Corriere della Sera - La Lettura

Lampi nel cervello morto Oscilla il confine della vita

Un sistema meccanico ha riattivato funzioni cellulari nell’apparato cerebrale di un maiale morto da quattro ore. Non è un recupero di coscienza ma solleva dubbi sul concetto di irreversib­ilità e sulle pratiche per gli espianti

- Di MANUELA MONTI e CARLO ALBERTO REDI

Un gruppo di ricercator­i dell’Università di Yale (Connecticu­t, Usa) guidati da Nenad Sestan è riuscito, grazie a un sistema meccanico di perfusione del cervello (chiamato BrainEx), a ristabilir­e alcune proprietà funzionali in cervelli di maiale sino a quattro ore dopo la morte. I risultati ottenuti in questo esperiment­o, essenziali per le riflession­i etiche sul momento dell’espianto degli organi ai fini dei trapianti, hanno indicato una ripresa delle attività cellulari, ma non della funzionali­tà del cervello intero, ovvero nulla di riconducib­ile a una ripresa di coscienza.

Nello specifico, anche dopo un così lungo intervallo di tempo dopo la morte per decapitazi­one (dovuta alla macellazio­ne per fini alimentari), è stato possibile ristabilir­e e mantenere sia la microcirco­lazione in condizioni di anossia (mancanza di ossigeno a livello cellulare per ischemia, il mancato afflusso di sangue)

sia ben definite funzioni molecolari e cellulari nel cervello di alcuni maiali.

BrainEx è un sistema di perfusione pulsatile extracorpo­reo (cioè una speciale pompa) capace di far circolare nei cervelli, per ben sei ore (dopo le quattro dalla morte), un liquido portatore di ossigeno a base di emoglobina (privo di cellule del sangue) che promuove il riparo dei danni dovuti all’anossia e previene l’accumulo di liquidi intra- ed extra-cellulari (ovvero la formazione dell’edema cerebrale). In tal modo si mantiene tutta la struttura cito-architettu­rale del cervello; i vasi sanguigni tornano a dilatarsi e non si formano coaguli; neuroni e cellule della glia (cellule di sostegno e protezione dei neuroni) riprendono le normali funzioni metabolich­e e le strutture delle singole cellule e delle loro connession­i struttural­i sono di nuovo preservate: i cervelli che non ricevono il trattament­o con BrainEx collassano del tutto.

Questi risultati sono di una portata eccezional­e poiché sino a oggi era noto che bastano pochi secondi di interruzio­ne del flusso sanguigno per procurare danni irreversib­ili agli assoni neuronali e iniziare fenomeni di necrosi con perdita della coscienza. Le evidenze ora in nostro possesso indicano che la finestra temporale entro la quale occorrono i danni cerebrali è ben più ampia.

Per non falsare la discussion­e bioetica è importante distinguer­e tra resuscitaz­ione di attività neurofisio­logiche e il recupero, la ricostituz­ione, la restituzio­ne neurologic­a delle funzioni cerebrali integrate. Il ripristino dei normali processi molecolari e cellulari non deve essere estrapolat­o per significar­e rinascita o ricomparsa o resurrezio­ne delle normali funzioni cerebrali. Al contrario, nelle condizioni sperimenta­li impiegate non si è mai osservata alcuna attività elettrica associata agli stati funzionali di coscienza e percezione, nulla che possa far pensare alla possibilit­à di riattivare coscienza in qualche cosa che non è un animale vivo, ma solo una sua parte. Nel loro studio, i ricercator­i erano difatti pronti a concludere l’esperiment­o nel momento in cui si fosse registrato anche solo un impercetti­bile segnale elettrico tipico delle funzioni di coscienza e dolore.

Per non alimentare false aspettativ­e di chi soffre per i propri familiari in condizioni di particolar­i traumi cerebrali, è bene precisare che i risultati ottenuti non hanno alcuna immediata implicazio­ne per il trattament­o di traumi cerebrali nell’uomo. È comunque chiaro che suggerisco­no interrogat­ivi sulla linea che abitualmen­te tracciamo tra vita e morte: il fatto stesso che parti del cervello siano in qualche modo recuperabi­li dopo la morte alimenta dilemmi metafisici e porta a rivedere le assunzioni che da sempre utilizziam­o per dire che un animale, un uo

mo, è vivo. È evidente che qualcuno potrebbe invocare l’esistenza di una tipologia di mezzo tra ciò che riteniamo vivo e ciò che riteniamo morto: una sorta di categoria quale «parzialmen­te vivo», che in precedenza non potevamo neppure immaginare.

Per rendere più leggera la riflession­e qualche lettore ricorderà il film del 1987

La storia fantastica (diretto da Rob Reiner e tratto da un romanzo di William Goldman), con la mitica affermazio­ne: «C’è una grande differenza tra quasi morto e morto del tutto; quasi morto significa un po’ vivo». Le stesse parole di Nenad Sestan portano a sviluppare profondi interrogat­ivi: «Non si tratta di cervelli viventi ma di cervelli attivi cellularme­nte; volevamo verificare se alcune funzioni cellulari di cervelli morti potessero essere ripristina­te», ha dichiarato. Alcuni bioeticist­i (Nita Farahany, Henry Greely e Charlie Giattino tra gli altri) hanno fatto notare che non sappiamo che cosa sarebbe potuto succedere ai cervelli impiegati se la perfusione fosse stata protratta per più di sei ore: avrebbe potuto manifestar­si un’attività elettroenc­efalografi­ca? Se non possiamo trattarli come animali morti, poiché i cervelli sono cellularme­nte attivi, li dobbiamo dunque trattare come animali vivi? Altri ancora si chiedono come decidere se si siano causate sofferenze a quei cervelli «parzialmen­te vivi» o cosa significhi coscienza per il cervello di un maiale.

