Corriere della Sera - La Lettura
È il mercato, che bellezza!
Nonostante il diffondersi della grande distribuzione, piazze e strade continuano a riempirsi di bancarelle, ad animarsi di odori, suoni e colori. I mercati locali resistono perché sono luoghi d’incontro e scambio dove l’economia è incastonata nel sociale (e non viceversa), quindi hanno una grande capacità d’integrazione. Oggi attraggono soprattutto i migranti che trovano in questo modo vie d’accesso a un Paese dove si è ormai affermata la retorica del «respingimento»
Nonno Matteo — sentii raramente usare il nome in italiano, in famiglia si parlava solo dialetto e lui era Maté o Materin per via della costituzione minuta — era nato nel 1908, coetaneo di Claude Lévi-Strauss. A differenza dell’autore di Tristi tropici, non fu un gran viaggiatore: raccontava a noi nipoti che aveva visto il mare due volte, una volta in viaggio di nozze e la seconda al matrimonio di un suo parente, dalle parti di Alassio. Era un contadino cuneese, col baffetto squadrato sotto il naso: la gente pensava fosse un nostalgico del Führer, in realtà copriva un piccolo tumore sopra il labbro, e di «politica» non si era mai interessato. Era perennemente sospettoso verso le istituzioni, forse perché, quando era molto giovane, la crisi del 1929 impedì al padre di reggere il mutuo per l’acquisto di una piccola cascina e trascinò la famiglia nella povertà estrema. Il mare fu un’epifania perché, almeno così diceva, non aveva mai creduto alla storia dell’acqua salata che gli raccontarono a scuola (aveva fatto la seconda elementare). Finché ne ebbe la possibilità, continuò a mettere il giogo ai buoi per il carro e per l’aratro e me lo ricordo, quasi novantenne, segare a mano grossi tronchi di legno. È, peraltro, l’unica persona di cui abbia notizia a essere nato e morto il 29 febbraio (1908-2000). Non fu un gran viaggiatore il nonno Matteo, ma un viaggio (e a volte più di uno) lo faceva in bicicletta ogni settimana: verso il mercato.
Nell’area della provincia di Cuneo in cui sono cresciuto, i mercati scandivano la settimana con la loro periodicità. Martedì il grande mercato di Cuneo, mercoledì Fossano, giovedì Carrù, venerdì Benevagienna, sabato Mondovì. L’appuntamento fisso era (ed è tuttora per molte persone), per questioni di prossimità,
quello di Fossano, a metà settimana, ma si poteva optare per gli altri giorni e mercati a seconda del tempo o di oscure tattiche volte a trovare questo o quel prodotto al prezzo migliore o, ancora, per via di qualche conoscente che si doveva incontrare per parlare di questioni fondamentali (così almeno mi veniva detto).
I nonni, tutti contadini, fino ai tardi anni Settanta vendevano uova, galline e conigli, l’uva a settembre, prima che i prodotti dell’agricoltura industriale rendessero sconveniente e anacronistico il loro piccolo commercio. Al mercato però hanno continuato ad andare. A casa mia il mercoledì a pranzo si mangiava sempre qualcosa di particolare: stoccafisso, gianchetti sotto aceto, improbabili surrogati di cioccolato comprati a prezzi imbattibili, grandi ed esotiche olive pugliesi.
I mercati giornalieri di molte grandi città e quelli periodici dei piccoli centri rurali (r)esistono, in Italia e altrove. La grande distribuzione e il Mercato (entità quanto mai astratta, ma terribilmente efficace) hanno profondamente segnato la storia dei mercati-incontro (come li chiama Serge Latouche), non però fino al punto di farli sparire. Viene allora da chiedersi perché, a fronte del sorgere ovunque di centri commerciali e dell’accanimento con cui la grande distribuzione si contende gli spazi di vendita, piccoli e grandi mercati continuino ad animarsi al mattino presto, con voci e urla (molti Comuni oggi hanno regolamenti per proibirl e) , odori, col ori e di s ordine, scomparendo prima della sera.
Il mercato è forse l’immagine più nitida della «fabbrica sociale». Mi hanno sempre colpito quelli che sorgono nelle strade e nelle piazze senza strutture apposite, con il loro farsi e disfarsi: se capiti nell’ora e nel giorno giusto, è tutto un fluire di voci, profumi, confusione. Qualche ora dopo è tutto scomparso, come in un sogno. I mercati ricordano l’immagine del cantiere che George Balandier suggeriva come metafora della società umana e del suo creativo disordine.
In molti contesti tradizionali, il mercato è legato strettamente al tempo, ai ritmi del corpo (umano, politico e sociale). L’opposizione tra tradizione e modernità va sempre usata con cautela: è un utile strumento di conoscenza, ma induce profondi inganni. Se è vero che oggi i mercati sono pervasi di Mercato, dal momento che gran parte dei prodotti sono gli stessi della grande distribuzione globale, è anche vero che si tratta di una dinamica antica. Come osserva Latouche, «le perle di vetro blu dell’antichità, dette babilonesi, si ritrovano nelle tombe preistoriche delle valli del Niger» e chissà in quante piazze di mercato vennero scambiate. Il nonno Matteo rientrava immancabilmente dal mercato con groviera e fontina, due prodotti «inventati» nel corso dell’Ottocento nel cantone di Friburgo e in Valle d’Aosta per contendersi i mercati globali (nell’accezione di allora). Il confronto con altre epoche e con contesti «tradizionali» tuttavia, è prezioso per capire qualcosa in più del mercato e della sua resilienza. Il volume di Marco Aime La casa di nessuno (Bollati Boringhieri) è un’ottima sintesi al proposito. In molte parti dell’Africa occidentale frequentata dall’antropologo torinese, i mercati non solo scandivano la settimana ma, in certo senso, erano (e sono) la settimana. I mercati davano il nome ai giorni e con la loro periodicità (un ciclo di quattro giorni tra i Taneka del Benin, di cinque giorni tra i Dogon del Mali, di sei giorni tra i Diola del Senegal, per limitarci ad alcuni esempi) davano forma al tempo e allo spazio.
