Corriere della Sera - La Lettura

È il mercato, che bellezza!

- di ADRIANO FAVOLE

Nonostante il diffonders­i della grande distribuzi­one, piazze e strade continuano a riempirsi di bancarelle, ad animarsi di odori, suoni e colori. I mercati locali resistono perché sono luoghi d’incontro e scambio dove l’economia è incastonat­a nel sociale (e non viceversa), quindi hanno una grande capacità d’integrazio­ne. Oggi attraggono soprattutt­o i migranti che trovano in questo modo vie d’accesso a un Paese dove si è ormai affermata la retorica del «respingime­nto»

Nonno Matteo — sentii raramente usare il nome in italiano, in famiglia si parlava solo dialetto e lui era Maté o Materin per via della costituzio­ne minuta — era nato nel 1908, coetaneo di Claude Lévi-Strauss. A differenza dell’autore di Tristi tropici, non fu un gran viaggiator­e: raccontava a noi nipoti che aveva visto il mare due volte, una volta in viaggio di nozze e la seconda al matrimonio di un suo parente, dalle parti di Alassio. Era un contadino cuneese, col baffetto squadrato sotto il naso: la gente pensava fosse un nostalgico del Führer, in realtà copriva un piccolo tumore sopra il labbro, e di «politica» non si era mai interessat­o. Era perennemen­te sospettoso verso le istituzion­i, forse perché, quando era molto giovane, la crisi del 1929 impedì al padre di reggere il mutuo per l’acquisto di una piccola cascina e trascinò la famiglia nella povertà estrema. Il mare fu un’epifania perché, almeno così diceva, non aveva mai creduto alla storia dell’acqua salata che gli raccontaro­no a scuola (aveva fatto la seconda elementare). Finché ne ebbe la possibilit­à, continuò a mettere il giogo ai buoi per il carro e per l’aratro e me lo ricordo, quasi novantenne, segare a mano grossi tronchi di legno. È, peraltro, l’unica persona di cui abbia notizia a essere nato e morto il 29 febbraio (1908-2000). Non fu un gran viaggiator­e il nonno Matteo, ma un viaggio (e a volte più di uno) lo faceva in bicicletta ogni settimana: verso il mercato.

Nell’area della provincia di Cuneo in cui sono cresciuto, i mercati scandivano la settimana con la loro periodicit­à. Martedì il grande mercato di Cuneo, mercoledì Fossano, giovedì Carrù, venerdì Benevagien­na, sabato Mondovì. L’appuntamen­to fisso era (ed è tuttora per molte persone), per questioni di prossimità,

quello di Fossano, a metà settimana, ma si poteva optare per gli altri giorni e mercati a seconda del tempo o di oscure tattiche volte a trovare questo o quel prodotto al prezzo migliore o, ancora, per via di qualche conoscente che si doveva incontrare per parlare di questioni fondamenta­li (così almeno mi veniva detto).

I nonni, tutti contadini, fino ai tardi anni Settanta vendevano uova, galline e conigli, l’uva a settembre, prima che i prodotti dell’agricoltur­a industrial­e rendessero sconvenien­te e anacronist­ico il loro piccolo commercio. Al mercato però hanno continuato ad andare. A casa mia il mercoledì a pranzo si mangiava sempre qualcosa di particolar­e: stoccafiss­o, gianchetti sotto aceto, improbabil­i surrogati di cioccolato comprati a prezzi imbattibil­i, grandi ed esotiche olive pugliesi.

I mercati giornalier­i di molte grandi città e quelli periodici dei piccoli centri rurali (r)esistono, in Italia e altrove. La grande distribuzi­one e il Mercato (entità quanto mai astratta, ma terribilme­nte efficace) hanno profondame­nte segnato la storia dei mercati-incontro (come li chiama Serge Latouche), non però fino al punto di farli sparire. Viene allora da chiedersi perché, a fronte del sorgere ovunque di centri commercial­i e dell’accaniment­o con cui la grande distribuzi­one si contende gli spazi di vendita, piccoli e grandi mercati continuino ad animarsi al mattino presto, con voci e urla (molti Comuni oggi hanno regolament­i per proibirl e) , odori, col ori e di s ordine, scomparend­o prima della sera.

Il mercato è forse l’immagine più nitida della «fabbrica sociale». Mi hanno sempre colpito quelli che sorgono nelle strade e nelle piazze senza strutture apposite, con il loro farsi e disfarsi: se capiti nell’ora e nel giorno giusto, è tutto un fluire di voci, profumi, confusione. Qualche ora dopo è tutto scomparso, come in un sogno. I mercati ricordano l’immagine del cantiere che George Balandier suggeriva come metafora della società umana e del suo creativo disordine.

In molti contesti tradiziona­li, il mercato è legato strettamen­te al tempo, ai ritmi del corpo (umano, politico e sociale). L’opposizion­e tra tradizione e modernità va sempre usata con cautela: è un utile strumento di conoscenza, ma induce profondi inganni. Se è vero che oggi i mercati sono pervasi di Mercato, dal momento che gran parte dei prodotti sono gli stessi della grande distribuzi­one globale, è anche vero che si tratta di una dinamica antica. Come osserva Latouche, «le perle di vetro blu dell’antichità, dette babilonesi, si ritrovano nelle tombe preistoric­he delle valli del Niger» e chissà in quante piazze di mercato vennero scambiate. Il nonno Matteo rientrava immancabil­mente dal mercato con groviera e fontina, due prodotti «inventati» nel corso dell’Ottocento nel cantone di Friburgo e in Valle d’Aosta per contenders­i i mercati globali (nell’accezione di allora). Il confronto con altre epoche e con contesti «tradiziona­li» tuttavia, è prezioso per capire qualcosa in più del mercato e della sua resilienza. Il volume di Marco Aime La casa di nessuno (Bollati Boringhier­i) è un’ottima sintesi al proposito. In molte parti dell’Africa occidental­e frequentat­a dall’antropolog­o torinese, i mercati non solo scandivano la settimana ma, in certo senso, erano (e sono) la settimana. I mercati davano il nome ai giorni e con la loro periodicit­à (un ciclo di quattro giorni tra i Taneka del Benin, di cinque giorni tra i Dogon del Mali, di sei giorni tra i Diola del Senegal, per limitarci ad alcuni esempi) davano forma al tempo e allo spazio.

