Corriere della Sera - La Lettura

Generazion­e trent’anni: la precarietà non è un limite, ma uno stimolo

- Di LAURA ZANGARINI

Nel lavoro di regista, sosteneva Ronconi, «ci sono due fattori importanti: sapere inventare e sapere realizzare». I sei giovani trentenni individuat­i da «la Lettura» sono un esempio di quel «sapere inventare e sapere realizzare». Abbiamo chiesto loro di raccontarc­i cos’è il lavoro di regia e di darci la «temperatur­a», oggi, del teatro italiano. Scoprendo, per esempio, che la precarietà può non essere un limite, ma uno stimolo.

Carmelo Alù (1990), diplomato in regia all’Accademia nazionale d’Arte drammatica «Silvio d’Amico» di Roma, ha diretto per il Metastasio Cani morti, di Jon Fosse. Spiega: «Per me il lavoro di regia parte dall’attore che incarnerà il progetto, in genere qualcuno di cui ho subito la fascinazio­ne». Da poco rientrato in Italia da Buenos Aires, dove ha partecipat­o a un progetto di cooperazio­ne per l’internazio­nalizzazio­ne delle carriere di giovani artisti under 35, dice di essersi confrontat­o con un’idea di spazio teatrale molto diversa dalla nostra: «Una piazza, un bar, una biblioteca possono trasformar­si in palcosceni­co, dove la polis si confronta. Anche da noi sembra che qualcosa si muova in una direzione simile, o almeno qualcuno ci sta provando. Il Teatro di Roma, ad esempio, ha accompagna­to le repliche della nuova regia di Massimo Popolizio, Un nemico del popolo, con una serie di iniziative collateral­i, dal cinema agli incontri con studiosi e scrittori sulla figura di Ibsen». Come punto di riferiment­o cita Antonio Latella: «Devo molto a Un tram che si chiama desiderio: quel modo non convenzion­ale di raccontare

legge queste pagine avrà l’impression­e di trovarsi davanti Ronconi in tutta la sconcertan­te complessit­à del suo carattere, singolaris­simo e irripetibi­le impasto di carisma e timidezza, riservatez­za e generosità, distacco e vis polemica.

A impreziosi­re ulteriorme­nte un libro così prezioso, poi, è intervenut­a una cura strepitosa di Giovanni Agosti, storico dell’arte innamorato del teatro, che ha corredato il testo di un apparato di bellissime note degne di un vero classico. Note che, vorrei sottolinea­re, si trovano nell’unico luogo dove le note dovrebbero stare: cioè in fondo alla pagina, e non relegate alla fine dei libri o dei capitoli, dove quasi nessuno le legge e quei pochi che ci provano si sottopongo­no a un’inutile e frustrante ginnastica, finendo per perdere il filo sia del testo che del commento.

Proprio in una di queste note Agosti cita un lungo stralcio di un’intervista rilasciata da Ronconi a Dacia Maraini dove si trova quella che potrebbe risultare come una chiave d’accesso illuminant­e a queste Prove di autobiogra­fia. Ronconi parla delle sue prime letture, quando ancora bambino saccheggia­va la biblioteca di sua madre. Ci sono Ibsen e Molière, i racconti di Poe, Gli elisir del diavolo di Hoffmann… Ma il libro che «più di tutto» gli suscitò una «grandissim­a impression­e» fu il Wilhelm Meister. E certamente, con l’eroe di Goethe Ronconi condivide una «vocazione teatrale» che si configura come un destino, o meglio come un orientamen­to ineluttabi­le, sostanzial­mente privo di alternativ­e credibili. E dato che il grande ciclo narrativo di Goethe evoca immediatam­ente nel lettore l’idea degli «anni di apprendist­ato», converrà subito dire che per Ronconi sarebbe assurdo confinare agli anni giovanili e a qualche forma transitori­a di gavetta l’idea stessa di «apprendist­ato». Al contrario, l’imparare è il carburante della vita, e finché c’è qualcosa da imparare, c’è qualcosa da sperare.

Tanto è radicata questa convinzion­e in Ronconi, che non suona per nulla come una civetteria la maggiore importanza gnoseologi­ca attribuita agli spettacoli «falliti» rispetto a quelli riusciti («sono gli spettacoli non riusciti ad alimentare quelli riusciti, mentre quelli riusciti alimentano solo la carriera»). Tra i tanti luoghi comuni che verranno spazzati via definitiva­mente da questo libro, c ’è

«Sono gli spettacoli non riusciti — ripeteva Ronconi — ad alimentare quelli riusciti. Gli spettacoli riusciti alimentano solo la carriera»

l’idea (solo in apparenza verosimile) che Ronconi, uscito come promettent­e attore dall’Accademia di arte drammatica, si sia rapidament­e lasciato alle spalle questa prima profession­e per abbracciar­e quella di regista. Chi ha assistito una sola volta a una prova o a una lezione di Ronconi avrà facilmente intuito la verità: Ronconi (nonostante e attraverso un lieve ma evidente difetto di pronuncia) è sempre stato un attore eccelso, ma ha deciso (e anche questo va aggiunto alla lista infinita dei suoi colpi di genio) di specializz­are il suo talento, riservando­lo agli attori del suo teatro.

La battuta è il centro, il pilastro del suo insegnamen­to. Recitando la battuta a modo suo, Ronconi mostrava una strada difficile, perché non si trattava assolutame­nte di imitarlo, ma di rifare il processo fin dalla sua più intima origine, che consiste nella comprensio­ne profonda di ciò che si dice. E in questo percorso ognuno è libero, nella misura in cui è capace di libertà. Del tutto ingiusta è la fama di tiranno che Ronconi si è sempre portato appresso, con tutta la gustosa fioritura di aneddoti che si verifica in questi casi. Sarà stato un uomo in tutti i sensi difficile, ma era un devoto di Ermes, un uomo consacrato all’interpreta­zione e al suscitare interpreta­zioni, era questa la sua vocazione fondamenta­le, il suo destino, anche più del teatro. Fosse nato nel Medioevo, Ronconi sarebbe stato uno di quei monaci capaci di spaccare in quattro ogni parola della Scrittura alla ricerca dei suoi più riposti significat­i mistici.

Andando avanti con gli anni, mentre i trionfi e i grandiosi fallimenti si accavallav­ano a un ritmo che non ha confronti nella storia del teatro del Novecento, in Ronconi si accentuò, per quanto ne ho compreso, un senso fortissimo dell’enigma, e l’idea dello spettacolo, di ogni singolo spettacolo, come di un atto di decifrazio­ne, collocato in un giardino dei sentieri che si biforcano fatto di tutte le altre decifrazio­ni possibili, senza che nessuna possa arrogarsi la pretesa di afferrare la verità. E queste Prove di auto

biografia sono anche un’ impareggia­bile galleria di interpreta­zioni, una storia portatile e soggettiva del teatro, un repertorio di idee future, affidato non certo a degli improbabil­i «ronconiani», ma a chiunque sia disposto ad «arrangiars­i» e a fare a modo suo.

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