In un famoso saggio, il geografo Walter Christaller cercò di spiegare la periodicità dei mercati e la loro diffusione su un territorio mettendo in relazione la soglia (il raggio di mercato più piccolo che contiene un bacino di consumatori che consente di coprire i costi di vendita) e la portata (la distanza massima oltre la quale i prezzi divengono troppo elevati). Si tratta di un modello matematico interessante che, tuttavia, non rende conto delle profonde dimensioni sociali del mercato.
«Il mercato non è la casa di nessuno», recita il proverbio mawri che dà il titolo al lavoro di Aime, e quindi è di tutti, un bene condiviso. È un’arena pubblica, una agorà (il termine greco indicava non a ca
Nell’area della provincia di Cuneo in cui sono cresciuto, i mercati rurali scandivano la settimana con la loro periodicità Le famose perle babilonesi di vetro blu si ritrovano nelle tombe preistoriche del Niger: chissà in quante piazze vennero scambiate
so anche il mercato, al pari del forum romano) in cui non era possibile entrare con le armi. Nei mercati africani si faceva ben più che commerciare: ci si innamorava e ci si sposava, per esempio. Presso i Mossi, i giovani circoncisi facevano il loro ingresso in società nel nuovo status di adulti proprio attraverso il mercato. Ed era ancora al mercato che si davano gli annunci funebri e si svolgevano alcune delle più importanti cerimonie del lutto.
Il mercato mescola con dosi imprevedibili il formale e l’informale e spesso l’illegale, il serio e il faceto (luogo ideale per la risata e lo scherzo). L’economia si rivela qui embedded (come diceva Karl Polanyi) ovvero «incastonata» nel sociale, e non viceversa. La razionalità calcolatrice, al mercato, è ben più complessa della legge di domanda e offerta: al valore delle merci si sovrappongono i valori della parola, che crea legami, conflitti e divisioni sulla piazza del mercato. «Il flusso delle parole e il flusso dei valori non costituiscono due cose: sono due aspetti della medesima realtà», scriveva Clifford Geertz, a proposito dei mercati in Marocco.
Il venditore cingalese di Ballarò grida il prezzo dei suoi piccoli mazzi di rapanelli. Un euro per un mazzo! A fine giornata saranno 15, 20 euro, con un ricavo minimo. Forse irrilevante per il turista sceso a Palermo dalla lussuosa nave da crociera, ma, per fortuna, il valore del mercato non si misura solo con il Pil che produce. «I mercati», scrive Aime, «grazie al loro principio di neutralità e al loro essere portatori di interessi commerciali comuni, possiedono una notevole capacità di integrazione». Il mercato di Porta Palazzo a Torino, a cui hanno dedicato interessanti studi etnografici Giovanni Semi e Rachel Black, attraeva nel dopoguerra i migranti del Sud Italia venuti a lavorare alla Fiat e attrae oggi migranti di ogni parte del mondo che sfruttano tatticamente l’agorà, cercando faticose, intricate e spesso conflittuali vie d’accesso a una socialità e a un Paese che adotta, ormai esplicitamente, politiche e poetiche di «respingimento». Banchetti di pane autoprodotto, foglie di tè e coriandolo, l’harira per il Ramadan, lubrificano e creano legami sociali oltre a essere pratiche economiche, marginali quanto si vuole (che saranno mai 15 mazzi di rapanelli a un euro l’uno?), ma essenziali per la sopravvivenza di molti. Come le tontines (forma di microcredito) praticate dalle donne africane sui mercati tradizionali.
Poteva la ricchezza sociale dei mercati di strada sfuggire alle mire voraci di quello che alcuni definiscono la nuova forma del «capitalismo cognitivo»? Se il colonialismo cercò, in Africa e altrove, di disciplinare i mercati, imponendo regole di commercio precise, spostandole agorà presso aree militarizzate, ostile a quel mix confuso e creativo di formale e informale, oggi l’attacco principale viene dalle politiche di patrimoni a lizza zio ne.
Come ha scritto Semi in un prezioso volume, la gentrification — ovvero la trasformazione delle città e soprattutto dei loro centri storici da «popolari» a esclusivi quartieri di lusso per ricchi — rischia di trasformare molti mercati in musei all’aperto, fori sterilizzati per turisti e gente per bene. Belli e disciplinati. Come il grand marché sull’isola di Rèunion, un suq ordinato, in cui ammassi di souvenir per turisti spacciati per «autentici» (sono quasi tutti prodotti da poverissima manodopera del Madagascar), imitano goffamente lo spirito anarchico e informale di un mercato africano. Basta, tuttavia, spostarsi di un paio di chilometri, per ritrovare, nel mercato delle spezie, il flusso della parola, gli odori e i colori di un «vero» mercato. Mondi locali e villaggi globali continuano a incontrarsi in un’istituzione tenace come il mercato.