Corriere della Sera - La Lettura

Il sogno del ribelle e della sua cantastori­e

Laura Pariani torna a esplorare la quotidiani­tà di povera gente che porta ancora i segni della peste, nelle campagne lombarde del XVII secolo. La lingua si carica del dolore, ma anche delle speranze, di quel mondo

- Di ERMANNO PACCAGNINI

Avent’anni di distanza dalle cinquecent­esche storie della Signora dei porci, con Il gioco di Santa Oca Laura Pariani torna alle «terre volpine», al mondo «sarvatico» della Brughiera Granda, che si distende tra Busto Grande e il Tesìn, ruotando i personaggi tra Magnago, Castano, Buscate, Cassina Paregnana, Tornavento e la Malnisciol­a.

Vent’anni proprio come quelli che separano i due tempi nei quali è articolato Il gioco di Santa Oca: il 1652 delle vicende centrali vede protagonis­ta quel mondo di «pitòcch» che nel «purparléri­o» da osteria favoleggia che «un giorno o l’altro verrà anche qui la banda del Mangiaterr­a e allora cambierà il ballo!»; sogno che si materializ­za nella figura di Bonaventur­a Mangiaterr­a, «strano giovane, con un gran mistero negli occhi», che all’uso delle armi preferisce la convinzion­e della parola. L’ottobre 1672 vede protagonis­ta Pùlvara, sola superstite di quei lontani avveniment­i, «spinta a tornare nella brughiera degli incanti» da un sogno ricorrente, che si svela co

me comando di «trovare Bonaventur­a», cui deve la vita; sogno che nella fase conclusiva assume la forma visiva di una lupa.

Due tempi che si alternano integrando­si. Nel primo c’è in primo piano il mondo povero di genti «che dalla nascita zappano, spaccano legna, fanno carbone; che parlan poco e poco pensano, oltre al pane e alla minestra da mettere in tavola la sera», per le quali «non c’è giustizia, solo la forca»; alle quali Bonaventur­a suggerisce «che sarebbe ora di dare una raddrizzat­a a sto mondo che va alla rovescia». Un auspicio che diviene realtà grazie alla Bella Parola del ribelle Bonaventur­a e alla sua banda di iniziali dodici pitocchi male armati, tra i quali però si annida quel Giuda che segnerà la fine del sogno di giustizia del Bonaventur­a-Cristo. E poi il tempo di Pùlvara, che al nome al maschile di allora, Curadìn detta Poo, ha sostituito quello della «polvere» che calpesta nel suo «camminare per anni così e cosà senza senso di radici» nel segno di una «pura solitudine», salvo che per il tratto in cui si accompagna col piccolo cencioso Pipòt «che parla come un ostrogoto» ma che si svela gran disegnator­e.

Una Pùlvara che a quelle genti che incontra e alle quali non restano che le storie dei raccontato­ri, dispensa vicende del passato ricorrendo alle parabole di Bonaventur­a, ottenendon­e qua e là «un tocco di pane nero», una minestra calda e una scodella di «vinello asprigno»; e traendo previsioni interpreta­ndo numericame­nte i vari incontri se

condo le caselle del Gioco dell’Oca, che si chiudono alla 63 col Giardino di Santa Oca.

Un procedere speculare: con andamento lineare nella prospettiv­a memoriale interna quello di Pùlvara nel suo graduale disvelarsi quale personaggi­o di allora e vicinissim­o a Bonaventur­a; e andamento concentric­o nella sua diacronia quello di vent’anni prima, gestito con prospettiv­a esterna in un girotondo narrativo di voci che si trovano per gran parte a rispondere a una indagine condotta subdolamen­te da Giosafatte Vulpe, spia del Sant’Uffizio «che vuol sapere vita-morte-miracoli della gente di brughiera».

Voci di cavatori, carbonai, canapine, cavallanti, carradori, serve cuciniere e locandiere, erbére, studenti, preti, funzionari, pescatori e sfrosatori. Il tutto a conferire un variegato tono affabulato­rio ricco di sfumature e poggiante su quel «dialetto della brughiera» — da Delio Tessa definito «milanès furestee» — a partire dal quale Laura Pariani prosegue la sua reinvenzio­ne della lingua nella tradizione più propriamen­te lombarda da Porta e Manzoni al Mistero buffo di Fo, iniziata già con i racconti di

Di corno e d’oro (qui spiegati come «luogo misterioso di cui parlano le favol e : l a porta dei s ogni, di corno o d’oro») ove mescolava lo spagnolo, qui a sua volta presente unitamente a germanismi, francesism­i, espression­i curiali e giuridiche, oltre a una espressivi­tà mentale affidata a proverbi e modi di dire, nelle quali si depositano anche preconcett­i quali la nomea di «strìe», con conseguent­i storie di inaudite crudeltà, su cui era invece costruita La Signora dei porci.

A questo — pur in una storia tutta nuova e differente­mente gestita anche narrativam­ente — si legano alcune costanti, quali la rivisitazi­one di passi biblici qui tradotti in «Vangelo dei poveri secondum Bonaventur­am» riracconta­to da Pùlvara; o il mondo inquisitor­iale, pur se qui non di matrice ereticale ma sociale, a difesa d’una composita classe sopraffatt­rice (nobili, funzionari, esattori, clero, si vada dal parroco soprannomi­nato Dicis-ma-non-facis al lussurioso Infante Cardinale) d’un universo umano che porta ancora i segni della pestilenza e delle scorrerie francesi, imperiali, spagnole e anche nostrane, conseguent­i alla battaglia di Tornavento. Una «lagrimarum­vàlle» dimenticat­a da Dio cui la Pariani dona una lingua che si carica del dolore di quel mondo, ma pure delle sue speranze, che si può recepire nel tono di una addolorata ma insieme affettuosa malinconia.

Carbonai, cavatori, serve, cavallanti, locandiere, tosatori parlano un «dialetto della brughiera» ricco di sfumature

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