In un famoso saggio, il geografo Walter Christalle­r cercò di spiegare la periodicit­à dei mercati e la loro diffusione su un territorio mettendo in relazione la soglia (il raggio di mercato più piccolo che contiene un bacino di consumator­i che consente di coprire i costi di vendita) e la portata (la distanza massima oltre la quale i prezzi divengono troppo elevati). Si tratta di un modello matematico interessan­te che, tuttavia, non rende conto delle profonde dimensioni sociali del mercato.

«Il mercato non è la casa di nessuno», recita il proverbio mawri che dà il titolo al lavoro di Aime, e quindi è di tutti, un bene condiviso. È un’arena pubblica, una agorà (il termine greco indicava non a ca

Nell’area della provincia di Cuneo in cui sono cresciuto, i mercati rurali scandivano la settimana con la loro periodicit­à Le famose perle babilonesi di vetro blu si ritrovano nelle tombe preistoric­he del Niger: chissà in quante piazze vennero scambiate

so anche il mercato, al pari del forum romano) in cui non era possibile entrare con le armi. Nei mercati africani si faceva ben più che commerciar­e: ci si innamorava e ci si sposava, per esempio. Presso i Mossi, i giovani circoncisi facevano il loro ingresso in società nel nuovo status di adulti proprio attraverso il mercato. Ed era ancora al mercato che si davano gli annunci funebri e si svolgevano alcune delle più importanti cerimonie del lutto.

Il mercato mescola con dosi imprevedib­ili il formale e l’informale e spesso l’illegale, il serio e il faceto (luogo ideale per la risata e lo scherzo). L’economia si rivela qui embedded (come diceva Karl Polanyi) ovvero «incastonat­a» nel sociale, e non viceversa. La razionalit­à calcolatri­ce, al mercato, è ben più complessa della legge di domanda e offerta: al valore delle merci si sovrappong­ono i valori della parola, che crea legami, conflitti e divisioni sulla piazza del mercato. «Il flusso delle parole e il flusso dei valori non costituisc­ono due cose: sono due aspetti della medesima realtà», scriveva Clifford Geertz, a proposito dei mercati in Marocco.

Il venditore cingalese di Ballarò grida il prezzo dei suoi piccoli mazzi di rapanelli. Un euro per un mazzo! A fine giornata saranno 15, 20 euro, con un ricavo minimo. Forse irrilevant­e per il turista sceso a Palermo dalla lussuosa nave da crociera, ma, per fortuna, il valore del mercato non si misura solo con il Pil che produce. «I mercati», scrive Aime, «grazie al loro principio di neutralità e al loro essere portatori di interessi commercial­i comuni, possiedono una notevole capacità di integrazio­ne». Il mercato di Porta Palazzo a Torino, a cui hanno dedicato interessan­ti studi etnografic­i Giovanni Semi e Rachel Black, attraeva nel dopoguerra i migranti del Sud Italia venuti a lavorare alla Fiat e attrae oggi migranti di ogni parte del mondo che sfruttano tatticamen­te l’agorà, cercando faticose, intricate e spesso conflittua­li vie d’accesso a una socialità e a un Paese che adotta, ormai esplicitam­ente, politiche e poetiche di «respingime­nto». Banchetti di pane autoprodot­to, foglie di tè e coriandolo, l’harira per il Ramadan, lubrifican­o e creano legami sociali oltre a essere pratiche economiche, marginali quanto si vuole (che saranno mai 15 mazzi di rapanelli a un euro l’uno?), ma essenziali per la sopravvive­nza di molti. Come le tontines (forma di microcredi­to) praticate dalle donne africane sui mercati tradiziona­li.

Poteva la ricchezza sociale dei mercati di strada sfuggire alle mire voraci di quello che alcuni definiscon­o la nuova forma del «capitalism­o cognitivo»? Se il colonialis­mo cercò, in Africa e altrove, di disciplina­re i mercati, imponendo regole di commercio precise, spostandol­e agorà presso aree militarizz­ate, ostile a quel mix confuso e creativo di formale e informale, oggi l’attacco principale viene dalle politiche di patrimoni a lizza zio ne.

Come ha scritto Semi in un prezioso volume, la gentrifica­tion — ovvero la trasformaz­ione delle città e soprattutt­o dei loro centri storici da «popolari» a esclusivi quartieri di lusso per ricchi — rischia di trasformar­e molti mercati in musei all’aperto, fori sterilizza­ti per turisti e gente per bene. Belli e disciplina­ti. Come il grand marché sull’isola di Rèunion, un suq ordinato, in cui ammassi di souvenir per turisti spacciati per «autentici» (sono quasi tutti prodotti da poverissim­a manodopera del Madagascar), imitano goffamente lo spirito anarchico e informale di un mercato africano. Basta, tuttavia, spostarsi di un paio di chilometri, per ritrovare, nel mercato delle spezie, il flusso della parola, gli odori e i colori di un «vero» mercato. Mondi locali e villaggi globali continuano a incontrars­i in un’istituzion­e tenace come il mercato.

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