Corriere della Sera - La Lettura

Ritrovando Godot Si piange e si ride, è il teatro

Tre anni dopo averlo visto al Parioli di Roma, Franco Cordelli è andato al Ghione per rivedere il capolavoro di Beckett diretto da Maurizio Scaparro. E si è entusiasma­to: una meraviglia! Non solo: 35 anni fa, proprio al Ghione, aveva visto il drammaturg­o

- Di FRANCO CORDELLI © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Questo articolo-collage lo sto scrivendo per rabbia. Rabbia contro l’idea che sia un nuovo teatro quello che è solo mera ripetizion­e. Il nuovo teatro cos’è? O sono residui (cascami) delle avanguardi­e dei Sessanta del XX secolo o (questa la maggiore novità) il teatro-documento: quasi che il cinema-documento ( Lenny di Bob Fosse) o il romanzo-documento ( La breve estate dell’anarchia di Enzensberg­er) o il tutto-documento non siano nati in anni remoti.

Come fosse un riflesso condiziona­to, sono tornato a rivedere l’edizione di Aspettando Godot in cui mi ero imbattuto tre anni fa. Lo spettacolo era, e continua a essere diretto da Maurizio Scaparro. Prima era in scena al Parioli, ora al Ghione, teatri tutti e due di Roma. Al Parioli mi era piaciuto in modo oggettivo, per così dire «da critico». Al Ghione mi sono entusiasma­to. È a questo punto che mi è venuto in mente il discorso che si diffonde sul nuovo teatro. No, un nuovo teatro non c’è. Ci sono eventualme­nte un teatro buono e un teatro meraviglio­so.

L’Aspettando Godot di Scaparro appartiene a questa seconda specie: è qui che il teatro accade, quando si piange e si ride, quando ci si commuove e ci si esalta. Di che? Per che cosa se non per il fatto di ri

conoscersi vivi? Così, un poco mi sono messo a ricostruir­e la storia di Godot in Italia, l’esperienza che personalme­nte ne avevo avuta nell’arco di più di mezzo secolo. Alan Schneider, che più tardi divenne amico di Beckett, di Aspettando Godot racconta la sua scoperta nel momento della nascita, al Théâtre de Babylone di Parigi nel 1953. In sala c’erano nove spettatori. La sera dopo qualcuno di più. «Quando l’albero, che prima era spoglio, riapparve coperto di nastri verdi al posto delle foglie, la semplicità di questa rappresent­azione della rinascita mi colpì al di là di ogni consideraz­ione razionale».

In Italia arrivò l’anno dopo, per la regia di Luciano Mondolfo (in scena c’era Vittorio Caprioli). Ma ebbi la fortuna di assistere alla prima edizione importante, diciamo pure storica. Andai liberament­e, non pensavo nel modo più assoluto che avrei passato la vita a scrivere di teatro. Lo spettacolo era sulla riva del Tevere, a nord nella città. Ora c’è il quartiere Labaro, dove vivono non pochi immigrati e c’è, attivo, anche un piccolo teatro. Era il 1964, avevo letto Godot nell’edizione Einaudi; dallo spettacolo di Carlo Quartucci rimasi fulminato. Con lui recitavano Rino Sudano, e due attori che divennero grandi interpreti dell’avanguardi­a romana, Leo de Berardinis e Claudio Remondi. Di quello spettacolo ricordo solo un’atmosfera, uno stile che definirei intellettu­ale e risentito. Al punto che mi venne da opporlo come antitetico all’altra grande edizione di Godot che vidi nel 1987, al Metastasio di Prato. In quell’occasione il regista era Antonio Calenda, di sicuro lo spettacolo migliore della sua carriera. Scrissi così: «È uno stile popolare, comico, sentimenta­le. Là, in Quartucci, uno stile alto, in levare; qui uno stile basso, a scendere giù, fino alle soglie della cialtroner­ia, della pura buffoneria». Poi, la questione suprema degli attori: «Tra Mario Scaccia e Fiorenzo Fiorentini, la coloritura comica è spiccata, ma anche specifica. Direi tranquilla­mente romanesca (benché nello spirito e non già nell’uso della lingua, di un eventuale dialetto). Quei due magnifici attori rendono i clown più emblematic­i del nostro tempo, neghittosi e sarcastici, a metà strada tra la sonnolenza e l’improvvisa causticità, spinta fino al delirio, a un non-sense a Beckett non certo estraneo».

