettere ordine nel caos creativo che mi ribolle dentro». Spettacoli del cuore? « Teatro
Delusio di Familie Flöz, un teatro di figura potente, poetico, struggente».
Si è formato alla «Silvio d’Amico» il regista Mario Scandale (1985), fondatore di Ginkgo Teatro («Una pianta millenaria dotata di forza, capacità di sopravvivenza e armonia»), gruppo che ieri — sabato 27 — ha fatto il suo debutto ufficiale al Quarticciolo di Roma con A.A.Agata cer
ca lavoro della drammaturga polacca Dana Łukasinska. L’idea di regia di Scandale viaggia su un doppio binario: «Per i progetti con Ginkgo parto da temi che interessano il gruppo; se sono solo, a interessarmi è il testo. In questo caso la scelta dell’attore è vincolante: è capitato che un progetto si arenasse perché l’interprete a cui pensavo era indisponibile».
La proposta del teatro italiano, secondo Scandale, «è oggi molto ampia e di altissimo livello», come dimostrano le prove dei colleghi incrociati sul suo cammino, «Arturo Cirillo prima di tutti, di cui sono stato assistente, e a cui ho chiesto di essere protagonista di Notturno di donna
con ospiti, di Annibale Ruccello, un autore che mi ha aperto un mondo. In Arturo riconosco un rigore etico che mi ispira, una generosità senza confini. Sono stato anche assistente di Jacopo Gassmann — abbiamo lavorato insieme in Disgraced — e di Veronica Cruciani. Due esperienze emozionanti». Quali sono gli spettacoli che porta nel cuore? «L’ultimo che mi ha infiammato è Peter Pan di Bob Wilson. Poi 32, rue Vandenbranden dei Peeping Tom, visto alla Biennale nel 2013».
Ha fatto la scuola del Piccolo con Ronconi, con cui ha debuttato ne I beati anni
del castigo: attrice di cinema e teatro, Federica Rosellini (1989), alla cui sensibilità artistica Antonio Latella affiderà il ruolo di protagonista in Hamlet (marzo 2020), è oggi impegnata in una nuova prova come regista dopo la felice esperienza di
King Kong Girl del 2017. «La regia — spiega — parte dal mio essere interprete, ne è una sorta di “prolungamento”, non a caso nello spettacolo che porto quest’anno alla Biennale College Teatro - Registi Under 30 sono in scena anche come protagonista». Nel teatro italiano, sostiene, «è in corso un mutamento nella percezione dell’interprete. Ne vedo una prova negli Ubu assegnati quest’anno a Marco D’Agostin, coreografo e danzatore, come Miglior Performer Under 30, e a Chiara Bersani, premiata come Nuova performer (under 35): il loro lavoro mette a fuoco un teatro di commistione, di corpi non convenzionali, una ricerca orientata alla sottrazione».
Guarda con ammirazione al lavoro delle donne registe, «Angélica Liddell su tutte, un’artista completa: regista, autrice, interprete, capace di svelare la violenza insita nel femminile, come in Tandy e
Genesis 6, 6-7». Le artiste che la ispirano «appartengono più al mondo della danza che della parola — da Pina Bausch ad Anne Teresa De Keersmaeker — anche se i miei più recenti spettacoli del cuore sono firmati da due uomini: Mount Olympus di Jan Fabre e The Great Tamer di Dimitris Papaioannou. Il più bello di sempre rimane però Café Müller della Bausch, un pezzo di storia dell’arte del Novecento».