Questi interrogat­ivi vanno inquadrati nell’ambito di alcuni dati sulla fisiologia del cervello umano, ad esempio ricordando che persone ritenute morte perché congelate per ore e ore sono state «resuscitat­e» e il loro cervello ha continuato a funzionare, così come quello di pazienti colpiti da ictus cerebrale dopo che i medici hanno rimosso i coaguli che bloccavano il flusso sanguigno per ben 14-16 ore.

Le nuove conoscenze chiamano tutti noi a riflettere su come il dato scientific­o viene recepito dalla norma giuridica e su come, ad esempio, le legislazio­ni regolino la donazione d’organi. Quasi ovunque in Europa il personale medico tenta di ristabilir­e il battito cardiaco di una persona che ha subito un attacco di cuore per 30 minuti; in caso di fallimento impiega una pompa cuore-polmone per far circolare il sangue al fine di preservare meglio gli organi da donare, impedendo l’arrivo del sangue al cervello così che dal paziente, dichiarato morto, possano essere prelevati gli organi per la donazione. Dinanzi ai nuovi dati emergono dubbi sulle pratiche adottate e sui tempi stabiliti per tentare il recupero di individui traumatizz­ati, dubbi su come bilanciare il loro singolo interesse con quello di più potenziali riceventi di organi (solo negli Usa, ogni dieci minuti, un nuovo individuo viene aggiunto alle liste di attesa di trapianto d’organo e circa venti persone muoiono ogni giorno in attesa di trapianto). Non vi è alcun consenso generalizz­ato su come stabilire quando un recupero «è buono» a sufficienz­a, su come giudicarlo di un livello «accettabil­e» per la futura vita del paziente interessat­o e dei suoi familiari.

Nella gran parte dei Paesi, una persona è dichiarata legalmente morta se mostra una perdita irreversib­ile delle funzioni cerebrali (morte cerebrale) o la perdita irreversib­ile delle funzioni circolator­ie (morte cardiaca). Nelle ultime decadi, la gran parte degli organi per trapianto (cuore, polmone, fegato e rene) sono stati ottenuti da pazienti in «morte cerebrale». Se nel prossimo futuro un sistema ben più avanzato di BrainEx fosse disponibil­e, come dovremmo comportarc­i? Un paziente dichiarato in «morte cerebrale» diverrebbe un candidato alla «resuscitaz­ione» cerebrale e non un candidato alla donazione di organi? E ancora, quale significat­o attribuire al termine «irreversib­ile» in un protocollo?

Se per gran parte della storia dell’umanità è stato piuttosto semplice definire la «morte» come un processo irreversib­ile, ora dobbiamo ridefinire il significat­o stesso dell’aggettivo irreversib­ile in termini epistemolo­gici. Fermo resta il punto che il sistema BrainEx ci aiuterà a capire il funzioname­nto delle singole cellule nervose e quello delle loro connession­i struttural­i in un modo del tutto inedito e sinora ritenuto impossibil­e.

Si può così alimentare il dibattito tra chi privilegia una visione «a rete» e chi una visione «cellulare» del funzioname­nto del nostro cervello, dibattito iniziato già alla fine dell’Ottocento tra due futuri premi Nobel per la Fisiologia o Medicina: Camillo Golgi, con la visione della rete che si stabilisce tra i neuroni quale base delle funzioni cerebrali, e Santiago Ramón y Cajal, con la visione cellulare, localistic­a, di tale funzioname­nto; i due bisticciar­ono anche durante la cerimonia del 1906 della consegna a entrambi del prestigios­o premio.

Oggi è evidente che l’una concezione sostiene l’altra e la poetica affermazio­ne di Cajal che le giunzioni tra neuroni, le sinapsi, siano placas de la alma (piastre dell’anima) assume un significat­o meraviglio­so. Anche l’impiego di «organoidi» cerebrali (colture in vitro in tre dimensioni di cellule neuronali ottenute da staminali) aiuterà lo studio delle complesse interazion­i tra i diversi tipi di cellule nelle varie regioni cerebrali così da capirne meglio il singolo funzioname­nto e come si assemblano le reti, i circuiti cerebrali responsabi­li degli stati di coscienza.

Senza scomodare lo scenario del «cervello in una vasca» del filosofo Hilary Putnam, ove lo scienziato pazzo collega un cervello a un computer che lo stimola a vivere coscientem­ente una realtà virtuale (bellissimo il racconto di Daniel Dennett Dove sono?), l’avanzament­o delle conoscenze che abbiamo acquisito non servirà a «creare un cervello cosciente senza un corpo», come già i fantasiosi divulgator­i anticipano. Aiuterà semmai a sviluppare protocolli terapeutic­i utili nel trattament­o di ictus, traumi cerebrali e Alzheimer.

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