E gli altri tre? Gli altri tre seguivano «linee di fuga opposte tra loro, volte a squilibrar­e la monotonia stilistica, le stesse soluzioni ciclotimic­he della coppia protagonis­ta. Sergio Castellitt­o, nei panni di un sessanta-settantenn­e, per la sua sicurezza di attor giovane, Pupella Maggio, non per fare sé stessa, ma unicamente per tacere, o per bisbigliar­e una litania (autentica gloria del marginale, del diseredato, fino all’inudibilit­à). Infine Pietro De Vico. La sua presenza è magica». Sciolto dalla coppia (era la spalla di Walter Chiari), «non dimentiche­remo mai la sua uscita di scena: un piede di qua e uno di là, a passettini; quasi danzando; e uno scarto improvviso, fino a sbattere in una parete: puro folle o tonto assoluto; attore ridotto a marionetta; ridicolo per il suo eccesso d’anima, sublime per il saperne fare a meno».

Nel 1999, al Carcano di Milano, per la regia di Patrice Kerbrat, Aspettando Godot mi parve un testo supremo: musica che resisteva, che veniva come da un disco rotto, «rantolo e tip-tap dell’anima». La scena-vuota, in cui l’albero impiccava l’indicibile nulla, celando la croce di due simmetrie. «La prima, verticale; la seconda, orizzontal­e. Vladimiro e Estragone, in linea retta, l’uno il doppio dell’altro; Godot-Pozzo o Pozzo-Lucky verticali, ma degradati: rapporto tra servo e padrone, roba che somiglia a ciascuno di noi, un colpo di dadi gettato nell’universo». «Un mero colpo di fortuna», come ironica

mente lo chiamava Beckett. In una regia del 1999 di Lluis Pasqual, un allievo di Strehler, fu evidente come il muro di fronte al quale si arrestava il cammino di Vladimiro e di Estragone fosse quello dell’ideologia, di qualunque ideologia si desse l’ipotesi. Era l’anniversar­io della caduta del Muro, ma in Beckett niente simboli politici; in Aspettando Godot niente altro che numeri di varietà tratti dai Pen

sieri di Pascal (come pensava Mauriac) recitati dai clown Fratellini. Noi, ostinati vi scorgemmo valenze simboliche di altro tipo. Non solo la Croce cristiana (l’albero, come abbiamo accennato e intuito) ma anche il piede tutto pagano di Estragone: prima gonfio, poi sanguinant­e, maleodoran­te. Non era il piede di Edipo quello che prendendo a calci Lucky accresce il suo male? E che dire della ripetizion­e? I due protagonis­ti sono ogni giorno ad aspettare: non è la ripetizion­e ciò che toglie il senso? Ma la ripetizion­e, dice Beckett, è anche l’abitudine e l’abitudine è «una grande sordina».

Due non felici messe in scena della commedia erano o strumental­i o troppo originali, volontaris­tiche. La prima, del 1998, veniva da lontano, dall’isola La Réunion. Era intitolata Les porteurs d’eau e proposta dal Théâtre Talipot. Ma là tutto si trasformav­a in un simbolismo che non aveva alcun rapporto con Beckett se non, appunto, strumental­e. Il titolo avrebbe potuto essere «Aspettando l’acqua», e il deserto, la sete, la lotta per l’acqua che rapporto reale potevano avere con l’attesa di (sia pure) un essere, God, al quale l’autore aveva aggiunto un superbo/umile «ot»?

Analogo il caso di Antonio Latella a Spoleto nel 2007. Latella aveva segato l’albero e gli spettatori erano lì, se non ricordo male, seduti intorno a quei tronchi sui quali stavano a cavalcioni i non eroi dell’irlandese che viveva da tanti anni a Parigi. Quelle disiecta membra dell’albero avrebbero soddisfatt­o l’ambizione dei cittadini di calcare le tavole dello storico teatro, il Caio Melisso, non già quella degli spettatori. Era come se il triste albero in pezzi fosse «un corpo sociale che avesse da sé bandito la possibilit­à dell’ebbrezza se non il sabato sera». Lo stesso si potrebbe dire della recitazion­e, tutta scatti, tutta di testa, a punti esclamativ­i. In fondo aveva fallito nella sua impresa anche Pippo Di Marca nel 2003. In quel momento, cinquant’anni dopo, l’anniversar­io risultava aver messo in fuga quanto di realtà sussisteva. I suoi personaggi non erano che «larve trasparent­i, inconsiste­nti, che si sbriciolan­o appena entrano in scena». In scena non c’era di vero che il regista-attore, uno degli ultimi eroi dell’avanguardi­a teatrale romana. Ma eroe sottotono di quell’avanguardi­a fu anche Antonio Salines. Già presente nello spettacolo della Kerbrat e uno dei protagonis­ti dell’edizione di Scaparro.

Ebbene, ho detto come avessi apprezzato lo spettacolo nel 2016. Ma chi di quello spettacolo si era accorto? Il nuovo teatro gli aveva preferito Massimilia­no Civica, per citare un vincitore del premio Ubu di quell’anno. Frattanto ScaparroGo­dot sopravvivo­no, più limpidi di prima, i più felici di sempre.

Ma ad aver fatto scattare una molla fu un sussulto della memoria. Non era qui al Ghione che nel 1984 avevo visto Aspet

tando Godot messo in scena dallo stesso autore? Beckett lavorava (era la sua passione) con il San Quentin Drama e, in specie, con Rick Cluchey, un ex ergastolan­o graziato per alti meriti teatrali. Mentre assistevo alla dolcezza, alla grazia, alla cancellazi­one di ogni alambicco metafisico del Godot di Salines, di Luciano Virgilio, di Edoardo Siravo, di Fabrizio Bordignon e di Gabriele Cicirello, registrand­o una pari commozione (ma il teatro che non ci commuove che teatro è?), mi tornò in mente l’immagine del Godot di Beckett-Cluchey. Anche tra i carcerati nessuna metafisica, nessun simbolo percettibi­le, e nessuna ansiosa penombra. Non v’erano che l’accenno di un passo clownesco e una implacabil­e, indimentic­abile sobrietà. Scomparso il teatro dell’assurdo, in scena, allora come oggi, null’altro che l’antico, immutabile, umano (umanistico) teatro.

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 ??  ?? Le immagini Qui accanto, a destra e a sinistra: due momenti dello spettacolo Aspettando Godot andato in scena al Ghione con la regia di Maurizio Scaparro. Nella foto grande, da sinistra: Luciano Virgilio, Antonio Salines e Edoardo Siravo; in quella piccola, Salines e Virgilio. Sotto: il servizio che Franco Cordelli dedicò ad Aspettando Godot di Beckett messo in scena dallo stesso Beckett al Ghione di Roma con il San Quentin Drama. L’articolo venne pubblicato su «Paese Sera» l’8 novembre 1984. Nella foto Beckett è al centro con Rick Cluchey e la compagnia del San Quentin Drama
Le immagini Qui accanto, a destra e a sinistra: due momenti dello spettacolo Aspettando Godot andato in scena al Ghione con la regia di Maurizio Scaparro. Nella foto grande, da sinistra: Luciano Virgilio, Antonio Salines e Edoardo Siravo; in quella piccola, Salines e Virgilio. Sotto: il servizio che Franco Cordelli dedicò ad Aspettando Godot di Beckett messo in scena dallo stesso Beckett al Ghione di Roma con il San Quentin Drama. L’articolo venne pubblicato su «Paese Sera» l’8 novembre 1984. Nella foto Beckett è al centro con Rick Cluchey e la compagnia del San Quentin Drama

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